IV

La letteratura del secondo Settecento fra illuminismo, neoclassicismo e preromanticismo

1. Sviluppi della poetica dall’Arcadia all’illuminismo: Francesco Algarotti

Mentre l’Arcadia trova la sua piú vera espressione poetica nel melodramma metastasiano, essa viene già prima della metà del secolo perdendo la sua forza di linea centrale, oscillante fra aspirazioni e concrete possibilità, ma in queste ultime assai ben consolidata in un gusto medio idillico-elegiaco, melodrammatico e miniaturistico-melodico capace di contenere in sé le spinte dell’incipiente sensismo, del rococò, di piú forti istanze classicistiche, come abbiamo visto, ad esempio, nel caso dello sviluppo poetico del Rolli.

Ma appunto, già prima della metà del secolo, tali spinte vengono prendendo un progressivo maggior vigore o ricollegandosi ad elementi di classicismo didascalico già presenti in aspetti della prima impostazione dell’Arcadia o alimentandosi di un maggior contatto con il movimento di idee e di gusto delle altre culture europee in direzione sensistica e rococò.

Non che l’Arcadia come organizzazione pratica ed accademia letteraria scompaia o riconosca di essere ormai superata. Ché l’Arcadia continuerà, soprattutto in Roma, la sua sempre piú stanca vita per tutto il secolo ed oltre (essa tuttora, com’è noto, esiste, ma trasformata in un’accademia di studio e di ricerche letterarie e critiche), e alla fine del Settecento potranno ancora esservi accolti – accettando con signorile ironia una convenzione innocente e screditata – persino Alfieri e Goethe, mentre essa celebrava soprattutto la sua vita ufficiale con solenni cerimonie e incoronazioni di celebri improvvisatori, come Gorilla Olimpica (Maria Maddalena Morelli) o Bernardino Perfetti, che sembrano meglio rappresentare una concezione della poesia sempre piú esteriore e convenzionale. Ma in sostanza, malgrado vari tentativi di piú attivo rilancio della funzione dell’Arcadia romana e delle sue colonie o di riassorbimento delle nuove tendenze letterarie, l’Arcadia appare sempre piú svuotata dei suoi raccordi con modi di vita, di cultura e di letteratura, cosí vivi invece nei primi decenni del secolo. Ci si trova sempre piú, dunque, di fronte ad una crescente evoluzione e trasformazione del gusto e delle tendenze poetiche che dal seno stesso dell’Arcadia, e spesso ad opera di scrittori ben inseriti nella matrice arcadica, venivano pronunciandosi verso nuovi impegni culturali-letterari e venivano adeguandosi a nuove istanze generali della mentalità e della cultura, fra un piú marcato preilluminismo e la vera affermazione della civiltà illuministica in Italia.

Si pensi alla essenziale presenza dell’Algarotti, già attivo intorno al ’37 con il suo Neutonianismo per le dame, in direzione di una letteratura divulgativa e scientifica e di nuove prospettive della stessa «bellezza» in funzione di nuove «cose» da dire.

Ma si pensi anche – in una diversa direzione di gusto e con radici ben salde nella matrice estetica della stessa Arcadia – alle proposte e indicazioni che possono emergere dall’attività di Antonio Conti[1], già ben iniziata entro la zona della polemica Orsi-Bouhours, ma certo profilatasi con maggiore incisività e novità piú tardi, fra i nuovi stimoli ricevuti in Francia e in Inghilterra, il concreto esercizio poetico di poemetti didascalici e classicistici, di traduzioni dai classici e dai moderni stranieri, di tragedie storiche rafforzate dalla piú vasta conoscenza del teatro tragico non solo francese, ma inglese (da una parte il teatro di primo Settecento, come il Catone di Addison, dall’altra persino il teatro shakespeariano).

La figura intera e complessa del Conti – che meriterebbe ben altro sviluppo di quello qui permessomi e che ancor oggi richiede una piú sicura conoscenza e pubblicazione dei suoi scritti in parte ancora inediti[2] – è estremamente importante sia nella piú inquieta dinamica di forze e personalità meno assimilabili alla «media» della letteratura arcadica, sia appunto nel valore di proposte estetico-pragmatiche che dall’Arcadia fuoriescono verso l’epoca di metà secolo e sin verso gli svolgimenti del neoclassicismo fino al Foscolo, che al Conti, come al Gravina, indubbiamente molto guardò nella sua poetica mitico-didascalica e in alcuni dei suoi stessi giudizi critici: basti ricordare la ripresa, per l’Ariosto, dell’importante nodo contiano del «credibile» e del «mirabile» uniti nel «particolareggiamento» entro la centrale, anche se spostata, formula del «naturale e del meraviglioso» nel saggio foscoliano.

Proprio nell’intreccio fervido e attivo fra meditazione teorico-estetica e attività critica – in un lungo e complesso processo di sviluppo personale arricchito dalla piú forte conoscenza del pensiero estetico e critico francese ed inglese contemporaneo e dalla stessa esperienza delle letterature occidentali – il Conti trovò la forza di giungere a formulazioni teorico-pragmatiche che superano le condizioni piú consolidate della poetica arcadica e culminano – pur con incertezze, dubbi, compromessi eclettici – nel rilancio piú maturo di alcune esigenze già impostate dal Gravina e che si aprono verso le posizioni di unione poesia-filosofia che saran dominanti nel clima medio dell’epoca illuministica e insieme sembrano scavalcarle verso l’impostazione di posizioni neoclassiche.

Cosí, mentre in direzione di poetiche illuministico-sensistiche si collocano le forti accentuazioni del legame fra poesia e «cose» e natura realizzato nel «particolareggiamento» delle immagini («l’energia o il particolareggiamento, ch’è l’organo dell’imitazione efficace, non può ricavarsi se non dalla considerazione delle cose istesse», «molto piú imiterà il Poeta, se farà vedere le cose con maggior evidenza e con maggior energia. Leggendo le Georgiche di Virgilio non si vedono forse i bovi ad arar le terre, nitrir i cavalli, e ronzar l’api?»[3]), anche il rapporto fra poesia e filosofia ribadito ancora nella confutazione delle tesi dello Hutcheson, circa un senso apposito della bellezza, permette, fra l’altro, al Conti di dar nuovo valore alla prosa scientifica di Galileo e della sua scuola; ed infine, piú aperto verso condizioni neoclassiche, si precisa, specie nel Trattato de’ fantasmi poetici, un piú forte senso creativo e mitico della poesia e del suo aspetto di imitazione ideale.

Mentre a dar valore al significato di proposta di nuova poetica delle sue formulazioni estetico-critiche contribuisce lo stesso esercizio poetico del Conti, che punta su poemetti dottrinali, propri di un poeta-filosofo e di un classicista moderno teso al rinnovamento di miti antichi riempiti di moderna verità (Il globo di Venere e Lo scudo di Pallade), e su tragedie storico-politiche di argomento romano (il Giulio Cesare pubblicato nel ’26, il Giunio Bruto, il Marco Bruto, il Druso, pubblicati fra il ’43 e il ’48) che intendevano – sulla base di un’accuratissima documentazione storica (esposta nelle lunghissime prefazioni alle singole tragedie) – realizzare un tipo di tragedia classico-moderna e «nazionale» (cui non mancò qualche suggestione del teatro shakespeariano), conciliante l’ideale filosofico e la realtà umana della storia.

E se in quelle tragedie – che scartano la via media ed arcadica seguita dal Maffei nella Merope, nell’ambizione di una serietà e severità tanto maggiori, di una costruzione tanto piú robusta su sentimenti e passioni attinti alla politica e alla storia[4] – non si può dire che all’intento corrispondesse un adeguato risultato artistico, in esse sarà almeno da cogliere (insieme all’interesse della proposta) una indiscutibile diversità e novità – rispetto al linguaggio tragico-melodrammatico arcadico – nel discorso poetico-drammatico, nell’uso decoroso e teso del verso sciolto, su di una via di linguaggio che sarà variamente esercitato nel crescente classicismo di metà secolo e poi nel neoclassicismo vero e proprio.

A questa forma di discorso e linguaggio poetico il Conti collaborò anche con le sue importanti e numerose versioni poetiche – per lo piú assai libere e originali – dal greco (Anacreonte, Saffo, Simonide, Callimaco), dal latino (Orazio, il Virgilio dell’ecloga sesta, il Catullo traduttore della Chioma di Berenice di Callimaco), dal francese (l’Atalia di Racine e la Merope di Voltaire), dall’inglese (le poesie della Montagu, il Saggio di poetica dello Sheffield, la Lettera di Eloisa ad Abelardo e il Riccio rapito del Pope).

Tutte versioni importanti e per le scelte e per il ricavo che dagli originali il Conti traeva in un vario arricchimento del discorso e linguaggio poetico italiano sia in direzione di un severo classicismo, sia in quella – cosí ben realizzata nella versione del Riccio rapito del Pope – di un gusto classicistico-sensistico che l’animazione essenziale di una ironia critica, rafforzata dall’uso di una componente rococò, portava alla rappresentazione satirica e deformante, ma viva, della piccola realtà di una società mondana, frivola e pur attraente. Basti qui riportare dalla versione del Riccio rapito una sequenza di versi che ben indica la suggestione di un simile discorso poetico nella direzione di un classicismo elegante e sensuosamente capace di rendere l’evidenza di oggetti e azioni:

Vibrava il sole timoroso il raggio

per le bianche cortine e dischiudea

quegli occhi che oscurar doveano il giorno.

Ne le morbide ceste i sonnacchiosi

barbetti[5] si scuotevano, e gli amanti,

privi ognora di sonno, al mezzo giorno

appunto risvegliavansi. Tre volte

l’importuna pianella il suol percosso,

tre tintinnito il campanello avea;

e l’orïol dal pollice compresso

gía ripetendo l’argentino suono.[6]

E proprio nella prefazione alla versione del Riccio rapito un’affermazione del Conti sulla diversità della situazione letteraria italiana rispetto a quella di altre nazioni ci riconduce a sottolineare come la presenza di questo interessante pensatore e scrittore diventi significativa nella formazione di nuove istanze, di nuovi rilanci di una riforma del gusto e della cultura nei loro inseparabili rapporti, che troverà, già prima della metà del secolo, un assertore ancor piú chiaramente intonato al passaggio dall’Arcadia all’illuminismo in Francesco Algarotti.

Io spero ch’egli vi procurerà – dice il Conti al marchese Repetta dedicandogli il Riccio rapito – un’ora di lettura piacevole e vi scoprirà nel tempo stesso che, mentre alcuni de’ nostri poeti impiegano gli studi loro a far dei centoni del Petrarca, le altre nazioni aspirano a meritar il nome di poeta, cioè d’artefice di cose nuove.[7]

Le linee tensive che conducono dall’Arcadia all’epoca incentrata nella diffusione e affermazione dell’illuminismo possono soprattutto ritrovarsi nell’opera vasta e complessa di Francesco Algarotti, letterato-filosofo o, come lo chiamò il Bettinelli, «filosofo leggiadro e util poeta» e «tosco Orazio», con una definizione che ben rappresenta un incontro di qualità di rinnovata saggezza ispirata ai classici, di «utilità» e «leggiadria» poetica e divulgativa di idee filosofiche, corrispondenti a istanze medie e diffuse della civiltà e della letteratura illuministica italiana ed europea, anche se ancora lontane dal severo impegno combattivo di un Parini e dei veri e propri illuministi.

L’Algarotti, nato a Venezia l’11 dicembre del 1712 da una famiglia di ricchi commercianti (e dunque dal seno della nuova borghesia in sviluppo e sempre piú attiva nella cultura), ebbe la sua formazione culturale e letteraria, dopo i primi studi nella città natale, alla scuola del Lodoli, a Bologna, a Padova, a Firenze (dal ’26 al ’33), avviando – soprattutto a Bologna nel fervido ambiente degli scienziati-letterati dominato dalla personalità del Manfredi – la sua forte e congeniale disposizione ad unire interessi per le arti figurative e per la letteratura (e come poeta esordí presto con una raccolta di rime interessanti soprattutto per certa irrequieta volontà di arricchimento linguistico piú classicheggiante sulla base del petrarchismo bolognese) ed interessi scientifici esercitati in esperimenti di ottica e di astronomia, consolidati in una dissertazione latina sull’ottica newtoniana e in un Saggio sopra la durata de’ regni de’ re di Roma, del 1729, in cui veniva applicato alla storia il metodo cronologico del Newton.

Dopo un breve soggiorno a Roma – che ampliò la rete già ricca di importanti relazioni con dotti e letterati, a cui l’Algarotti fu particolarmente portato dalla sua natura socievole e dalla sua forte curiosità per uomini, costumi, cognizioni –, il giovane scrittore poté aprirsi all’essenziale esperienza della cultura europea con una lunga serie di viaggi e soggiorni – interrotti solo da alcuni ritorni in Italia nel ’37 e nel ’49 – prima a Parigi, poi in Inghilterra, spingendosi da qui in Russia per fermarsi quindi in Germania, prima a Berlino, dal ’40 al ’42, poi a Dresda (dal ’42 al ’46 presso l’elettore di Sassonia, Augusto III, consigliere di guerra e incaricato di raccogliere in Italia opere d’arte per la Galleria di Dresda) e ancora, dal ’46 al ’53, a Berlino dove Federico II si serví di lui come diplomatico, poco fortunato, e soprattutto come letterato-filosofo nella sua corte di re assolutistico-illuminato, nominandolo suo ciambellano e conte. Vasta esperienza europea essenziale nell’arricchimento della cultura dell’Algarotti sia per le nuove possibilità di contatti e rapporti con letterati e filosofi (dal Maupertuis, al Pope, al Voltaire, allo stesso Federico II), sia per la conoscenza di paesi, costumi, condizioni economiche, politiche e culturali che tanto contribuirono a render piú concreti e particolareggiati i vasti interessi dello scrittore.

Ritornato in Italia nel 1753, l’Algarotti soggiornò a Venezia, a Bologna (dove istituí l’Accademia degli Indomiti), a Pisa, dove si era recato nella speranza di curare la sua salute, minata dalla tisi, e dove morí il 3 maggio 1764.

Già la sua biografia, il suo modo di vita di viaggiatore, di cosmopolita, di letterato collaboratore del maggiore rappresentante del dispotismo illuminato, la sua intensa vita di relazione arricchita dalla vastissima corrispondenza con letterati, politici, scienziati italiani ed europei, ci aiutano a situare la centrale importanza dell’Algarotti in un periodo in cui i rapporti fra Italia ed Europa – pur non mancando certo nell’epoca arcadico-razionalistica – si fanno piú stretti, diretti, fecondi, aiutando la cultura italiana a rompere con concezioni culturali e letterarie piú tradizionali e conservative, a divenire (pur con caratteri generali di minore audacia e di persistenti componenti limitative specie di ordine religioso) parte attiva dell’Europa dei «lumi».

Di tale momento storico, culturale e letterario l’Algarotti è appunto singolare rappresentante e promotore, cosí come la sua stessa opera letteraria-culturale trova le sue forme piú tipiche di espressione proprio nei moduli e schemi di una letteratura di relazione e di divulgazione-diffusione di idee e di interessi: la vera e propria lettera di corrispondenza, modo fondamentale di comunicazione e di discussione sollecitata e riscaldata da un attrito di idee in fermento e di personalità concrete; il «saggio» e il «dialogo» dedicati a singoli argomenti e affidati a qualità di finezza, velocità, scioltezza e comunicabilità scrittoria; l’epistola in versi adatta a riproporre, sul piano nobilitante del metro – ma un metro duttile e discorsivo-narrativo come è lo sciolto algarottiano – l’essenziale esigenza comunicativa dello scrittore, la sua disponibilità alla trattazione di argomenti vari e occasionati dai suoi vivi e molteplici interessi. Magari fino al limite di una certa dispersività e mondana conversevolezza poco profonda, ma non senza un fondo e un piano di piú interne scelte e direzioni.

Perché alle piú dure stroncature di contemporanei e di critici ottocenteschi puntate sulla leggerezza, mondanità, galanteria, «leggiadria» e superficialità del «contino» e del «cortigiano di Potsdam» (cosí come a quelle sul suo stile «infranciosato») si dovrà pur replicare con un’equa considerazione piú positiva e storica della sua funzione culturale e letteraria nella preparazione della cultura e letteratura illuministica italiana e della sua stessa disposizione divulgativa, cosí come si dovrà convenientemente calcolare la sua capacità scrittoria e lo stesso sforzo linguistico e stilistico nel suo significativo passaggio da un piú diretto uso ed abuso di gallicismi e moduli francesi ad una prosa piú equilibrata fra sollecitazioni della prosa francese e una ripresa ammodernata e libera della tradizione italiana.

Già la prima notissima opera dell’Algarotti, il Neutonianismo per le dame, terminata a Parigi nel 1737 (e poi ripresa, corretta, perfezionata piú tardi con il nuovo titolo di Dialoghi sopra l’ottica neutoniana e appunto, come dicevo sopra, riscritta alla luce di un ideale linguistico e stilistico piú equilibrato e sicuro), non può ridursi ad un semplice e futile divertimento letterario e galante, ricalcato sui dialoghi del Fontenelle, ché in realtà l’insaporimento prezioso e galante, legato alla destinazione «per le dame» (e alla presenza nel dialogo di una Marchesa, rappresentante del pubblico femminile cui l’autore si rivolge) e il giuoco letterario fra ironico e conversevole di gusto arcadico-rococò[8] non rimangono mai del tutto separati dal fondo divulgativo-scientifico e dalla tensione di rinnovamento culturale e letterario che indubbiamente vivono nell’operetta e che già in questa prima fase dell’attività algarottiana indicano nel letterato-filosofo un chiaro impegno di agile battaglia non solo contro il razionalismo cartesiano e la sua metafisica in nome della nuova prospettiva antimetafisica rappresentata dal sistema sperimentale newtoniano, ma piú generalmente contro i pregiudizi, i conformismi, l’ignoranza consolidata in una falsa cultura, specie guardando alla situazione culturale e letteraria italiana.

Sicché sarà da ben considerare – insieme all’ardore combattivo del giovane scrittore impegnato, al suo entusiasmo per i «martiri della ragione» quale fu tra noi Galileo[9] – un brano come quello che qui riporto, piú direttamente pertinente all’intenzione algarottiana di rinnovare, con una letteratura collegata alla scienza e alla verità (e perciò anche stilisticamente e linguisticamente moderna e nuova), lo stato arretrato della letteratura e cultura italiana, quale egli la considerava entro una prospettiva europea, anche se non senza ingiustizia e parzialità:

Se si eccettua la traduzione di qualche libro francese, non si vedono da noi, che Canzonieri e raccolte di Rime, incomodi del secolo, che inondan tutto giorno. Tra i libri moderni, in Italiana favella scritti, le dame non ânno da leggere, che sonetti pieni d’amor Metafisico e Platonico, il quale io penso debba far loro quell’effetto, che l’espressioni fanno de’ vecchi cicisbei. Il secolo delle cose venga una volta anche per noi, e il sapere non ad ammollir l’animo o a piatire sopra una vecchia e disusata frase, ma a pulir serva se è possibile, e ad abbellir la Società. Io avrò almeno fatto la strada a qualche cosa, che non sarà né Grammatica, né Sonetto...[10]

Certo lo stesso programma di una nuova prosa[11] non si può dire interamente attuato dall’Algarotti, che a volte ricade nei periodi «intralciati» rimproverati alla prosa accademica italiana del tempo e che, altre volte, rischia viceversa la troppo diretta ripresa di moduli francesi e crudi gallicismi (sicché, come dicevo, sentí piú tardi il bisogno di riscrivere la sua opera giovanile); cosí come non si può non avvertire un limite, malgrado tutto, piú letterario nella prospettiva polemica dell’Algarotti. Il quale, piú tardi, proprio alla letteratura ancora piú direttamente mirò in quel romanzetto Il congresso di Citera (1745) che, riprendendo assai liberamente l’esempio del montesquieuiano Temple de Gnide, e in una prosa leggera e festevolmente ironica, satireggia – attraverso il confronto di tre dame, una francese, una inglese, una italiana, intenzionalmente chiamata «Madonna Beatrice» – il costume italiano soprattutto nella sua predilezione per la rimeria arcadica, amorosa, platonizzante e petrarchistica[12]. Anche se poi di fronte alla concezione dell’amore delle altre due dame l’autore proporrà una nozione di sentimento «naturale» senza moralistiche coercizioni o idealizzamenti assurdi, ma pure senza depravazioni e pervertimenti, ed anche se, di nuovo, sotto la prospettiva piú letteraria e il divertissement raffinato (in forme affiatate con componenti del gusto rococò e classicistico-sensistico[13]), può pur risaltare come lo sforzo algarottiano di critica della situazione letteraria italiana non manchi mai di raccordi con il costume, la società, la cultura, a cui la sua forte attenzione sempre lo spinge pur entro il cerchio della sua piú risentita vocazione letteraria. Attenzione ed interesse che tanto piú direttamente si esplicitano in quelle lettere a Lord Hervey, Viaggi di Russia, che narrano appunto il suo viaggio, nel 1739, dall’Inghilterra in Russia e, nella vasta raggiera dei suoi interessi, si aprono liberamente, e in una prosa spigliata ed alacre, sia ad impressioni colorite di incontri di navi e di flotte durante il viaggio per mare, sia a rapide, incisive descrizioni di porti olandesi, danesi, russi, sia a relazioni precise ed acute sulla struttura politica, economica, militare dell’impero russo.

Ed è su questa direzione di interessi (meglio che semplici «curiosità»), sempre piú sollecitati dalle esperienze concrete di paesi, di uomini, di governi, di società diverse (con al centro la simpatia per la Francia e – ancor piú viva – per l’Inghilterra con la sua vita culturale «piena di cose» e criticamente spregiudicata, con la vigoria che le viene dalla «libertà del governo»[14]), che si sviluppa una particolare linea di saggistica piú direttamente intonata alle nuove istanze ed idee illuministiche: quella dei saggi storici, filosofico-scientifici e persino militari, in cui l’Algarotti dimostra – pur nei limiti di una coscienza illuministica meno decisa e coerente e nella mancanza del saldo possesso dell’illuministico slancio umanitario – la sua capacità di divulgazione di nuovi problemi del tempo, il suo contributo ad un allargamento dell’orizzonte culturale italiano, l’acutezza e il buon senso dei suoi interventi, sia sull’essenziale questione dell’arretratezza del cartesianismo e del valore del nuovo metodo newtoniano (il saggio Sopra il Cartesio), sia su questioni storiche particolari, rivedute con notevole acume storico e con l’ausilio di un adeguato possesso del pensiero del Machiavelli (il Saggio critico sul Triumvirato di Crasso, Pompeo e Cesare, del ’39-41) o (come nel Saggio sopra l’imperio degli Incas, del ’53) con interessante adesione alla nuova valutazione positiva di civiltà «primitive», accettata malgrado il fondo piú costante del suo classicismo e della sua ammirazione per le civiltà classiche[15].

Ma insieme a questa problematica piú culturale-filosofica, l’Algarotti svolse anche piú ampiamente – con piú esperta sicurezza di intellettuale e letterato, con notevoli doti di senso critico e con piú chiari programmi di rinnovamento della letteratura italiana dopo la fase piú tipicamente arcadica – una larga problematica culturale-letteraria, che si appoggia al nuovo e aggiornato rilancio del nesso fra letteratura e scienza, cultura e politica (donde l’avvertimento algarottiano della triste situazione di fondo degli italiani «servi e divisi», mancanti di una capitale unificatrice dei loro sforzi troppo locali e dispersi), e si configura – entro un vasto e a volte piú dispersivo raggio di interventi e proposte – in una sostanziale posizione di classicismo moderno.

E a questo dan forza e concretezza gli esami della letteratura del passato classico e italiano, ricchi di giudizi spesso assai originali e stimolanti[16], l’attenzione rivolta a scrittori moderni stranieri (al centro il Pope, che, pur censurato per certa esuberanza di immagini e antitesi, è altamente lodato per il tono galante e ironico e l’organicità misurata e snella del Riccio rapito), la stessa fertile esperienza delle arti figurative che, se da una parte si eleva a proposte interessanti specie sul carattere funzionale dell’architettura[17], piú generalmente contribuisce alla formulazione della proposta di una letteratura discorsiva e didascalica (in funzione dei doveri culturali e illuminanti della poesia), ma insieme tesa all’evidenza sensuosa, al rilievo delle «cose» e degli «affetti» avvivati dal colore e dal disegno frizzante di tipo rococò e siglato dal nitore e dalla perspicuitas classica.

Tale proposta è collegata al vivo interesse linguistico dell’Algarotti e alla sua discussione in proposito, che si articola soprattutto fra il saggio Sopra la lingua francese e quello Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua, in cui lo scrittore veneziano lucidamente distingue la diversa storia della lingua francese e di quella italiana e, su tale base storica, si spinge all’idea dei diritti dell’uso corrente, «vero padron delle lingue», giungendo di nuovo ad una sorta di classicismo moderno e nazionale, di equilibrio fra tradizione e modernità, fra doveri di correttezza e doveri di comunicabilità efficace che egli cercò di attuare soprattutto nella sua prosa piú matura e, come già dicevo, nella nuova forma del Neutonianismo, cioè Dialoghi sopra l’ottica neutoniana.

Quanto alla poesia – a parte le giovanili rime e, piú tardi, gli infelici tentativi teatrali: in francese una Iphigénie en Aulide, in italiano un abbozzo scenico, Enea in Troia –, l’Algarotti tentò di applicare in proprio le sue istanze programmatiche piú generali e quella piú particolare del necessario uso del verso sciolto come strumento di una poesia classico-moderna, all’insegna della sua preminente funzione didascalica e «utile» e della stessa ripresa – nell’approssimativa vicinanza fra endecasillabo sciolto ed esametro – di un discorso poetico arieggiante il nobile e organico movimento della poesia classica. Sostanzialmente prive di veri accenti e animazione poetica, le sue Epistole in versi (da cui il Bettinelli riprese esempi, insieme a versi suoi e del Frugoni, nei Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori viventi accompagnati dalle Lettere virgiliane, 1757[18]) son tuttavia interessanti per la loro volontà di presentare un tipo di poesia didascalica e addirittura capace di divulgare – a piú alto livello della prosa – verità, idee o addirittura procedimenti scientifici.

Ma piú interessanti (anche se una minuta operazione antologica potrebbe pur isolare qualche sequenza piú gustosa e descrittiva, specie in qualche raro «paesaggio», entro una zona di gusto assai diffuso e in qualche modo modestamente prepariniano) sono certe dichiarazioni programmatiche che si possono enucleare dalle stesse epistole in versi o da altri scritti algarottiani.

Cosí nell’epistola dodicesima potrà colpire – oltre alla enfatica volontà di tentare «non battuti sentier, non bassi stagni / novelle vie, acque profonde e cupe» – l’auspicio di un vero nuovo poeta (lui stesso o un altro, stimolato dalla sua poetica)

tal, che del vero

siegua le belle scorte, audace e saggio,

che sparga fiori, e asconda frutti a un tempo

ne’ dolci versi, ond’anco Italia un giorno

d’un poeta filosofo sia bella.[19]

Un «poeta filosofo» che insieme sappia trarre stimoli ed esempi non solo dalla tradizione italiana, ma dalle letterature straniere (precisamente francese e inglese) e dal grande «oceano» della letteratura latina e greca.

Dunque una proposta di poetica assai centrale nell’aprirsi della letteratura poetica dell’epoca illuministica, specie se la si colleghi, da una parte, con le varie affermazioni e osservazioni del Saggio sopra Orazio, del 1760, dall’altra con quelle del Saggio sopra la rima (1752): il primo interessante per l’esemplarità di quel «classico», di quel «poeta savio festivo e leggiadro, pieno di moralità e di spirito, che ha scritto per tutte le condizioni della vita e in cui trova ogni uomo da specchiarsi e da far suo profitto»[20] – ma con l’avvertenza poi che la stessa esemplarità di simili classici deve condurre non ad una «imitazione», ma a «imprimere la maestà e il decoro» della espressione degli antichi «nelle cose nostrali e moderne»[21] –; il secondo interessante per l’elogio del verso sciolto come verso del classicismo moderno e della nuova e piú seria auspicata poesia, anche se – e pur questo è interessante – l’Algarotti ammette l’uso dei metri rimati (e meglio se, in questo caso, brevi) per gli argomenti erotici e piú «direttamente volti alla leggiadria»[22]: come autorizzando, dal seno della poetica di metà secolo nei suoi sviluppi di classicismo illuministico e rococò, sia la linea della poesia didascalica, sia quella della lirica erotica e classicistico-rococò che troverà la sua espressione piú tipica negli Amori del Savioli.

2. Sviluppo della poesia didascalica, satirica e favolistica fra eredità arcadica e istanze illuministiche

Se la problematica culturale dell’Algarotti è premessa agli sviluppi ideologici del vero e proprio illuminismo italiano (trattati nella sezione del Diaz), entro le generali direzioni indicate dalle proposte del poeta «filosofo», «utile», divulgatore di esperienze e di cognizioni, che troveranno un originale impegno e uno sviluppo coerentemente illuministico e poetico solo nel Parini, specie nella sua fase piú apertamente combattiva, si può collocare anzitutto – con la varia forza delle componenti del sensismo e del classicismo, della grazia e vivacità rococò e magari con piú forti residui della leggiadria e della melodia di origine arcadica – la vasta produzione di poemetti didascalici che si fa piú intensa e compatta nei decenni centrali del secolo, per prolungarsi entro la zona neoclassica e sin agli inizi del nuovo secolo, quando sull’impegno didascalico ancor piú chiaramente prevale il pretesto di un’esercitazione poetica piú autonoma e compiaciuta di se stessa e della sua bellezza.

Non erano mancati anche nel periodo arcadico vero e proprio esempi di poesia didascalica, di filosofia esposta in serie di sonetti (ad esempio la Filosofia esposta in sonetti del Calbi), ma è solo verso la metà del secolo che tale tendenza trova le sue giustificazioni piú adeguate nella nuova atmosfera di gusto e di idee, nella sollecitazione di forme di poesia didascalica, filosofica e descrittiva europea, oggetto di traduzioni poetiche, come lo sono i poemi didascalici latini dell’epoca antica e dell’epoca rinascimentale. Traduzioni poetiche in verso sciolto (strumento essenziale della poesia dell’epoca preilluministica-illuministica, come abbiamo già accennato) che collaborano nel linguaggio di questa nuova poesia e che meriterebbero un adeguato studio, come è piú recentemente avvenuto nel caso precoce dell’importantissima traduzione del De rerum natura lucreziano da parte dello scienziato-letterato della prearcadia toscana, Alessandro Marchetti (1633-1714)[23], pubblicato postumo a Londra a cura del Rolli nel 1717 e chiaramente presente ed esemplare – pur nei suoi caratteri piú antiquati di gusto prearcadico – ai nuovi traduttori e scrittori di poemi didascalici[24]. Come lo meriterebbero quelle numerose versioni di poemi filosofici e morali del Pope (significativamente chiamato spesso «Orazio inglese»: ché Orazio, come abbiamo visto parlando dell’Algarotti, è uno degli autori classici piú amati dai letterati illuministici per la sua unione di saggezza e di stile, di ragionevolezza, di esperienza concreta, di eleganza) che – come il suo Essay on criticism e il suo Essay on man – portavano, insieme ad esempi di moduli di linguaggio classicistico moderno, vere e proprie lezioni di poetica e di mentalità razionalistico-empiristica[25], in direzione di una poesia che unisse intelligenza e nitore stilistico, impegno didascalico-umanitario e animata, sensuosa perspicuitas espressiva[26]. Mentre alla base di una poesia didascalica – che pur riprende dalla tradizione italiana gli esempi cinquecenteschi dei poemi del Rucellai e dell’Alamanni – volta soprattutto alla descrizione di attività, cose e modi di vita della campagna, si deve avvertire, con varia forza di stimolo e con raccordi, a nuovo livello, con il gusto pastorale e «naturale» dell’Arcadia, la sollecitazione di una coerente unione fra amore sensistico delle cose e delle esperienze concrete e nuovi miti, di ascendenza o consonanza rousseauiana, della schiettezza della natura, della sua poeticità e serena bellezza, variamente arricchita dalla nobilitazione classicistica delle favole mitologiche connesse ad aspetti ed operazioni della vita campestre o magari marittima e dalla coloritura pittoresca del gusto classicistico-rococò.

Ecco cosí – al di là del piú arcadico e fiacco Canapaio (1741) del Baruffaldi (Ferrara 1675-1755) – presentarcisi gli esempi piú apprezzabili di questa corrente, i cui limiti sono o una letterarietà piú esplicita o un impegno descrittivo piú chiuso.

Saranno i poemetti del gesuita Giambattista Roberti[27] (Bassano 1719-1786) su Le fragole (1752) o su Le perle (1756), piú chiaramente volti ad un raffinato ed aggraziato rilievo di cose ed azioni – cui già si indirizzava la stessa scelta piú preziosa degli argomenti – adornato di miti classici e di nuove «favole» (come quella che dipinge la «candida» vita beata di un vecchio pescatore), ma pure incentrato in una spinta descrittiva ed evidenziatrice recuperabile anche nei passi piú pittorici e «delicati»: come questo dedicato – nelle Perle – all’elogio e identificazione dei pregi e dei meriti della rugiada:

E non è forse poi l’alma rugiada,

che su le fresche foglie e l’erbe fresche

accolta in gocce lucide ritonde

quasi s’imperla, onde al novello raggio,

che spiega obliquo per gli erbosi piani

il mattutino sol, lustro è di bianca

luce tremante l’orto aprico e ’l prato?

E non è la rugiada il piú costante,

il piú fecondo don che lieti faccia

i parti tutti de la Madre antica?

Per lei ne’ pinti vasi si conforta

il dilicato gelsomin, delizia

di cultrice donzella solitaria,

e colle folte candide ciocchette

distingue i tenui ramuscei fogliosi.[28]

O sarà il poemetto Il baco da seta (1756) del veronese Zaccaria Betti (1732-1788)[29] che piú fortemente si impegna – pur non rifiutando affatto l’incentivo nobilitante e letterario dei miti classici (la lunga ripresa della storia di Piramo e Tisbe per spiegare la colorazione scura dei gelsi a causa del sangue su di essi versato dai due amanti infelici) – nella descrizione delle operazioni connesse alla coltivazione dei gelsi e dei bachi da seta.[30]

E cosí nella Coltivazione del riso del veronese Giambattista Spolverini (1695-1762), finito nel 1746, ma pubblicato nel 1758, un piú chiaro rapporto con i poemi didascalico-georgici cinquecenteschi non esclude nel suo interesse letterario né un sincero affetto personale per la vita agricola a cui fu dedicata gran parte delle cure del nobile proprietario illuminato e umanitario, né il nuovo e piú denso gusto di descrizione sensuosa e classicistica, come può rilevarsi nel passo seguente:

Ora cresca il lavoro, e già ristrette

s’incomincin le spiche in picciol fasci

con la stessa a legar recisa paglia,

e con vinco sottil che agevolmente

offre di quella in vece, ove sia troppo

o rara o corta, il flessuoso salcio.

In lung’ordine omai pronti al trasporto,

vengan carri o battelli, e d’alte biche

s’empia e risuoni del romor diverso

di chi va, di chi vien la ben fatt’aia:

là si scarichi in fretta, qui s’adatti

ritto in piedi ogni fascio; e tal fra loro

con le spiche a l’insú stian giunti e stretti,

ch’uno a l’altro puntel formi e sostegno...[31]

Mentre nel piú tardo poemetto in ottave Della coltivazione de’ monti, 1778, del veronese Bartolomeo Lorenzi (1732-1822), emerge un piú chiaro e preciso interesse descrittivo, ben verificabile anche in questa breve sequenza di versi che vuol rappresentare la costruzione di un muro a secco:

Dietro la corda orizzontal, che il letto

segna a le pietre, le maggior dispone,

sí che mostrando il suo migliore aspetto

i ciottoli minor dentro imprigione:

però fra ’l rozzo popolo architetto

a pochi e saggi il farne scelta impone.

Sorga acclive il lavoro, e vada errato

di giunture il seguace al primo strato.[32]

Rigido descrittivismo che può far comprendere la critica che ad esso muoverà il «poeta» Parini[33], il quale pur certo poté giovarsi anche dei primi esempi della poesia didascalica di metà Settecento, ma che tanft diversamente realizzò la spinta didascalica dell’epoca illuministica in vera e complessa poesia.

Cosí come il Parini ben si inserisce, con tanto diversa forza poetica e coscienza ideologico-storica, nella vasta tendenza dell’epoca illuministica verso una poesia satirica e polemica che svaria fra punte piú dure di versificazioni di argomenti ideologici e morali e piú eleganti e letterari componimenti poetici che congiungono, in forma piú amabile e compiaciuta, temi e toni di saggezza morale – alla luce degli ideali medi del tempo – a forme satiriche e giocose esercitate su usi, storture, atteggiamenti del costume contemporaneo e della piú generale natura umana.

Per una piú decisa volontà di una poesia didascalico-satirica stretta piú direttamente alle idee dell’illuminismo (e d’altra parte per i rischi prosastici di simile impostazione, e in contrasto, per le ricadute in piú facili forme canzonettistiche) sarà da ricordare proprio un emulo e avversario del Parini: quel Giuseppe Colpani di Brescia (1739-1822) che – aderendo direttamente alle idee del «Caffè» (di cui fu collaboratore) – cercò di divulgarle con una singolare divaricazione fra le forme piú discorsive di veri poemetti didascalici, La filosofia, Le comete, L’Emilia o l’educazione delle donne, la Toletta (in cui mette in versi la teoria sensistica del piacere), Il gusto, Il commercio (difesa contro la satira fattane dal Parini) e il gusto di canzonetta savioliana esercitato con sommaria e scialba eleganza su temi mondani e galanti.

Mentre sulla via di una satira morale e di costume, bonaria e discorsiva (fino alla prolissità piú insopportabile), si dovrà collocare il celebre poema in centoun canti in ottave Il Cicerone (pubblicato fra il 1755 e il 1774) di Gian Carlo Passeroni (Condamine di Lantosca, nel Nizzardo 1713-Milano 1803), amico del Parini a Milano – dove fu attivo socio dell’Accademia dei Trasformati e trascorse la maggior parte della sua vita modestissima di povero prete, sostenuta da una serena dignità e da un sicuro disprezzo di cariche ed onori – e autore anche di altre rime morali, giocose, satiriche e di favole esopiane ispirate ad un mediocre, ma sincero buon senso, ad un centrale sentimento della «misura».

«Misura» che il Passeroni ritiene – con un convergere in quella della sua fede cristiana e della sua fiducia illuministica – essenziale nella vita dell’universo, negli intenti del creatore di questo, nella prospettiva morale degli uomini. Come egli dice nella morale di una delle sue favole (Cerere e il villano), verificando la stoltezza del villano che ha ottenuto – come scioccamente aveva chiesto – da Cerere spighe senza spine e cosí ha perso tutto il raccolto, divorato dagli uccelli per la mancanza della difesa delle spine:

Cosí disse, e chiaro appare

che ogni cosa con misura

fe’ l’Autor della natura,

e che d’uopo è sopportare

qualche lieve sconcio in pace,

per avere un ben verace.[34]

Già questi versi indicano il tono mediocre e bonario, la modestia dello stile del Passeroni: tono e stile che si ritrovano poi nel poema, il quale, sul pretesto della narrazione della vita di Cicerone – esempio di saggezza e di misura –, si prolunga all’eccesso con infinite digressioni e lunghi quadri di costume satireggiato con prevalente tenue comicità, anche se certo alla luce di onesti e sinceri ideali di vita personale, familiare, civile[35], nel cerchio di una saggezza modestamente illuministica, a livello tanto piú basso delle posizioni pariniane, cui pure il Passeroni era vicino nella condanna della poesia inutile ed encomiastica, degli eccessi della moda e dell’esterofilia, del falso umanitarismo, e in una variazione tanto piú scialba e sciatta della serenità saggia risolta in quell’«allegrezza interna» da cui il prolisso scrittore ricava il suo dovere di rallegrare comicamente i lettori. Com’egli dice in due ottave che ben indicano la direzione di poetica piú giocosa che profondamente satirica del Passeroni:

Colui che troppo austero mai non ride

né mai serena il nuvoloso volto;

colui che il sole allegro mai non vide

ma lo trovò sempre nel duol sepolto,

a lungo andar malinconia l’uccide,

e d’ordinario non invecchia molto:

là dove un uom che sia di buon umore,

infin che vive allegro mai non muore.

Ond’io, che tutti voi vorrei vedere

allegri ancor dopo cento anni e cento,

colle mie rime a tutto mio potere

tenervi in allegria procuro e tento:

e in collera non monto, anzi ho piacere

se qualche volta ridere vi sento:

ed ho cercato, e cercherò di fare,

che voi possiate ridere e crepare.[36]

Entro tale direzione sarebbe facile raccogliere passi interessanti per una diffusa cronaca comico-satirica dei costumi italiani del tempo, ma sempre con la fondamentale riserva sulla stessa efficacia del «riso» del Passeroni troppo discorsivamente diluito e incapace di stringersi intorno a nuclei piú nervosi e compatti, di esprimersi in forme incisive ed eleganti, di vincere la lentezza torpida ed opaca di un discorso sempre troppo lungo e slabbrato, da «cicalata» in versi.

Una piú sciolta ed elegante capacità di tipizzazione modestamente moralistico-satirica di personaggi e caratteri sofisticati e «alla moda» (si pensi almeno, fra i tanti, a quello dell’affettata e patetica Melania «di compri versi e di languenti grazie / cascante ognor», che sfoggia la maniera appresa in brevi viaggi oltremontani[37]) si può invece riconoscere nei poemetti di vaga consonanza pariniana (La felicità, La moda, Le conversazioni, fra il 1775 e il 1778) del gesuita – e poi poeta di corte a Vienna – Clemente Bondi (Mozzano Superiore di Parma 1742-Vienna 1821) che tradusse anche il suo piú nativo gusto edonistico-idilliaco e una disposizione di facile narratività nel poemetto in ottave La giornata villereccia (1773), pieno di quadretti a tinte piuttosto scialbe, ma fluide e piacevoli, e fu insieme attento e modesto traduttore delle Georgiche, dell’Eneide, delle Metamorfosi, nonché autore di rime, ora piú congenialmente evocative di beni e piaceri perduti e riassaporati nel ricordo[38], ora piú velleitariamente ambiziose di costruzioni gravi e complesse, come la canzone Nell’abolizione dei gesuiti che deplorava il celebre decreto di Clemente XIV.

E ancor tanto maggiore (ritornando ai veri e propri didascalici) è l’eleganza squisita – frutto di un tanto piú tardo rapporto fra l’esigenza didascalico-descrittiva e il gusto neoclassico[39] – del celebre Invito a Lesbia Cidonia (1793) dello scienziato-letterato Lorenzo Mascheroni (Castagneta, presso Bergamo 1750-Parigi 1800)[40], che con quel componimento in endecasillabi sciolti invitava appunto Lesbia Cidonia – pseudonimo arcadico della contessa Paolina Secco Suardi Grismondi – a visitare i gabinetti scientifici dell’Università di Pavia (dove l’autore insegnava), illustrati con un linguaggio preciso e insieme piú alleggerito – rispetto a quello del didascalismo di metà Settecento – sia nella sua stessa piú lievitante e sottile compendiosità, sia nello sfocio assai frequente nel piú estatico e favoloso linguaggio classico-mitologico adibito ai lunghi «adagi» decorativi di bei miti lontani e suggestivi, sia insieme nel riaffiorare, con i suoi appelli all’«arcano» e al «poetico», di zone remote e vagheggiate, nella stessa piú diretta rappresentazione descrittiva. Come in questo chiaro esempio della illustrazione delle «conchiglie»:

L’aurora forse le spruzzò de’ misti

raggi, e godé talora andar torcendo

con la rosata man lor cave spire.

Una del collo tuo le perle in seno

educò verginella; a l’altra il labbro

de la sanguigna porpora ministro

splende; di questa la rugosa scorza

stette con l’or su la bilancia, e vinse.

Altre si fèro, invan dimandi come,

carcere e nido in grembo al sasso; a quelle

qual dea del mar d’incognite parole

scrisse l’eburneo dorso? e chi di righe

e d’intervalli sul forbito scudo

sparse l’arcana musica?[41]

Nell’abbondantissima produzione di apologhi-favole che – promossa dalla fortuna in Italia delle Fables del La Fontaine e poi di altri favolisti francesi e inglesi – costituisce uno degli aspetti o filoni piú significativamente cospicui della letteratura di secondo Settecento, collegati come sono ad un incontro – anche se per lo piú modesto e mediocre – fra lieve gusto fantastico, sapienza letteraria e saggezza ironica e sorridente (variamente intonata agli ideali medi e piú vulgati della civiltà illuministica nelle sue versioni piú domestiche e affabili e rapportate ad un fondo piú tradizionale e scettico di antipatia per ogni eccesso e per ogni eccessiva novità), si potrebbero ritrovare molti degli scrittori che fecero le loro prove piú impegnative in altri campi della letteratura: dal Meli a Gasparo Gozzi, al Bertola (che cercò anche di giustificare il significato morale e letterario della favola in un notevole Saggio sopra la favola) e ad altri scrittori che ricorderemo per altro tipo di opere e di attività, e che in questo esercizio cercarono come il piú facile compenso di un’arte minore, spesso piú sapientemente artigianale che veramente artistica, e insieme una piú facile espressione delle loro delusioni e delle loro reazioni meno impegnative agli aspetti di irragionevolezza, di vanità, di corruzione morale del costume contemporaneo.

Cosí, nel suo insieme, il filone delle favole-apologhi (ora piú svolte in una piú aperta discorsività, ora piú strette in forme piú epigrammatiche) costituisce uno degli aspetti piú tipicamente settecenteschi di una letteratura minore che fa da base e da accompagnamento a poetiche che traggono pur sempre il loro primo alimento da un incontro di «piacevole» e di «utile», di ammaestramento e di decoro letterario, di saggezza e «buon senso» razionale e naturale e di sapienza letteraria nella loro comune base di misura e di agevolezza impressivo-espressiva. Ed è anche in tal senso che il grande Leopardi fu portato a dar tanto spazio nella sua Crestomazia poetica a questa produzione favolistica a cui egli certo non attribuiva alto valore poetico-artistico, ma da cui era attratto per la messe di spunti e osservazioni morali che essa conteneva e per la sua disposizione ad un’arte-saggezza, ad una poesia gnomica in forme lievi e scherzose (non priva però a volte di piú sottili tensioni fantastiche, e abilmente resa piú comunicabile e mnemonica dall’uso prevalente di strofe rimate) che egli avrebbe riempito di tanto diversa forza poetica, morale e filosofica, ma in una direzione non del tutto eterogenea e contrastante.

Si pensi cosí subito all’utilizzazione che il Leopardi farà di uno degli apologhi tratti dagli Scherzi poetici e pittorici del De Rossi (La fucina d’amore) nello Scherzo del 1828 (primo segno di volontà della sua ripresa poetica del periodo pisano) o – piú avanti entro il periodo recanatese – alle consonanze che possono pur ritrovarsi nelle «moralità» finali del Sabato o della Quiete con apologhi e fiabe del Clasio o del Pignotti[42]. E sono proprio questi i nomi che piú meritano di essere ricordati in questo nostro breve accenno alla favolistica tardo-settecentesca.

Lorenzo Pignotti (Figline 1739-Pisa 1812), scienziato e storico[43], letterato aperto anche alle nuove mode preromantiche (in tal direzione notevole soprattutto il poemetto del 1779 La tomba di Shakespeare, che esalta insieme la grandezza del «sublime» poeta inglese e della natura da lui seguita e ritratta poeticamente nelle sue forme «rozze sí, ma ricche e maestose», nelle sue «maschie bellezze» che invano un’arte fredda e ornamentale si sforza di imitare, «imprigionandola» e «facendola serva»[44]), ma piú centralmente impegnato in un’attività letteraria o giocosa e satirica (il poemetto burlesco Il bastone miracoloso e il poemetto satirico La treccia rubata, imitazione del Riccio rapito del Pope), o soprattutto novellistica e favolistica. Ed è nelle favole – o in altri suoi componimenti sempre di tono favolistico-morale – che la sua arguta concretezza toscana e la sua saggezza di origine illuministica si fondono entro un discorso garbato e colorito, che si risolve nel pacato e ben dominato commento finale, insaporito da esili figurine, movimenti labili e nitidi e immagini amaro-sorridenti. Come nei Palloni volanti è l’immagine estrosa e leggera del fumo che dà breve volo ai palloni e a tante vanità umane fino a quella della volubile fortuna dei cortigiani:

Ne la loro fosca e torbida atmosfera,

su l’ali d’incostante aura leggera,

quali aerei palloni, errar li mira,

esposti a le piú instabili vicende:

vedi, quando il favore,

quasi vital calore,

riscalda il fumo, vedi come s’alzi

rapidissimo il globo e in un baleno

giunge a le nubi in seno,

ma si raffredda il fumo, e già ricade

su quelle, onde partí, fangose strade:

ed allora, ad onta de la nobil vesta,

senza degnarlo di un’occhiata sola,

vi passa sopra il volgo, e lo calpesta.[45]

Ma questa ricerca di una voce di saggezza e di intelligenza che, modesta e chiara e piacevole, smonta e rivela gli errori e le vanità dell’uomo in genere e del suo costume attuale in particolare – specie di controcanto sommesso delle piú forti ambizioni di esaltazione lirica dei valori positivi – si mostra assai piú sicura e realizzata nelle favole ed apologhi di Luigi Fiacchi detto il Clasio (Scarperia nel Mugello 1754-Firenze 1825), che con piú sensibile gusto letterario – affinato stilisticamente dalla sua stessa attività di studioso della lingua, di editore e commentatore di classici, e insieme dalla esperienza di lucidità e di analisi fatta nello studio della filosofia morale e della matematica[46] – svolse nelle sue cento favole una gracile, ma pensosa e pacata visione morale, piú volta a eleganti soluzioni fra ironiche e amare che non ad effetti piú apertamente comici pur qualche volta tentati (come nei Pipistrelli).

Si rilegga almeno Il cannocchiale della speranza e si avrà un esempio assai persuasivo di questa voce esile, poco complessa, ma limpida e ben graduata che sapientemente si vieta ogni insistenza eccessiva, ogni vibrazione troppo sonora e risentita e si crea un tenue ritmo pacato e lievemente malinconico:

Un giorno la Speranza

per ciaschedun mortale

fece un bel cannocchiale.

Questo, come è d’usanza,

dall’un de’ lati suoi

ingrandisce l’oggetto oltremisura,

dall’altro lato poi

mostra piccola e lungi ogni figura.

Se l’uom dal primo lato il guardo gira,

il ben futuro mira;

guarda dall’altro lato,

e vede il ben passato.[47]

Si può infine incentrare nel gusto della favola e dell’apologo – anche se allargato e variato in ricerche piú sottili di altre misure artistiche fra odi anacreontiche, epigrammi e scherzi «poetici e pittorici» (come egli intitolò una raffinata edizione bodoniana in cui ad ogni scherzo corrisponde un’aggraziata tavola figurativa) – uno degli interessi maggiori – gli altri furono quelli per il teatro comico e per le arti figurative ben presenti nella stessa intenzione poetico-pittorica degli Scherzi[48] – del romano Giovanni Gherardo De Rossi (1754-1827).

Ché il gusto galante del De Rossi e il suo moderato avvicinamento al gusto figurativo neoclassico nelle sue forme piú aggraziate ed edonistiche in realtà si fondono con un preminente – anche se cosí modesto e bonario – tono sentenzioso e riflessivo-morale, per cui il Leopardi (che, come ricordai, utilizzò direttamente nello Scherzo uno schema epigrammatico di questo scrittore) nell’elenco dei suoi «disegni letterari» del 1828 poteva proporsi di scrivere scherzi «filosofici, satirici» «al modo del De Rossi»[49], sottolineando appunto in quella maniera un’arguta e graziosa versione di quella saggezza e moralità settecentesca che ancora una volta cerca esiti particolarmente gradevoli, e gradevolmente ironici ed amari, in queste poesiole che tanto spesso puntano sulla fugacità delle illusioni, degli inganni giovanili, dei beni goduti dall’uomo, decorandoli abilmente entro le linee adiuvanti di un breve incanto melodico e figurativo

(Amica primavera,

de’ tuoi piacer la schiera

dura, è ver, brevi giorni

ma ogn’anno a noi ritorni.

In tutto a te simile

dell’età nell’aprile

fu la mia gioventú;

ma, oh Dio! fuggita, non ritorna piú)[50]

e con l’insaporimento di un tenue e prezioso concettismo:

Non so con qual pensiero

donar mi volle un oriolo Amore;

io l’accettai, ma sempre è menzognero:

ché del piacer nell’ore

corre troppo veloce, e troppo lento

nell’ore del tormento.[51]

Ma la saggezza di apologhi e favole, anche quando si fa piú severa e direttamente ammaestrativa (come nel caso delle favole del veneto Perego, assai pedestri e fastidiose), non giunge a superare i limiti di una mediocritas morale in cui i valori medi della mentalità illuministica si fondono (e a volte quasi si perdono) entro un’eredità piú tradizionale di «buon senso», né giunge ad investire in maniera piú impegnativa obiettivi fondamentali e piú pericolosi d’ordine ideologico, religioso, politico.

Ciò avviene invece – anche se in maniera spesso confusa e mal sicura nelle sue precise direzioni positive – nel poemetto favolistico-satirico del Casti, Gli animali parlanti.

Giambattista Casti (Acquapendente 1724-Parigi 1803), viaggiatore e scrittore instancabile, amico di letterati e regnanti di tutta Europa, oggetto, in vita e dopo la morte, di profonde antipatie come scrittore cortigiano e immorale (dal duro attacco del Parini nel sonetto Un prete brutto, vecchio e puzzolente alla critica risorgimentale) e d’alta stima specie all’estero da parte di scrittori come Goethe, Stendhal e piú tardi Apollinaire (per non dire dell’attenzione del Leopardi specie nel rapporto fra Animali parlanti e Paralipomeni[52]), giunse alla tarda impresa del poemetto, pubblicato nel 1802, dopo una lunga esperienza di vita[53] e una lunga attività letteraria, per lo piú dispersiva e occasionale, ma tutt’altro che priva di interesse e di parziali risultati, specie se storicamente considerata in rapporto ai suoi successivi interventi in campi letterari diversi, ma secondo un ritmo di progressivo allargamento di orizzonti culturali-letterari e di impegni combattivi e satirici, contraddistinti da un’acutezza intellettuale molto viva, anche se limitata, al fondo, da un forte scetticismo e da una tendenza contrastante al divertimento e all’evasione letteraria.

Divertimento e impegno polemico si avvertono già nella prima raccolta dei Tre giulii che, esasperando un’esercitazione tecnicamente abilissima di ben duecento sonetti in endecasillabi tronchi su di un argomento quanto mai frivolo, intendeva anche satireggiare la vacua attività versaiola dell’ambiente romano ancora attardato in una esausta continuazione arcadica. Né manca un simile incontro – a piú alto livello – anche nelle Anacreontiche del periodo fiorentino, in cui vagheggiamento e prudente sorridente distacco critico («io me ne sto in un angolo / osservator tranquillo»[54]) rispetto ad una società galante e frivola, ma pur attraente, si fondono in freschi e spiritosi componimenti idillico-erotici di nitido e agevole ritmo cantabile e di miniaturistica e vivace precisione, che danno al Casti un posto non trascurabile anche nella lirica del secondo Settecento.

Poi l’esercizio delle Novelle galanti, in ottave – pur limitato da una certa prolissità e sciatteria –, precisa insieme il gusto spregiudicato e libertino, aperto, da una parte, al divertimento e alla letteratura di facile consumo, ma, dall’altra, anche ad un accordo con prospettive polemiche e satiriche di origine illuministica[55] – contro l’ipocrisia religiosa, la sbagliata educazione tradizionale, i pregiudizi – piú sviluppate direttamente in quel farraginoso Poema tartaro che aggrediva Caterina II e il presunto progresso culturale e civile della Russia cateriniana, alla luce di temi ben illuministici (fra cui assai forte quello egualitario), anche se troppo mescolati ai motivi personali di una vendetta del letterato deluso nella sua aspirazione a riconoscimenti e sistemazioni nella corte dell’imperatrice.

Mentre il suo acuto spirito osservatore ed analitico-illuministico si fa luce nella lucidissima prosa della Relazione di un viaggio a Costantinopoli, la sua vocazione satirica trovava un piú sicuro trasferimento ed impiego comico-satirico in quei melodrammi giocosi che costituiscono il contributo piú artisticamente positivo del Casti e che dovremo considerare piú direttamente nel paragrafo sul teatro di secondo Settecento, ma che qui vanno almeno ricordati in rapporto alla persistente e allargata capacità satirica dell’autore, impegnata infine piú direttamente nella impresa faticosa e lunga degli Animali parlanti.

In questo poema, in ventisei canti in sestine[56], che tratta – sotto il travestimento di uomini in bestie – gli eventi politici europei dalla rivoluzione francese all’età napoleonica, il fondo di delusione scettica e la debolezza di una visione organica e sintetica, sia in senso ideologico che poetico, non tolgono che il Casti porti avanti – ben diversamente dalla prudenza e dalla bonaria moralità degli altri favolisti settecenteschi – motivi satirici aggressivi e spregiudicatamente audaci sia contro storici obiettivi polemici, fondamentali nella tematica illuministica piú avanzata (la nobiltà, la tirannia, la guerra[57], la superstizione e fin il cristianesimo nei suoi miti e dogmi antirazionali[58]), sia contro motivi di carattere ancor piú generale a cui in parte risale l’origine del suo stesso scetticismo: l’antipatia per ogni frivolo ottimismo, la polemica dura contro lo stolto orgoglio degli uomini infatuati della loro natura privilegiata, delle loro sorti magnifiche e «immortali»[59], assurdi frutti di stolte credenze cui il Casti oppone la verità e la «santa» ragione[60].

Né si può dire che al Casti – malgrado la rilevata dispersività e certa frettolosità elaborativi – manchi a tratti una capacità letteraria di ben svolgere le sue stesse piú appassionate posizioni polemiche e di configurarle in quadri e scene efficaci (la rappresentazione, ad esempio, delle usanze cortigiane degli animali alla corte del re Leone nel canto V) a volte ariosamente appoggiate a svelti quadretti – a mezze tinte e sull’orlo della comicità e della parodia – di paesaggi e ore, di tempeste e di quiete idillica, che rivelano una mano di scrittore abile ed esperto, disinvolto e sicuro, non inutilmente passato attraverso tante esperienze e maniere della letteratura di secondo Settecento.

3. Aspetti della lirica di metà Settecento fra tradizione arcadica e nuove tendenze letterarie

Anche nel campo della lirica, a metà secolo, si può cogliere il passaggio dall’eredità arcadica a nuove istanze di gusto e di costume variamente connesse con la nuova cultura e civiltà illuministica o, viceversa, ad esse contrastanti in direzioni che solo piú tardi si preciseranno in piú decisi avvii preromantici e in piú chiari sviluppi neoclassici del classicismo illuministico e rococò.

Nel passaggio da una esperienza arcadica, esercitata ecletticamente in tutte le sue possibili direzioni e tematiche, a nuove esigenze, piú orecchiate e accostate che non profondamente assimilate, andrà considerata la presenza vistosa e sostanzialmente mediocre del celeberrimo verseggiatore Carlo Innocenzo Frugoni, nato a Genova nel 1692 e morto nel 1768 a Parma, dove egli trascorse la miglior parte della sua vita di abate senza vocazione (era stato padre somasco, ma aveva poi ottenuto dal papa di svestire l’abito religioso) e di poeta di corte, prima al servizio dei Farnese, poi dei Borbone, amato per le sue qualità umane di bonario gaudente e conversatore galante e ammiratissimo per la sua disponibilità alle piú varie occasioni di improvvisazione poetica.

Questa singolare figura di un Settecento cortigiano, salottiero, amante della poesia come «geniale» decoro e incremento di vita socievole e piacevole – e, nei suoi aspetti piú velleitari, come «pindarica» manifestazione di estro immaginoso e grandioso –, trovò appunto le condizioni piú propizie alla sua affermazione e attività nell’ambiente parmense, aperto, specie nel periodo borbonico, ad un gusto vivace e «francese» di vita, di costume elegante, di attività teatrale (il Frugoni fu anche allestitore di spettacoli e produttore di drammi per musica, tutti assai scadenti e privi di ogni forza drammatica), ed anche alla nuova cultura illuministica – promossa dal Du Tillot e dalla presenza del Condillac – a cui lo stesso Frugoni si avvicinò cercando negli aspetti piú facili e vulgabili del sensismo un appoggio al suo epicureismo sensuale.

La formazione del Frugoni è nettamente arcadica e si precisa soprattutto (in mezzo a rime encomiastiche e occasionali per nozze, monacazioni, riti religiosi, ecc.) sulla via di un canzonettismo anacreontico-erotico che, nelle origini liguri del suo apprendistato, si appoggia particolarmente al Chiabrera (da cui il verseggiatore riprende anche la spinta piú innografica e pindarica) e si avviva – lungo lo sviluppo della sua vita tra la Genova dei cicisbei e la Parma galante e rococò – di quel crescente gusto del canoro associato al pittorico che abbiamo notato come variamente configurato, ma centrale, nello sviluppo della tarda lirica arcadica.

Residui di «barocchetto» e nuovi colori di rococò si mescolano nel gusto pittorico e melico di Comante Eginetico (lo pseudonimo arcadico del Frugoni) in forme piú vivaci che salde e coerenti, sí che gli stessi rimandi, a volte fatti, alla pittura di un Watteau (sulla similarità di temi fra l’Embarquement pour Cythère e l’Isola amorosa o la Navigazione d’amore) andrebbero corretti con rimandi a certa mescolanza di un gusto piú attardato e insieme della letizia piú godereccia e pesante di un Van Loo. Per non dire poi di quel mal vincibile vizio della prolissità che appesantisce e diluisce i movimenti a volte agili, a volte piú torpidi e gli spunti di quadro galante di quelle canzonette, cosí come un certo incontro di preziosità e di sciatteria ne caratterizza il linguaggio poetico. Eppure a questi stessi difetti corrisponde nelle canzonette, e in genere nelle rime del Frugoni (che costituiscono una massa enorme e mal ordinabile e leggibile di versi), una sorta di spregiudicatezza stilistica e tonale che poté apparire ai contemporanei una specie di «moderna» libertà, una risorsa del «genio» immaginoso, un modo nuovo di canto e pittura piú adatto all’ornamento di una vita tutta godibile ed epicurea, a cui corrisponde un erotismo che si colora di malizia, di lascivia, di ironia e insieme tende all’elegante e al prezioso mescolando, però, finezze e piú grossolane forme di una sensibilità francamente edonistica, affascinata dalla volubilità e magari dall’«infedeltà». Cosí avviene proprio in quel Tempio dell’Infedeltà che, in un fare sciolto e prolisso, agile, ma non privo di zeppe e slabbrature, presenta il tempio fatto di «marmo elegante», ma «cangiante» (allegoria facile ed estrosa della mutevolezza della dea che vi si adora), le personificazioni degli strumenti della infedeltà (il «mendace giuramento», l’«utilissima menzogna», la «intrepida franchezza»), la corte degli amorini vaporosamente coloriti e dei «cicisbei» devoti della dea, per giungere poi, nel finale, alla piú esplicita morale della canzonetta che fa vibrare il senso lieve e pur chiaro della epicuraica visione vitale del Frugoni: poiché la vita è breve, brevi siano anche gli amori, si fuggano le pene di amori drammatici e tormentosi, si ami «tutto l’amabile»

(Chi può mai d’un solo oggetto

invecchiar nel freddo affetto?

Se sí brieve è il vital dono,

perché eterni gli amor sono?

Sol felice è un cuore instabile;

s’ami, o dea, tutto l’amabile...),[61]

si goda tutto il godibile offerto dalla vita breve e altrimenti amara. Perciò le piú celebri canzonette del Frugoni si svolgono sul tema della navigazione amorosa, dell’embarquement per l’isola dell’amore, simbolo facile di un edonismo-erotismo che fa evadere dalle cure e dalle pene della vita in un regno immaginoso, ma anche concretamente raggiungibile con l’esercizio congiunto della poesia e della galanteria.

Centralissima in tal senso l’Isola amorosa, che è anche una delle canzonette che piú limitano la spinta prolissa della loquacità frugoniana e condensano – con migliore efficacia musicale-figurativa, e con coerenza di toni ironici, maliziosi, persuasi, e avvii di piú conciso classicismo – il sentimento edonistico frugoniano:

La bella nave è pronta:

ecco la sponda e il lido,

dove nocchier Cupido,

belle, v’invita al mar.

Mirate come l’ancora

già dall’arena svelsero

mille Amorin, che apprestansi

festosi a navigar.

Di porpora è la vela,

che ai zeffiri si stende,

e a governarla prende

il Riso condottier.

L’aure se ne innamorano

e l’ali intorno battono

scherzando, e la fan turgida

di fiato lusinghier...[62]

Non è qui possibile mostrare piú concretamente come, nella massa prolissa e farraginosa della poesia del Frugoni, un’operazione minuta e paziente sia in grado di cogliere sporadici momenti di piú realizzata efficacia nel rapido ritrattino di una bella donna, insaporito dalle sue grazie fisiche piú singolari (la sottile vita di una bellezza dal seno opulento, lo slancio acerbo di una «magretta» «tutta grazia e tutto gusto») e dal brio di connotazioni ironiche (la fanciulla che rompe col suo grido baldanzoso l’elogio di una bellezza matura: «E in virtú d’anni diciotto / ai quaranta dà cappotto»), o in brevi quadretti mitologici e paesistici piú centrati e delimitati.

Ciò che avviene non solo nel settore piú saldo e compatto delle canzonette, ma anche entro quello dei sonetti, delle terzine, delle odi, dei componimenti in versi martelliani, e in endecasillabi sciolti[63], di cui il Frugoni inondò il suo tempo, fornendo esempi di metri che poterono richiamar l’attenzione persino del Foscolo (il caso dell’ode alla Pallavicini che riprende il metro dell’ode Alla regal Colorno del Frugoni), seguendo e accentuando (piú che veramente promovendo) i mutamenti del gusto dell’Arcadia matura verso l’epoca dominata dal sensismo e dall’illuminismo, verso aspetti del neoclassicismo piú frondoso e grandiloquente e verso certe forme di sonettismo pittorico grandioso che troverà rappresentanti, di diverso livello, in scrittori come Cassiani o Minzoni.

In quest’ultima direzione sonettistica sono da considerare, nella piú tarda attività frugoniana (la piú aperta a nuovi tentativi ed esperienze), i celebri sonetti dedicati a momenti della storia antica o della leggenda mitologica e biblica, come L’angelo sterminatore, L’ostracismo di Scipione, Annibale vincitore che per la prima volta dalle Alpi ammirò l’Italia, e che d’altra parte si rifanno (non lo si dimentichi) all’esempio di sonetti «grandi» dello Zappi, in una linea di aspirazioni grandiose che percorse pur l’Arcadia e veniva ora rilanciata dal Frugoni a nuovo livello di gusto.

Celebre e a suo modo esemplare, nella sua prospettiva di scenografica grandiosità, di sospensione falsamente meditativa e di possente inizio di azione, è soprattutto l’ultimo sonetto citato e che qui riporto:

Ferocemente la visiera bruna

alzò sull’Alpe l’affrican guerriero,

cui la vittrice militar fortuna

ridea superba nel sembiante altero.

Rimirò Italia; e qual chi in petto aduna

il giurato sull’ara odio primiero,

maligno rise, non credendo alcuna

parte secura del nemico Impero.

E poi col forte immaginar rivolto

alle venture memorande imprese,

tacito e in suo pensier tutto raccolto,

seguendo il Genio che per man lo prese,

coll’ire ultrici e le minacce in volto,

terror d’Ausonia e del Tarpeo, discese.[64]

Ma le offerte piú dirette all’epoca illuministica in cui si svolse l’ultima attività del Frugoni[65] sono quelle dei componimenti in versi sciolti che infatti colpirono soprattutto lettori come il Bettinelli, che nella sua fase piú illuministicamente innovatrice (come poi diremo) vide appunto nei componimenti in sciolti del Frugoni (e dell’Algarotti) la realizzazione di una forma metrico-poetica adatta ai nuovi temi didascalici e divulgativi.

Il Frugoni stesso (assai abile nel cogliere il favore delle mode e nell’alternare professioni di umiltà e di superbia pindaresca a seconda delle occasioni) volle dare ai suoi sciolti una ragione di necessità storica, una consapevolezza critica – in realtà assai debole ed incerta –, proclamando nel componimento Il genio dei versi sciolti, anche in difesa contro gli attacchi del Baretti, il necessario prevalere di un tipo di metro e di «saggia libertà del canto» che, pur riportandosi arcadicamente a un metro pastorale, meglio servisse a cantare «grandi subbietti»: come quelli di tipo scientifico, critico e filosofico-morale che prevalgono appunto in questa tarda fase dell’attività frugoniana, fino al tentativo di descrivere poeticamente la filosofia sensistica del Condillac.

Anche qui però – dove egli dal seno della sua disponibilità poetico-eloquente sembra dare la mano alle nuove esigenze di poetica dell’epoca illuministica – il lettore paziente sarà soprattutto attratto da piú congeniali aspetti dei componimenti in sciolti del Frugoni: certa amabile e mediocre conversatività, certa capacità di descrizioni paesistiche piú distese e meno frondose, certo bonario realismo intorno alle descrizioni di azioni ed oggetti che insieme ci portano il sapore della loro cronachistica storicità, come nella descrizione del primo mattino di un letterato del tempo fra pigrizia e risveglio ad opera del fumo della pipa e del caffè, nel «poema» in sciolti per la laurea in filosofia e medicina di Antonio Moreali:

Tu pur or lasciasti

le molli piume. Ancor non hai ben terso

da le acute pupille il pigro sonno,

e già tu chiedi, com’è tuo costume,

candido sottil tubo, onde dal labbro

in ondosi volumi uscir ti suole

d’oltremarine foglie azzurro fumo,

irritator salubre; e già la nera

oriental bevanda a te, che il petto

largamente ne inondi, in bollicelle

turgide in prima, e poi minori s’erge

su l’ardente carbon, bevanda amica

de le vigilie, e de le stanche menti

ristoratrice...[66]

Certo, sia ben chiaro, qui si tratta di una poeticità vaga e scialba (e certo meno brillante dell’ibrido colorismo canoro delle canzonette) e, per quel che riguarda il giudizio sul «poeta» Frugoni, non si potrà in alcun modo superare il limite di una mediocrità senza veri riscatti poetici. Ma si dovrà pure calcolare il valore del sostegno che questo tipo di discorso in versi ha dato all’avvio di nuove tendenze di gusto.

Ma la generale spinta del classicismo, già notata nell’Algarotti e nel côté didascalico, si accorda con elementi piú edonistico-sensistici del gusto e della mentalità di metà Settecento, con una versione sorridentemente galante-libertina della nuova spregiudicatezza mondana dell’illuminismo, con un’accresciuta tensione al figurativo prezioso e conciso (alimentato anche dalla nuova attenzione ai cammei e alla pittura ercolanense divenuta di moda a metà secolo grazie agli scavi di Ercolano e Pompei e alla pubblicazione di stampe riproducenti pitture, statue, cammei della civiltà romano-ellenistica), soprattutto nella produzione lirica di Ludovico Savioli Fontana, rappresentante esemplare appunto di una poetica classicistico-rococò che servirà poi di base alle successive evoluzioni in senso neoclassico di un largo settore della lirica classicistica emiliana.

Nato a Bologna nel 1729, il Savioli, da giovane, tradusse gli Amori di Ovidio in strofe tetrastiche di settenari sdruccioli e piani alternati, metro da lui poi adottato nei suoi Amori. Coprí alte cariche pubbliche in patria e a Parigi; nel 1796 fu deputato della Repubblica Cisalpina e, successivamente, venne nominato professore di diplomatica nell’Università di Bologna e in quella città morí nel 1804. Scrisse, oltre gli Amori, un’imitazione dell’Arcadia di Sannazaro, intitolata Monte Liceo (Bologna 1750), la tragedia Achille, gli Annali bolognesi e molte altre liriche, tra le quali particolarmente notevole la «canzone libera» Amore e Psiche.

Se per lui possono valere le limitazioni del Croce quanto alla sua mancanza di profondità, alla sua intrinseca mediocrità poetica, all’esiguità delle sue prestazioni liriche, tuttavia la consistenza del suo esile nucleo ispirativo va considerata in funzione della sua importanza e della sua centralità nel classicismo settecentesco. Non solo per l’elegia amorosa, come capacità di dar vita ed espressione, a suo modo esemplare ed efficace, ad un diffuso sentimento e gusto rianimato nelle sue condizioni medie generali, ma per la sua volontaria difesa dalla piú facile dispersione prosastica, didascalica e utilitaristica, che indica la sua limitatezza di forti interessi illuministici, ma anche la sua relativa consapevolezza di una propria via poetica ed accresce, di fronte alla piú larga sintesi pariniana e di fronte alla discorsività rischiosa dei didascalici, la sua importanza di esperienza media ma ben conclusa in un côté piú schiettamente edonistico-poetico. E si consideri perciò la separazione che il Savioli stesso operava della propria poetica da ogni impegno di utile dulci, isolandosi volontariamente e senza inutili scuse, molto comuni in quell’epoca, nel campo del piacevole e dell’erotico, coraggiosamente inalberando come bandiera il titolo edonistico ovidiano:

Io sono nato in un secolo, in cui gli impegni e gli studi degli uomini sono rivolti all’utilità. La filosofia, l’agricoltura, le arti, il commercio acquistano tuttodí nuovi lumi dalle ricerche dei saggi: il voler farsi un altro nome tentando di dilettare, quand’altri vi aspira con piú giustizia giovando, è impresa dura e difficile. Ho dunque scritto non ad altro oggetto che di esprimere quel ch’io sentiva e mi sono tranquillamente disposto a non essere letto.

Cosí dice il Savioli, nella prefazione all’edizione degli Amori del 1765, a Vittoria Corsini. Sicché quella dichiarazione resta rappresentativa di una reazione interessante all’ondata di didascalismo scientifico o addirittura al disprezzo per la poesia come inutile diletto; e, consapevolmente, indica un volontario approfondimento del motivo edonistico cosí vivo ed essenziale nella sintesi piú complessa del Parini e negli stessi pensatori illuministici.

L’opera del Savioli testimonia centralmente della componente rococò, della esigenza sensistica di evidenza e della concisione evidenziatrice e stilizzatrice della miniatura portata a maggior precisione dalla suggestione del cammeo antico e poi dalle figurine ornamentali delle pitture ercolanensi e pompeiane.

Nel Savioli il sensismo è qualcosa di raffinato e di elementare: sensismo come rilievo del valore edonistico delle sensazioni e quindi in accordo con una società elegante e spregiudicata. Qualcosa di simile al piú facile epicureismo frugoniano, ma piú storicamente aggiustato nell’aria del tempo e coerente a un centrale bisogno di concretezza, di fruibile, di edonistico inseparabile dalla eleganza.

Incontro che richiama anche una condizione socievole e culturale di aristocratici, come era il Savioli, non privi, nel loro stesso gusto moderatamente libertino, di un certo spirito di spregiudicatezza razionalistico-illuministica, di una certa «fede» in una civiltà tutta mondana e laica: sicché poi il Savioli poté aderire a idealità democratiche, nel periodo rivoluzionario.

È l’epoca dei cammei, delle pietre incise di cui il Winckelmann glorificherà gli esemplari della collezione Stosch per la lor definita compendiosità. E se si vuole allargare subito il quadro del gusto a cui corrispondono gli Amori del Savioli, si possono considerare le stampe raccolte nelle Antichità di Ercolano esposte, iniziate nel 1757 e uscite in parte (le pitture) fra la prima edizione (1758) e la seconda edizione, accresciuta (1765), degli Amori.

L’accostamento fu già fatto da Attilio Momigliano[67], ma va subito precisato che non tanto di immediata azione in senso neoclassico delle «stampe» sul Savioli si può parlare, quanto di una contemporaneità delle nuove suggestioni figurative in senso classicistico-rococò. E si noti che l’azione delle stampe ercolanensi fu come graduata in diversi momenti dello sviluppo neoclassico settecentesco (uscirono dal 1757 al 1792 in 8 volumi), agendo i primi volumi di pittura piuttosto in direzione di classicismo rococò, e gli ultimi in piú chiara direzione neoclassica.

Se si leggono le brevi introduzioni degli editori delle «stampe», in mezzo alla farragine di erudizione che ne fa interessanti repertori classicistici e mitologici, si noterà il gusto postarcadico ma piú fortemente rococò in cui il classicismo si unisce alla grazia del «non so che», del capriccio e dell’estro. Cosí di una deliziosa, raffinatissima Andromeda (LXI del IV volume uscito nel ’65) o di una architettura fantastica gli editori diranno «graziosa e vaga... irregolare e capricciosa», in un evidente contrasto fra gusto rococò e l’insorgente canone neoclassico della regolarità e della grazia riposante e della energia di forma della bellezza ideale. Mentre nell’ultimo volume (1792) il «grazioso» in senso rococò cede al «semplice» e al «semplicissimo» e un ben maggior riserbo ed una maggior rigidezza neoclassica guidano i compilatori nelle loro presentazioni che tendono sempre piú chiaramente a sorreggere un piú chiaro gusto di ricostruzione di mitologia e storia antica a cui l’indice delle «cose notabili» aggiunge l’offerta di un glossario mitologico utile a poeti e a pittori di pieno gusto neoclassico.

Nel periodo degli Amori le pitture ercolanensi non sforzano a un decisivo senso di alto, austero classicismo, ma confortano in senso classicistico il gusto del piacevole, del grazioso-capriccioso, e perfino in talune scenette alessandrine, in certi paesaggi raffinati, non manca una certa consonanza con il descrittivismo accurato e pittoresco reperibile nelle lacche e nelle «cineserie» dell’epoca rococò.

Cosí le tavole delle pitture ercolanensi autorizzavano e accentuavano la giustificazione di uno speciale classicismo sorridente, ornamentale, elegante, in cui il sostegno della linea non escludeva ed anzi implicava la mollezza graziosa di una sensibilità edonistica, di un vivace colorismo compendioso e raffinato. E con la ricchezza di figure mitiche rinfrescavano visivamente una vitalità della mitologia nel suo risorgere ornamentale, nella sua offerta di figure di bellezza aggraziata, di pretesti sensuali, perfino di scenette fra tenere e domestiche, come la famosa scena delle venditrici di amorini del III volume: tutte offerte e stimoli non ancor vigorosamente rinnovatori in direzione neoclassica, anche se, attraverso uno speciale classicismo edonistico e sensistico, caldeggiano progressivamente l’amore del gesto e della linea regolare, sempre piú al di là di quel «non so che di vago ed espressivo» di cui parlavano gli editori nella tavola XXVI del I volume.

Gli Amori del Savioli denunciano anzitutto quell’amore per la mitologia come lingua e cultura poetica che sostituisce la terminologia pastorale dell’Arcadia e porta già con sé implicita la tendenza al quadretto e alla decorazione elegante e galante. Cosí il dizionarietto mitologico che segue gli Amori è conciliazione del gusto divulgativo settecentesco e del prezioso amore per una totale vitalità mitologica e quindi classicistica di quella poesia: dizionarietto che, nella sua unica eccezione per i Silfi, come creature d’una «moderna mitologia» autorizzata da Pope, indica la volontà di escludere ogni accenno che non si riferisca al mondo dei bei miti antichi. Mitologia non tanto per rinnovato spirito pagano, quanto per funzione galante, erotica.

Poetica di persuasione erotica che serpeggia attraverso la poesia lirica di quegli anni, ma che in questo volume entra in sintesi con un classicismo educato e senza esitazioni. Classicismo che utilizza la mitologia per il suo riferimento a un mondo sensuale, di godimenti, e le immagini classiche e la tecnica dello stile classico per la sua forza di precisione, di rilievo evidente, indispensabile ad una vera efficacia di rappresentazione sensibile di vita galante. Nel passaggio dalla prima edizione del ’58 di Bologna a quella del ’65 di Lucca il volumetto si raddoppiò e, là dove nelle prime dodici odicine il poeta portò qualche correzione, rivelò ancora la sua preoccupazione di maggiore incisività e di rilievo di movimento sorridente e luminoso, specie nei finali su cui soprattutto puntava la sua poetica di efficacia e di presa mnemonica. Cosí nel Mattino, nella bella strofa «Tal da’ superbi talami... Ippodamia scendea» il finale diviene, con felicissima correzione, «Ippodamia sorgea», e mentre qua e là il Savioli nobilita alcune parole riavvicinandole di piú al loro etimo latino e scioglie nessi piú contorti in forme piú rapide ed efficaci, nella prima odicina A Venere vengono soppresse tre strofe finali che smorzavano l’effetto di piccolo inno e divagavano in preghiere piú da «segretario galante». E la costruzione si configura piuttosto a scenette staccate che a linea continua, tanto da far pensare a quadretti separati e giustapposti decorativamente per efficacia di immagini isolate.

Il Savioli tende infatti a cogliere piccole immagini di una piccola vita di società nell’ambito ristretto della galanteria, del sentimento ironico-erotico, e in questa direzione di piccolo realismo galante tradotto nella sua evidenza sensibile ed affascinante, attraverso la suggestione e la ripresa del linguaggio dei classici ridotto a proporzioni di cammeo, egli raggiunge risultati davvero gustosi e nitidi che già furono sapientemente notati nel saggio critico del Momigliano.

Ecco l’incontro inatteso del Passeggio nella via suburbana bolognese

(Dall’una parte gli arbori

al piano suol fann’ombra;

l’altra devoto portico

per lungo tratto ingombra),[68]

dove la dama-dea fa arrestare la carrozza in un’altra di quelle strofette da quadro miniaturistico tutta conclusa e presentabile, nello stimolo generale della lieve vicenda erotica, come risultato in sé e per sé:

La bella intanto i lucidi

percote ampi cristalli;

l’auriga intende e posano

i docili cavalli.

Ecco nel notevolissimo Mattino – in cui la cura della rappresentazione sorridente e galante e della evidenza sensibile e della mobilitazione classica a sollevare il costume contemporaneo è quanto mai viva e a fuoco – il quadretto della prima colazione:

cinese tazza eserciti

beata il tuo costume,

e il roseo labbro oscurino

le americane spume;

o la descrizione dei preparativi della toilette

(Vieni. Sia fausta Venere,

gli uffizi Amor comparta,

le Grazie in piedi assistano;

tu sederai la quarta)

rinforzata dal nitido e arioso quadretto mitico:

Tal da’ superbi talami

dell’ampia reggia achea

sciolta dal caro Pelope,

Ippodamia sorgea.[69]

Proprio l’immagine mitologica, sentita come scenetta visiva di nitida perfezione ed evidenza, in cui si è rappreso tutto un senso lieto e favoloso della vita e ricco di suggestioni visive, è usata dal Savioli come appoggio ai momenti piú centrali e, specialmente nei finali, a suggellare, a concludere i componimenti in nitide e gustose immagini.

Come avviene nella XX ode Il sonno, in cui la voluttuosa fantasticheria della bella che sogna l’amante trasferisce la sua conclusione piú limpida e distaccata nelle due quartine finali e mitologiche:

Sovente ancor Penelope

sognò del greco amato

e nel sognar destandosi

credette averlo a lato.

Poi fra le piume vedove

tesa l’incerta mano

dell’error lassa avvidesi

e pianse a lungo invano.

Quella che il Croce chiama «erudizioncella mitologica» è in realtà fuori di ogni pretesa di profondità o di rarità erudita, è in realtà l’appoggio piú vivo ai quadretti di scenette piú realisticamente settecentesche e in essa queste trovano lo svolgimento piú sicuro della loro tendenza ad una rappresentazione viva ed eletta. Le scene mitologiche sono non solo essenziali a sostenere il tono elegante e ironico delle odicine savioliane, ma sono anche spesso i punti di maggior impegno e di maggior risultato del piccolo poeta. E ciò si può vedere chiaramente nelle odi migliori come quelle citate e come l’VIII (All’amica che lascia la città), in cui la collaborazione tra eleganza classica e piccolo realismo di salotto è già suggerita dal titolo e dal breve paesaggio iniziale, stilizzato con rapide impressioni rapprese in personificazioni mitologiche:

Ai freddi colli indomito

il ghiaccio ancor sovrasta,

soffia Aquilone e ai Zefiri

signoreggiar contrasta.

Sdegnoso il Verno esercita

le moribonde forze,

chiude timor le Driadi

nelle materne scorze.

Il motivo sentimentale della gelosia è in realtà funzionale alla serie di immagini mitologiche che acquistano una maggiore gustosità dalla spinta piú chiara, e d’altra parte elegante e sorridente, al riferimento sensuale; ed è un quadretto di deliziosa grazia sensuale che domina centralmente tutta la poesia:

Casta abitar compiacquesi

Diana ancor le selve;

la pura mano armavano

dardi, terror di belve.

Al cacciator gargasio,

che osò mirarla al fonte,

ultrici acque cangiarono

la temeraria fronte.

Pur, crederai? D’Arcadia

l’incolto dio la vede;

offre, e del dio le piacciono

le offerte, il ceffo e ’l piede.

Nol seppe il Sol: piú tacita

l’oscura notte arrise;

vide contenta Venere

la sua vendetta e rise.

Roser lascivi i satiri,

meravigliando, il dito;

e alle ritrose Oreadi

piacque l’esempio ardito.

Sulla doppia direzione della «casta» Diana (la «pura mano» si profila in simpatia col primo tono) e dell’«incolto» Pan («ceffo» e «piede» accentuano il tono curioso e rozzo come un colore sanguigno e bruno alla Rubens) fiorisce la scenetta erotica, uno dei risultati piú vivi, composti e sottili del Savioli.

Si tratta, dunque, di risultati efficaci e cosí limitati, in cui una sottile forza artistica riesce ad imporsi per breve tempo e ad accendersi in momenti culminanti di lucida visività, in cammei preziosi piú che in organismi complessi e compatti. Ché la lieve poesia savioliana si risolve soprattutto in una abilissima formula di conciliazione fra canto metastasiano, accolto in forme piú secche e compendiose, e deciso sviluppo della rappresentazione figurativa di origine rolliana, riassumendo in un’abile poetica le condizioni piú tipiche del suo tempo galante, edonistico, e innamorato della perspicuitas classica.

In questa formula felice e nella sua corrispondenza alle aspirazioni di una società fra letteraria e signorile che non amava piú il grandioso o il pastorale, né si contentava piú del semplice canto metastasiano, il Savioli seppe realizzare, piú che intere poesie, rapidi e conclusi esempi di un ritmo di cammei su di una generica e pur vivace trama di esile e sorridente melodramma erotico ridotto anch’esso alle minime proporzioni. Al gracile, ma vivace schema di vicende e di svolgimento patetico-psicologico (gelosie, sdegni, incontri galanti con un di piú di sorriso ironico), graduato in raccorciati movimenti scanditi e precisi

– a tuo conforto io misero

che posso darti intanto?

Fredda amistà, silenzio

e breve inutil pianto (Il destino) –,

corrisponde la nitida e scandita sequenza delle strofe e delle piccole scene ed immagini in cui collaborano appunto il suono brillante e secco, clavicembalistico, delle strofe e del loro uguale ritorno e la sensuosa eleganza delle immagini-scene che si avvalgono del suono e dell’esile trama patetica per dominare l’attenzione del lettore con la loro compendiosa e gustosa precisione, con la loro sicura traduzione di una realtà piacevole e sensibile evidenziata piú fortemente da contrasti di aggettivi classico-sensistici come quello («pietra rigida» e «nudo seno») offerto dall’esemplare figurina-scenetta della fanciulla innamorata che attende alla finestra l’amato malgrado il cattivo tempo:

Né la sgomenta l’impeto

di freddo vento o pioggia,

e sulla pietra rigida

il nudo seno appoggia (Alla Nudrice).

Prevalenza di brevi azioni per risultati di scena rappresentati nella massima evidenza aggraziata, eppure non totale mancanza di una certa abilità e volontà da teatro melodrammatico. Ed in proposito non è da dimenticare che il Savioli fece un’indicativa prova teatrale con la tragedia Achille edita a Lucca nel 1761, ma già rappresentata in casa nel 1757.

È una tipica tragedia del classicismo rococò e, se il Savioli raggiunge poi la sua massima forza personale negli Amori, mi sembra che la sua tragedia possa ben essere considerata nella storia dei tentativi classicistici-rococò di metà Settecento e possa d’altra parte servire a completare l’immagine del letterato bolognese nella sua capacità di rappresentare gli stimoli e le aspirazioni di una forte corrente del suo tempo tesa a illeggiadrire il drammatico mondo dei classici e dar dignità classica al proprio costume.

Ed infatti in endecasillabi molto agili e sicuri vive un mondo di affetti e di personaggi languidi e vivaci: Paride sospiroso per Elena, Achille spasimante per la bella Polissena, e questa sdegnosa e pur segretamente innamorata di Achille.

La figura di Polissena, viva nel continuo vagheggiamento di Achille, che la ricorda in atteggiamento di bellezza pietosa tra figura di bassorilievo e colore languido rococò

(Tu la vedesti

quella nemica amabile abbracciante

mesta le mie ginocchia, i suoi lamenti

e le sue preci a quelle unir del padre.

Un languido pallor che la tristezza

sparso le aveva sul leggiadro viso,

le incolte vesti, il biondo crin negletto

anziché tôrre a lei crescean beltade),

ha una sua grazia nobile e mobile, presa come è tra l’amore che appena osa rivelare a se stessa e il rispetto per il fratello Ettore ucciso da Achille, al quale solo infine farà comprendere con delicati sottintesi la vera condizione del suo animo.

Pene sottili e senza violenza, un mondo greco rivisto con occhialetto di salotto settecentesco. E non certo risultati tali da capovolgere la nostra conoscenza del Savioli, ma tali anzi da sottolineare quella attenzione ad una psicologia di tenerezza amorosa, che poi il poeta degli Amori riassume in direzioni piú succinte e sommarie e tali da meglio giustificare il piano particolare del suo «capolavoro» che si eleva nell’attività savioliana come momento successivo e definitivo di esercizio piú arduo e impegnativo su di una generale capacità espressiva, su di una pratica di classicismo rococò piú discorsiva e teatrale della cui esperienza usufruisce per la sua rapida sintesi gustosa.

In grazia di questi caratteri gli Amori restano un punto fermo del classicismo settecentesco[70] e, mentre aprono una linea di poesia erotica classicistica che si sviluppa in piú matura atmosfera neoclassica e giunge a sciogliersi addirittura nel Foscolo, consolidano in generale la coincidenza di aspirazione classicistica e di poetica dell’evidenza elegante, del riferimento mitico e figurativo in precise condizioni di vivacità e leggiadria rococò.

Mentre, dunque, l’esempio degli Amori costituisce un momento essenziale nel graduato sviluppo del classicismo e un modello ripreso e poi superato – come vedremo – nello svolgimento della lirica neoclassica, l’esempio della maniera «grandiosa» del tardo sonettismo frugoniano sorregge lo sviluppo di una tendenza lirica che si svolge nel secondo Settecento piú marginalmente rispetto alla linea classicistico-neoclassica, ma non senza successivi riassorbimenti nel Monti e in quella velleitaria ripresa di poesia «sublime» che ha pure addentellati e contatti con aspetti «grandiosi» della stessa lirica neoclassica. Ad un livello di preoccupazioni puramente artistiche si colloca cosí la maniera «pittorica» del sonettismo di Giuliano Cassiani (Modena 1712-1778) che tende – con notevole abilità e sapienza stilistica – a stringere nell’ambito breve del sonetto tutta una scena e un movimento di figure ed azioni di celebri fatti mitologici o biblici per ricavarne effetti figurativi e sonori, grandiosi e robusti, nella direzione di una specie di pittoricità rococò piú accesamente colorita e quasi tiepolesca. Come può ben vedersi dal celebre sonetto Il ratto di Proserpina[71], paradigmatico ed esemplare per questa maniera poetica che poté attrarre fra gli altri il giovane Alfieri dei primi sonetti o poté venir ripresa da sonettisti come Pellegrino Salandri (1723-1771) o come il frugoniano Lorenzo Fusconi (1726-1814), mentre poteva ancora usufruirne Onofrio Minzoni (Ferrara 1734-1817) che – celeberrimo soprattutto ad opera del Monti, per il suo presunto dantismo e per la sua retorica ribellione al gusto piú edonistico o conversevole della lirica didascalico-classicistica – chiaramente denuncia i limiti di velleitarietà del suo «fare robusto» e grandioso – addirittura per alcuni dei contemporanei non solo dantesco, ma michelangiolesco – che egli tendeva a motivare con ragioni non solo letterarie, ma anche religiose ed edificanti (fu noto predicatore non privo di adeguata cultura teologica), risolte, in realtà, in una convulsa e ampollosa scenografia caratterizzata da una tecnica assai provinciale e artigianale, approssimativa e goffa, di cui è chiaro esempio il troppo famoso sonetto Sulla morte di Gesú Cristo:

Quando Gesú con l’ultimo lamento

schiuse le tombe e la montagna scosse,

Adamo rabbuffato e sonnolento

levò la testa e sovra i piè drizzosse.

Le torbide pupille intorno mosse

piene di meraviglia e di spavento,

e palpitando addimandò chi fosse

Lui, che pendeva insanguinato e spento.

Come lo seppe, alla rugosa fronte,

al crin canuto ed alle guance smorte

colla pentita man fe’ danni ed onte.

Si volse lagrimando alla consorte,

e gridò sí che rimbombonne il monte:

Io, per te, diedi al mio Signor la morte![72]

Piú singolari nel contesto della letteratura di metà Settecento sono la personalità e l’opera di Alfonso Varano (nato nel 1705 a Ferrara dove – dopo gli studi compiuti alla scuola del Tagliazucchi nel collegio dei nobili di Modena – passò tutta la sua vita e morí nel 1788), aristocratico di alte origini (discendeva dai duchi signori di Camerino) che nella sua stessa opera riflette tale sua condizione sociale e spirituale associata, nello sdegno intransigente e retrivo per il suo tempo «libertino» ed «empio», ad una rigida e sin superstiziosa ortodossia religiosa e ad una chiara opposizione al pensiero illuministico, cui solo può avvicinarlo certo gusto di poesia scientifica, ma dilatato in grandiosità scenografica ed eccitata.

Tensione al grandioso e all’esaltata immaginosità che lo portava insieme al polemico rifiuto – per ragioni estetiche, ma anche religiose – del classicismo e della sua mitologia e che, in un ambiguo incontro di ritorno barocco e di aspirazione alla ripresa della poesia biblica e dantesca (non senza ricordi di quella miltoniana), fa pur avvertire nella sua ibrida e farraginosa produzione poetica e soprattutto nelle sue Visioni sacre e morali (iniziate nel 1749 e terminate nel 1766) un confuso fermento di sensibilità inquieta e sin morbosa, non senza possibilità di stimoli per le successive tendenze preromantiche e per quel gusto scenografico, grandioso-visionistico (con interventi macchinosi di angeli e demoni), che troverà piú diretta ripresa nelle visioni montiane[73].

Certo – sia ben chiaro – non si tratta di un vero e preciso anticipo preromantico, cosí come non si può troppo accentuare il valore di presentimento alfieriano nelle tragedie del Varano: Demetrio, Agnese martire del Giappone, Saeba, regina di Cinge e di Taniorre, e Giovanni di Giscala, che è fra quelle la piú interessante e stimolante per la notevole energia risentita del protagonista, per la sua disperata volontà di potenza tirannica cui il Varano oppone la virtú cristiana della sua antagonista Marianne, ma da cui in realtà egli è attratto per la sua dura e aristocratica intransigenza testimoniata fino al momento della morte.

Eppure – all’altezza dei decenni in cui si vengono manifestando, attraverso le versioni di testi preromantici stranieri, i primi segni della tendenza preromantica – la poesia delle Visioni, tetra e ossessiva, intrisa di orrore e di morte, schiva di ogni misura e consonanza classicistica, rigurgitante di ambigui ritorni di sontuoso-fosco barocco, poté – come dicevo – contribuire, dall’interno della poesia italiana, ad una certa indigena autorizzazione di nuovi movimenti di sensibilità eccitata, di modi di linguaggio diverso da quello dominante in zona illuministico-classicistica, di audacie – comunque motivate – di temi e di linguaggio in direzione dell’orrido e del macabro.

E basti in proposito citare almeno, dalle visioni piú tipiche per una sorta di «museo degli orrori» (quelle per la peste di Messina e per il terremoto di Lisbona[74]), un brano come il seguente:

Sul letto di putredine schifosa

giacea del tempo nel suo morder forte

l’estinta spoglia avidamente rosa:

fitti i rai spenti entro l’occhiaie smorte,

guaste le labbra, aperto il petto, e l’anche

gonfiate e tinte di livida morte:

rigide e impallidite le man bianche,

dilacerato il grembo, e combattuto

dalle serpi non mai nell’ira stanche,

lezzo, noia ed orror quel che rifiuto

fu degli ingordi vermi ed era in lei

la piú vezzosa parte, il cener muto.[75]

4. La poesia dialettale e il Meli

La poesia dialettale, che già aveva avuto un illustre rappresentante nella prearcadia milanese, il Maggi, trova soprattutto nel secondo Settecento una forte ripresa giustificata dalla nuova valorizzazione delle risorse dei dialetti (si pensi all’appoggio che il Galiani diede alla poesia dialettale napoletana con il suo libro Sul dialetto napoletano, pubblicato anonimo nel 1779) e dal gusto crescente, fra illuminismo e preromanticismo, per una poesia schietta e popolare anche se maneggiata da scrittori assai consapevoli della tradizione letteraria e della loro missione artistica.

Proprio a Milano si profila, sulle orme del Maggi e in accordo con istanze dell’Accademia dei Trasformati, un piú forte esercizio di poesia dialettale in cui l’intenzione satirico-morale è piú esplicita ed intonata ad ideali di naturalezza e di saggia schiettezza, che nella lingua dialettale cercavano il loro mezzo espressivo piú coerente.

Tendenza di cui i rappresentanti piú notevoli furono due amici del Parini – anch’egli autore di componimenti in dialetto –, Domenico Balestrieri (1714-1780) e Carl’Antonio Tanzi 1710-1762).

Il primo – che si provò anche nella traduzione in dialetto milanese della Gerusalemme liberata e in quella di Anacreonte, e scrisse rime «toscane» promovendo insieme, con chiaro intento satirico contro la futilità delle «raccolte» poetiche, la celebre raccolta Lagrime in morte di un gatto – riuscí soprattutto a risolvere, con piú denso brio, la sua tendenza ad una discorsività bonariamente satirica e ammaestratrice non tanto nel pur elegante e disinvolto esercizio di veri e propri componimenti satirici, quanto nella rapida e saporita concisione delle sue novellette ed epigrammi, in cui svelte e abbozzate figurine, motti di saggezza equilibrata, satira di storture ed errori della società contemporanea, trovano un loro movimento artistico ed una loro funzione di efficacia.

Il secondo, «segretario perpetuo» dell’Accademia dei Trasformati, conoscitore ed esperto di storia letteraria, piú incisivamente portò nelle sue poesie milanesi – anche quando esse eran composte per un’occasione e su temi dettati dall’Accademia – un piú sicuro accento di passione e di calore morale che spiega l’affetto profondo che per lui ebbe il Parini e la cura che questi dedicò alla raccolta postuma delle sue poesie.

Rilevante in tal senso il componimento in ottave, recitato nel ’59 all’Accademia dei Trasformati, sul tema delle «caricature», pieno di ritrattini e descrizioni satiriche della boria e delle mode altezzose della classe nobiliare che fanno pensare alla satira – sia pure qui tanto piú debole e ideologicamente incerta – del Giorno e alla volontà pariniana di porre in contrasto una zona sociale satireggiata e i positivi ideali di sincerità, sanità socievole ed umana cortesia.

Altro centro importante di poesia dialettale è Venezia (e il Veneto in genere) dove il dialetto divenne lingua poetica del grande Goldoni, la cui esperienza non può venire isolata dalla lunga tensione espressiva del dialetto realizzata a tanto minore livello nei numerosi prodotti letterari che si dispongono lungo tutto l’arco del secolo (agli inizi di questo sarà da ricordare almeno l’attività di Antonio Ottoboni) e specie nella sua seconda metà quando – fra le poesie di Angelo Maria Labia, di Angelo Maria Barbaro da Portogruaro, di Lodovico Pastò, di Marcantonio Zorzi, del trevisano Giovanni Pozzobon detto Schieson e di quel Giorgio Baffo (1694-1768) che per l’estrema spregiudicatezza libertina e irreligiosa dei suoi componimenti osceni meritò l’attenzione di scrittori europei dalla fine del Settecento a Stendhal e ad Apollinaire, anche se in realtà le sue qualità poetiche non superano la franca efficacia di una esasperata descrittiva di atti e vicende sessuali – spiccano per maggiori doti artistiche e maggiore coscienza letteraria Francesco Gritti e Anton Maria Lamberti.

Il primo (1740-1811), dopo una dispersiva attività in lingua italiana fra traduzioni e componimenti teatrali, trovò la sua piú congeniale direzione espressiva nelle favole o apologhi dialettali (sollecitate soprattutto dalla lettura delle Fables di J.P. Claris de Florian, di cui spesso riprese e amplificò assai originalmente temi e prospettive) che esprimono, con lieve agilità e amabile ironia, una scettica e contenuta satira dei propri tempi, della decaduta società nobiliare (non senza qualche movimento di piú forte simpatia per la sanità popolare).

Sulla via del Meli volle porsi invece Anton Maria Lamberti (1757-1832), che del poeta siciliano tradusse alcuni componimenti in dialetto veneziano, ma che nella sua abbondante produzione dialettale (fra almanacchi, proverbi e vere e proprie poesie o isolate o legate in composizioni piú vaste come le Quattro stagioni campestri e quattro cittadine in versi veneziani) non riesce tanto a far vivere un vero sentimento poetico della vita popolare e sociale veneziana[76], quanto a risolvere in una esile e aggraziata voce di canto il fascino della grazia femminile inquadrata in una lieve e galante cornice di stampe veneziane. È il caso celebre della canzonetta La gondoleta, nel cui ritmo melodico e fluido si svolge una lievissima scena di incanto galante adiuvato dal tenue riflesso della luce della laguna e di una luna mezzo nascosta dalle nuvole, dal movimento pigro della gondola:

La biondina in gondoleta

l’altra sera g’ho menà;

dal piacer la povereta

la s’ha in bota indormenzà.

La dormiva su sto brazzo,

mi ogni tanto la svegiava;

ma la barca che ninava

la tornava a indormenzar.

Fra le nuvole la luna

gera in cielo meza sconta,

gera in calma la laguna,

gera il vento bonazzà...[77]

Quasi nessuna regione d’Italia manca del resto di una sua produzione dialettale[78] e cosí – solo a puntare ancora su di un altro caso piú degno di ricordo – non potrà dimenticarsi l’opera del torinese Edoardo Calvo (1773-1804) che fortemente spicca in un panorama di letteratura dialettale piemontese piú volenterosa e ricca che artisticamente notevole, e che trasse alimento per la sua scarsa ma vigorosa poesia da una profonda passione etico-politica: prima ardentemente rivoluzionaria (e ne scaturí la robusta e violenta canzone Passapòrt d’ij aristocrat[79]), poi – ritornato in patria dopo un esilio in Francia durante l’occupazione austro-russa, e deluso dai soprusi dei dominatori francesi – misogallica e amaramente intonata all’urto, da lui profondamente sofferto, fra illusioni e delusioni. È in questa seconda fase della sua esperienza e della sua attività poetica che il Calvo scrisse – insieme a componimenti piú direttamente polemici e politici come la Petission d’ij can e l’Artaban bastonà – le sue poesie piú mature, come le Favole morali, vive nell’equilibrio artistico di precisi intenti satirici e di particolari realistici e caratteristici, e quell’ode Su la vita d’ campagna che storicizza e ambienta con nuovo vigore «moderno» il consueto elogio della vita rustica entro un tessuto metrico abilissimo e coerente al carattere popolare e realistico di quell’elogio.

Ma la poesia dialettale settecentesca trova la sua massima espressione nella lirica siciliana del Meli che ben mostra la sua piú complessa origine culturale-poetica, la sua pertinenza ad una fase cronologicamente e culturalmente avanzata del Settecento.

Giovanni Meli nacque infatti a Palermo il 6 marzo 1740 e se la cultura e letteratura siciliana di metà secolo può apparire nel suo insieme piú arretrata alle condizioni di un primo Settecento arcadico-razionalistico (di cui già nei primi decenni del secolo risentí soprattutto le istanze di rinnovamento erudito e storiografico nelle prime opere di erudizione regionale – come la Bibliotheca historica regni Siciliae del Caruso e la Bibliotheca sicula del.Mongitore – e le istanze della filosofia cartesiana e leibniziana espresse entusiasticamente nei poemi didascalici di Tommaso Campailla, Adamo o il mondo creato, e di Tommaso Natale, La filosofia leibniziana), essa non mancava di nuove esperienze e tensioni di tipo illuministico specie negli anni della piú matura formazione del poeta, quando egli, dopo gli studi fatti nelle scuole dei Gesuiti e gli studi di medicina, poté entrare, nel 1760-1761, in piú diretto contatto con l’élite di letterati e uomini colti palermitani che si raccoglievano sia nell’Accademia del Buon Gusto sia, e meglio, nell’Accademia fondata da Antonio Lucchesi-Palli, principe di Campofranco, quella «Galante Conversazione», che coltivava contemporaneamente l’uso del dialetto[80] e dell’italiano su di una tematica prevalentemente anacreontica e rolliana: come faceva allora il Meli, che presto però scelse piú decisamente il dialetto come piú adatto alla espressione di un mondo poetico fortemente legato alla realtà siciliana e d’altra parte suscettibile, e bisognoso, di una forte letterarizzazione per divenir capace di vera e raffinata espressione poetica. Quale egli cercò di realizzare nel poemetto bernesco-ariostesco La fata galanti, del ’62, da cui ricavò fama e consensi e l’iscrizione all’altra accademia palermitana, quella degli Ereini.

Ma a questa prima fama poetica non corrispondeva ancora una sistemazione sicura e il Meli fu perciò costretto ad esercitare la professione medica a Cinisi, un paesetto del palermitano, dove rimase dal ’67 al ’72 per poi rientrare definitivamente a Palermo, dove – conquistata con le sue nuove opere una ancora maggiore notorietà e prestigio poetico (ed anche scientifico, grazie ad opere come le Riflessioni sul meccanismo della natura in rapporto alla conservazione e riparazione dell’individuo, proibito dalla censura e dal forte partito gesuitico, ma pubblicato poi a Napoli per intercessione dello stesso arcivescovo di Palermo) – egli trovò una clientela numerosa e generosa, poté costruirsi una notevole fortuna economica e una vita socievole facile.

In questa fase particolarmente felice della sua biografia e della sua attività poetica il Meli divenne uno dei protagonisti indiscussi della vita sociale e culturale di Palermo, affermandosi come poeta con l’edizione in cinque volumi delle sue poesie, nel 1787, e, nello stesso anno, ottenendo la cattedra di chimica nell’Accademia degli Studi, trasformata poi in università (non ultimo effetto della attività riformatrice e rinnovatrice dei viceré Caracciolo e Caramanico, nel cui periodo di governo il Meli trovò le condizioni piú propizie allo sviluppo delle sue prospettive di moderato fautore di un riformismo illuministico paternalistico e regio), mentre nel 1796 veniva incaricato di redigere le «leggi» dell’Accademia Nazionale, che voleva essere l’accademia della «Nazione» siciliana e voleva diffondere l’uso di quella lingua nazionale-siciliana, alla cui consistenza, autorevolezza, regolarità normativa il Meli aveva dato altissimo contributo con la sua opera poetica, scritta in un siciliano a suo modo illustre e toscaneggiante, sottratto all’empirico e rozzo arbitrio del dialetto parlato. Saranno poi alcune vicende familiari a complicare e amareggiare gli ultimi anni della sua vita che tuttavia fu coronata dalla pubblicazione definitiva delle sue opere poetiche i cui primi volumi il poeta – sempre piú legato alla causa legittimistica – presenterà a Ferdinando IV, ricevuto da lui con i massimi onori concessi ai grandi di Spagna. Ciò avveniva nel 1814: il 20 dicembre dell’anno successivo il Meli si spegneva nel feudo di San Lorenzo, ospite di uno dei suoi molti amici e ammiratori aristocratici.

Il noviziato poetico del Meli è contraddistinto dall’incontro tra una forte curiosità filosofica e una volontà di partecipazione alle discussioni contemporanee sui sistemi filosofici antichi e moderni da una parte e, dall’altra, un acceso bisogno di sfogo immaginoso ed estroso che mescola elementi ideologico-utopistici, affermati e satireggiati umoristicamente, ed elementi di un piú sincero ed autentico edonismo vitale e naturale, di un idillismo colorito e musicale, teso ad alimentarsi di spettacoli di vita semplice e lieta, di paesaggi luminosi e felici di eleganti e voluttuose immagini della bellezza femminile. Questa complessità ed esuberante spinta espressiva trova infatti successiva realizzazione nei primi tentativi melici e idillici in italiano e in dialetto sulla via delle esperienze arcadiche e postarcadiche (Metastasio, Rolli, Frugoni, Savioli), non senza qualche maggior ricorso a certa eredità secentesca fra il Marino idillico-pastorale e altri lirici del Seicento meridionale, nell’interrotto poemetto in ottave italiane La ragione, del ’62, piú direttamente disposto ad un’esaltazione poetica della nuova filosofia razionalistico-empiristica, e nel poemetto in siciliano La fata galanti (pure del ’62) in cui la prospettiva piú affermativa del precedente poemetto interrotto veniva sviluppata e arricchita in una colorita fantasticheria di ispirazione ariostesca che mette in moto – sotto la guida della fantasia, la «fata galante» – un estroso e disordinato viaggio immaginario in regioni favolose, dove il giovane poeta incontra filosofi, letterati, scienziati, personaggi reali della società palermitana, figurazioni allegoriche di vizi e storture della mente umana e può liberamente (ma con grande disordine ed eclettismo di stile) espandere la sua vogliosa disponibilità di toni satirici, didascalici, umoristici, erotico-galanti, favolistici, descrittivi, piú accumulati che amalgamati e coordinati entro una chiara direzione ideale e poetica.

Né l’incertezza della giovanile poetica meliana può dirsi davvero chiarita e superata nella prima opera del nuovo e fertile periodo del soggiorno a Cinisi, quel nuovo poemetto in ottave bernesche Romanzi filosofici circa l’origini di lu munnu (fra ’68 e ’70) che – assai piú chiaramente svolgendo la direzione didascalica di tanta poesia razionalistica e illuministica (che in Sicilia aveva costituito una linea assai cospicua nei poemi filosofici del Campailla e del Natale) in forme caricaturali e satiriche, agevolate dall’efficacia di un dialetto sempre meglio maneggiato e dominato – intendeva insieme esporre e parodiare le varie ipotesi antiche e moderne sull’origine del mondo. Ma anche qui la stessa piú decisa prospettiva caricaturale-satirica lascia poi trasparire elementi di un credo empiristico senza riuscire né a rilevarli con forza né a coinvolgerli in un’assoluta posizione di delusione e negazione profonda. Tanto che, di fronte a quella che poteva essere una via di satira di tutto e di tutti, il Meli (mentre proseguiva sulla direzione satirico-comica in capitoli e satire di tipo bernesco rivolte a caricaturare aspetti della vita contemporanea, La villeggiatura, Contra li Cirimonii e lu Galateu ecc., e in realtà tanto piú deboli e letterarie quando le si paragoni a quanto un Parini o un Goldoni ricavavano da simili argomenti in direzione satirica o comica) sentí il bisogno, fra ’71 e ’72, di ritentare, in forma di trattato in prosa italiana (Riflessioni sul meccanismo della natura), una via di esposizione e discussione affermativa e «seria» di idee e sistemi filosofici a cui pur lo portava un interesse genuino, ma poco sicuro e profondo, per poi tentare nelle Elegii (che successivamente raccolse sotto il titolo di Lu chiantu di Eraclitu) una prospettiva elegiaco-drammatica di pessimismo accorato sulla sorte dell’uomo che, interessante per certe piú vibrate e dolenti interrogazioni, non riesce però, neppur essa, a costituirsi come capace di risolvere compiutamente la confusa meditazione meliana e a sorreggere una soluzione poetica coerente ed organica.

A questo punto è chiaro che ogni isolata ipervalutazione (varie volte tentata) o delle prospettive ideologiche affermative o di quelle satiriche e pessimistiche del Meli in sé per sé e in funzione di una loro soluzione poetica, risulta inaccettabile.

Tuttavia sarebbe altrettanto errato cancellare opere e indicazioni in tal senso usufruibili e ridurre il Meli a un tardo arcade invano maturatosi entro climi e tensioni nuove e vivo solo in un dono di canto affinato dalla pura esperienza letteraria e dalla nuova veste linguistica e timbrica in cui si espresse.

In realtà quelle confuse aspirazioni e quei tentativi parziali, e alla fine falliti rispetto al corpo e alla direzione della sua vera poesia idillico-realistica, ebbero pure un valore non solo documentario e biografico; e come, indirettamente, riaffiorano nella stessa sua vera poesia, cosí ne preparano e assicurano, positivamente e negativamente, la novità e la consistenza nell’esperienza da cui essa scaturí e nel quadro della letteratura di secondo Settecento.

Cosí satira, caricatura, note pessimistiche arricchiranno l’impasto di toni di brio, estro scherzoso, fascino apertamente gioioso o lievemente malinconico degli idilli della Buccolica. Cosí il risentimento confuso e voglioso del moralista e dell’aspirante filosofo di fronte alla vita, alle sue interpretazioni filosofiche, alle sue condizioni attuali di tipo sociale e civile, poté pur commutarsi – entro la piú congeniale poetica della Buccolica – in un rafforzamento nuovo di quelle aspirazioni alla vita lieta e serena, alla felicità naturale, alla pace nel seno della natura, che supera nettamente le forme di un semplice ritorno alla natura dell’Arcadia (e specie di quella immagine di essa tutta frivola e letteraria a cui pure il Meli fu a volte riportato).

Tanto piú che, pur nelle prospettive confuse del lettore e critico delle ideologie illuministiche, all’altezza di quelle Riflessioni sopra ricordate, si vien comunque precisando nel Meli una consonanza generica, ma assai decisa, con il formidabile appello del Rousseau alla felicità dell’uomo solo nel suo ritorno alla natura, e con la meditazione sensistica sulla natura della poesia e sulla forza dei sensi e del sentimento. Mentre dalla cultura letteraria di metà secolo il rilancio di una Arcadia rousseauiana e sensistico-sentimentale, con tutta una nuova ricchezza e concretezza di vita del paesaggio naturale e sin con nuove sfumature elegiache di direzione preromantica, veniva provvidenzialmente a confortare la nuova scelta poetica del Meli (che era in parte anche ripresa di primi suoi tentativi idillico-melici piú direttamente o solamente appoggiati ai testi dell’Arcadia italiana) con le offerte stimolanti dei poemetti sulle stagioni del Thomson o del Saint-Lambert, con gli idilli gessneriani, con la poesia del paesaggio alpino di Haller, per citare solo alcune delle letture piú propizie e sicure di testi europei variamente esemplari per la maturazione della poetica centrale del Meli.

Alla sua opera maggiore, La Buccolica (divisa, dopo due sonetti introduttivi, in quattro parti intitolate alle quattro stagioni e comprendenti cinque ecloghe e dieci idilli), il Meli si applicò a lungo, fra il periodo immediatamente precedente la sua partenza per Cinisi, il soggiorno in quel paesino (fra il 1767 e il 1772) e poi ancora lavorandovi con correzioni ed aggiunte di nuovi componimenti (Lu capraru, Li munti Erei, Teocritu, Martino, Li piscaturi, La villa favurita) anche dopo la prima edizione delle sue opere nel 1787.

In questa fondamentale espressione del suo animo, dei suoi ideali piú sinceri e sicuri, della sua aspirazione ad un rinnovamento poetico e linguistico che riportasse nel mondo moderno le «veneri attiche» di Teocrito e di Anacreonte (il primo sentito poi come illustre archetipo «siciliano» della sua siciliana poesia bucolica[81]), il Meli venne estraendo dal suo confuso e complicato ingorgo di velleità e aspirazioni ideali e poetiche il succo piú genuino del suo sentimento della «natura» benefica e serena, del suo edonismo umanitario e pacifico, del suo gusto di una libertà ritrovabile solo nella tranquilla fruizione dei beni e delle passioni naturali, in un perfetto accordo fra l’uomo sincero, schietto, non deformato dalle ambizioni e dalle tentazioni egoistiche della società «artificiosa» (ma insieme educato da una ragione naturale e dal «buonsenso» antischematico e antidogmatico), e la buona madre, la natura, infallibile datrice di affetti e di sentimenti virtuosi e piacevoli, spontanea e varia nei suoi spettacoli che alimentano la vita dell’uomo di estasi e piaceri e sono la base stessa di ogni idea e pratica di bellezza poetica.

Tale sentimento si avvale, come dicevamo, della spinta ideologica e sentimentale del rousseauismo, ma lungi dal profilarne direttamente le conseguenze combattive e prerivoluzionarie, ne riassorbe poeticamente il rinnovato impulso a quel gusto bucolico-idillico che il Meli rianimava in piú diretto contatto letterario con la tradizione classica, umanistica ed arcadica e con le nuove forme di idillio naturale e sentimentale di tanta poesia settecentesca.

Vibra perciò al fondo dell’animus poetico della Buccolica una tensione nuova che può esplicitarsi in precise affermazioni di elogi della «pace»[82], della umana dignità, della saggezza della natura, e della coincidenza fra istinto naturale e istinto morale, della poesia collaboratrice di pace e di saggezza (e si pensi al passo del Teocritu in cui vengono contrapposti Omero, che esalta la violenza sotto la specie ingannevole dell’eroismo, e Teocrito, cantore di un’epoca pacifica e mite), ma che piú profondamente e poeticamente opera sollecitando il piú diretto e autentico sentimento meliano della vita naturale e della felicità pastorale e conferendo alla sua rappresentazione uno slancio, una elasticità, una libertà di movimento, una carica di entusiasmo e di concretezza (e magari di pensosità malinconica) tanto maggiori di quanto sarebbe potuto avvenire in uno stanco epigono e letterario imitatore dei loci communes arcadici.

Cosí le figure dei pastori e dei contadini della Buccolica rivelano la loro nuova qualità di dignità umana e di efficace incontro di spontaneità e di saggezza, di sobrietà e sanità, piú che in precise indicazioni apologetiche, nella stessa poetica vitalità della loro animata rappresentazione, nel timbro vivo e reale delle loro voci. Cosí l’esaltazione profonda della vita naturale e della meraviglia della natura, poetica e reale, si attua, piú che in affermazioni ed elogi di tipo rousseauiano, nella incantevole interpretazione poetica dei suoi spettacoli e paesaggi, delle sue luci e colori, delle sue ore e stagioni, delle sue albe e dei suoi notturni, che corrispondono ad un nuovo sincero amore per la natura, ad un nuovo sguardo poetico rivelatore della sua varietà e coerenza (fino a nuove note malinconiche e scure) che sarebbe grave errore ridurre ad un puro e semplice effetto di abilità letteraria e tecnica, laddove la squisita ricchezza dei mezzi tecnici, ritmici, linguistici che il Meli mette in opera (ricorrendo insieme a infiniti appoggi e utilizzazioni di precedenti testi poetici della tradizione melica e bucolico-idillica classica, arcadica e contemporanea) centralmente è sorretta e organizzata da quello sguardo e sentimento autentico e originale.

Ne nasce una poesia inconfondibile e di sicuro valore, non certo altissima né tutta costante, ma chiaramente sorretta da un suo centrale nucleo originale, promotore centrale di punte, movimenti, episodi, componimenti fortemente poetici e, nell’insieme, di un’atmosfera calda e armoniosa, di una voce di fondo organica e capace di variazioni e prospettive incantevoli e originali.

A segnare la forza nuova e morbida, la suggestione evocativa e musicale di un senso nuovo del paesaggio e dell’incanto della natura basterebbe citare il sonetto introduttivo della Buccolica:

Muntagnoli interrutti da vaddati,

rocchi di lippu e arèddara vistuti,

caduti d’acqui chiari inargintati,

vattàli murmuranti e stagni muti;

vàusi e cunzarri scuri ed imbuscati,

sterili junchi e jinestri ciuruti,

trunchi da lunghi età malisbarrati,

grutti e lambichi d’acqui già impitruti,

pàssari sulitarii chi chianciti,

Ecu, ch’ascuti tuttu, e poi ripeti,

ulmi abbrazzati stritti da li viti,

vapuri taciturni, umbri segreti,

ritiri tranquillissimi, accugghiti

l’amicu di la paci e la quieti.[83]

Qui l’ispirazione idillico-naturale del Meli, la sua capacità di creare un’atmosfera intera, melodiosa e ricca di echi e suggestioni, che dal paesaggio salgono nella voce estatica e calma del poeta, si realizzano in un tono musicale-sentimentale pensoso e lento che dai particolari sicuri e variamente piú inediti o piú convenzionali (fra i secondi gli olmi abbracciati stretti alle viti, fra i primi i vapori taciturni, le onde segrete, gli aspetti di una natura arida e selvaggia) ha tratto la sua sostanza suggestiva placido-malinconica, di tanto superiore e nuova rispetto a quanto i modelli classici e arcadici (magari il «solitario bosco ombroso» del Rolli, certo l’autore piú usufruito dal Meli in una zona arcadica piú avanzata e densa) potevano offrire, e tale da far ben capire che, se il Meli non appartiene al preromanticismo e alla zona della sensibilità inquieta e tormentosa sollecitata da Young e dall’Ossian, certo ha già avvertito il muoversi di un sentimento della natura meno contenuto nella dorata felicità classica, nella pura serenità dello splendore gioioso o della fittizia perfezione dei fondali di giardini all’italiana o alla francese. E un simile tono piú grave e pensoso sarà piú volte da ritrovarsi specie nella disposizione metrica e ritmica delle parti descrittivo-narrative della Buccolica, come il bell’inizio del primo idillio della Primavera che parte dalla ripresa del celebre passo virgiliano della prima ecloga, ma si svolge in una sequenza realistico-melodica di sicura originalità, salendo ad un esito piú dolce e squillante (il canto dell’usignolo) dal lungo «andante» pastorale pieno di echi, di indugi silenziosi, di figure vere e letterarie in un impasto di singolare efficacia:

Già cadevanu granni da li munti

l’umbri, spruzzannu supra li campagni

la suttili acquazzina; d’ogni latu

si vidianu fumari in luntananza

li rustici capanni; a guardii a guardii

turnavanu li pecuri a li mandri:

parti scinníanu da li costi, e parti,

sfilannu da li macchi e rampicannu

attornu di li concavi vaddati,

viníanu allegri ntra l’aperti chiani...[84]

Ma già in quell’idillio la canzonetta di Dameta commuta il tono piú pensoso della parte narrativa in una voce tenera ed estatica piú lieta e frizzante in cui il sentimento della natura trova il suo esito piú edonistico e vitale, la sigla piú nitidamente melodica:

Sti silenzii, sta virdura

sti muntagni, sti vallati

l’ha criatu la natura

pri li cori innamurati.

Lu susurru di li frunni,

di lu ciumi lu lamentu,

l’aria, l’ecu chi rispunni,

tuttu spira sentimentu.[85]

Al sommo della spinta poetica della Buccolica si profilano, indimenticabili, alcuni paesaggi rappresentati non con la lucida e penetrante chiarezza di un pur alto «vedutismo» (quale si precisa nella storia dell’arte figurativa ad opera dei Bellotto, Canaletto, Guardi) ma piuttosto evocati in forme musicali-sentimentali per la forza di un’adesione alle offerte della natura nella sua varia suggestione di luci, colori, sfumature emozionali, tradotta nella voce (e non a caso essi si profilano, per lo piú, all’inizio di un canto, nel momento piú intenso della voce che scopre la sua consonanza umana con il fascino della natura) di personaggi poetici, rappresentanti di quella fede nella natura, di quel piacere della vita naturale nella sua libertà e varietà che è anche, ripeto, il raccordo piú sincero del Meli con la religione della natura nel suo passaggio dalle forme piú gracili e sommarie del credo razionalnaturale dell’Arcadia a quelle piú dense di elementi ideologici dell’epoca illuministica nelle sue aperture, meno consapevoli e dolorose, alle nuove tendenze preromantiche.

Saranno le albe già ricordate o quella, piú graduata fra il silenzio sospeso dell’alba, la sua incrinatura nella «rauca nota» dell’allodola che prova sottovoce il suo canto, il pieno esplodere di colori, di luce, di canti spiegati di innumerevoli uccelli (che aggiungono il colorito realistico-linguistico dei loro varii nomi dialettali) che si stacca, come prima parte di un paragone, nel contesto della parte introduttiva dell’idillio VIII dell’Invernu:

Comu ntra lu spaccari di l’alburi,

’mmenzu di li silenzii ruggiadusi,

si fa sintíri qualchi rauca nota

chi una lòdana azzarda sutta vuci;

ma quannu poi si vesti l’orizzonti

di purpura, e poi d’oru, allegri tutti

turdi, merri, riíddi e calandruni,

e pàssari e cardiddi e capifuschi

rúmpinu a tutta lena, e cu li canti

vannu assurdannu l’aria e li chianuri...[86]

E il sincero gusto delle stagioni, nelle loro varie offerte di placidi e naturali piaceri, si condenserà in limpidi quadretti musicali come quello che apre il canto di Ergastu dell’ecloga V dell’Autunnu:

Càdinu li prim’acqui,

li venti fannu guerra,

l’oduri di la terra

gratu si senti già;

’nvirdicanu l’olivi,

matura è la racina:

Filli, biddizza fina,

eccu l’autunnu è ccà.[87]

Dove basta quest’acuto e piacevole odore della terra ridestata dalle prime piogge autunnali per dimostrarci la schietta sensibilità del Meli, la sua capacità di originalmente collaborare alla nuova scoperta poetica dei piaceri e delle emozioni del paesaggio e della natura che il secondo Settecento veniva operando a vari livelli di acutezza e di penetrazione insieme alla scoperta della complessità sensibile e sentimentale dell’uomo e alla lenta e difficile conquista della libertà interiore e civile in un mondo umano e terreno in cerca delle sue ragioni di piena autonomia.

E se si eviterà di chiedere al Meli un’intensità e profondità sentimentale e meditativa che non gli appartengono, di esigere da lui istanze di pessimismo «preleopardiano», ansie di infinito, vibrazioni di dolore o di gioia cosmica, si potrà anche meglio valutare l’originalità di certi suoi componimenti piú malinconici come il notissimo Polemuni, in cui piú che un pessimismo disperato e preromantico sarà da considerare positivamente l’impasto dolce-malinconico di quella voce dolente e la consonanza efficace e nuova – su di un livello medio e senza alte punte – fra quella tenera favola di sventura patetica e il paesaggio rupestre e marino che la sollecita e la riverbera nei suoi echi melodiosi e tristi: non dramma e, se si vuole, piuttosto melodramma, in cui certe parole estreme vanno smussate nella loro risonanza melodico-patetica, ma indubbiamente capace di far circolare armonicamente nell’atmosfera sentimentale poetica dell’epoca una sensibilità piú ricca di nuove venature sentimentali.

Si potrà osservare infine che nella stessa Buccolica molto spesso manca fusione tra le accentuazioni comiche o preziose, fra la volontà di rappresentazione realistica e mimetica (l’uccisione del porco nell’Invernu) e il gusto melodico piú isolato, fra il tumulto ritmico e bacchico e la piú elegante rappresentazione degli amori pastorali, fra le venature malinconiche melodrammaticamente esagerate e la piú consistente poesia della gioia di vivere.

Ma sarà ben da rifiutare una scomposizione pedantesca delle varie componenti della poesia della Buccolica che non consideri la loro funzione e la loro tensione verso le zone realizzate, e realizzate appunto mercé il concorso piú sintetico di quelle componenti.

Se la Buccolica è certo il capolavoro del Meli, le qualità meliche e figurative delle canzonette di quella pur si ritrovano nelle Odi e Canzunetti che il poeta scrisse soprattutto nel periodo del suo ritorno a Palermo, dopo il soggiorno a Cinisi, nella fase piú felice e facile della sua vita di poeta ammirato ed accolto dalla società elegante e nobiliare palermitana, contro le cui qualità di moda e di frivolezza egli poteva pur scrivere le sue Satiri, assai deboli e ben poco corrosive, ma dalla cui eleganza e galanteria egli era ben attratto e affascinato per le stesse componenti edonistico-erotiche della sua personalità e per aspetti pur vivi del suo gusto raffinato e rococò e della sua stessa prima educazione arcadica.

È in questa fase e linea della sua produzione artistica che piú chiare sono le ascendenze della melica amorosa e anacreontica arcadica e postarcadica e le consonanze con il gusto rococò, con il suo miniaturismo pompeiano e l’ornamentazione degli amorini, con i suoi riccioli e svolazzi preziosi, con le sue sfumature di «non so che», con il suo «brio»[88] e il suo recupero, a nuovo livello, di certo piú lontano capriccio concettoso e canoro fra marinistico e lemeniano.

Ma insieme (e qui è una delle ragioni del particolare gusto anacreontico meliano) anche qui si intreccia al rococò piú raffinato una certa piú scagliosa e ruvida grazia di canto popolareggiante che, nelle risorse del linguaggio dialettale colto, insaporisce la linea agile e sinuosa di questi componimenti con mosse fra scherzose e cordiali, con amabili particolari realistico-psicologici piú inediti nella descrizione del sentimento erotico, con richiami musicali sorridenti intorno alla concettosa descrizione della bellezza femminile ricercata, con sensistica ed edonistica minuzia, fino ai particolari di moda del «neo» alla sommità del petto, che, nella sua grazia voluttuosa e capricciosa, sollecita un movimento malizioso e pur non volgare e un fremito di golosità sensuale risolto in una rapida e insolita rappresentazione fisiologico-sentimentale a cui è essenziale il particolare linguistico dialettale con la sua scherzosa vibrazione onomatopeica e cordiale:

Ntra ssi nivi ancora intatti

comu sedi! comu spicchi!

Ah! lu cori già mi sbatti,

fa la gula nnicchi-nnicchi.[89]

Né questa prospettiva piú leziosa e aggraziata esclude il concorso (e a volte il predominio, rapportato a questa dimensione che a sua volta vi riflette un piú leggero gusto miniaturistico) della vita figurativa e musicale-suggestiva del paesaggio naturale e delle sue creature piú istintive (fiori, animali, figure umane leggere e vitali), o inserendoli in movimenti veloci e validi di per sé come lievi interpretazioni della gioia vitale (il movimento lieto della canzonetta Li piscaturi concluso nell’incantevole finale:

Jamu a li nasci,

oh chi piaciri!

Jamu a vidiri,

chi pisca c’è.

Vidremu sbattiri,

vivi e virmigghi,

scrofani e trigghi

a tinghi-tè.

Lu mari invita,

lu friscu alletta;

via, chi s’aspetta?

via, chi si fa?

Picciotti beddi,

viniti a mari,

l’acqui sú chiari,

la varca è ccà.)[90]

o piú centralmente intrecciandoli a un motivo galante che ne riemerge come sottilmente arricchito dall’atmosfera di lieto ed estatico incanto creato dalla scena iniziale.

Come avviene nel caso piú intero e suggestivo della celebre odicina Lu labbru:

Dimmi, dimmi, apuzza nica:

unni vai cussi matinu?

Nun c’è cima chi arrussica

di lu munti a nui vicinu;

trema ancora, ancora luci

la ruggiada ntra li prati:

duna accura nun ti arruci

l’ali d’oru dilicati!

Li ciuriddi durmigghiusi

ntra li virdi soi buttuni

stannu ancora stritti e chiusi

cu li testi a pinnuluni.

Ma l’aluzza s’affatica!

Ma tu voli e fai caminu!

Dimmi, dimmi, apuzza nica,

unni vai cussí matinu?

Cerchi meli? E s’iddu è chissu,

chiudi l’ali e ’un ti straccari;

ti lu ’nzignu un locu fissu,

unni ài sempri chi sucari:

lu conusci lu miu amuri,

Nici mia di l’occhi beddi?

Ntra ddi labbri c’è un sapuri,

na ducizza chi mai speddi;

ntra lu labbru culuritu

di lu caru amatu beni

c’è lu meli chiú squisitu:

suca, sucalu, ca veni.[91]

O come avviene, assumendo una entità naturale a base di una leggiadra allegoria morale, nell’ode La cicala che ben realizza insieme e la dimensione preziosa e affabile di questa direzione di poesia (si pensi soprattutto all’inizio:

Cicaledda tu ti assetti

supra un ramu la matina,

una pampina ti metti

a la testa pri curtina,

e ddà passi la jurnata

a cantari sfacindata)[92]

e l’espressione della piú congeniale e schietta «filosofia» del Meli che, al di là di tante confuse spinte velleitarie, si configura come serenità di una vita semplice e sottratta alle tentazioni della grandezza e del prestigio, dell’avidità di onori e ricchezza e di cui si fa voce una poesia rasserenante e confortante alla quiete e al riposo: come fa il canto della spregiata cicala nei confronti dello stanco viandante, rispondendo poi all’avida e ripugnante formica con le battute finali dell’odicina che esalta insieme l’edonismo fondamentale del Meli e il suo senso gratuito ed immortale della poesia. Né infine si dimentichi come, entro questa sua fase della poesia, il Meli riesca a fondere in una dimensione piú pensosa, complessa e costante, toni sorridenti-ironici, patetici e dolenti, ritmi cantati e pausati, paesaggio e voce del personaggio, nella bella cantata Don Chisciotti che meritò giustamente l’attenzione e la traduzione-rifacimento del Foscolo.

Il maggiore sforzo di esprimere in un’opera organica le sue idealità di riforma dei rapporti umani e sociali in una dimensione di saggezza naturale (una specie di ritorno alla natura e alla serenità primitiva a cui collaborasse l’uso di una ragione essa pure istintiva e naturale, antisistematica ed antidogmatica) e insieme il suo fondamentale scetticismo nella stessa possibilità di realizzare tale riforma – date le costanti egoistiche dell’uomo e le tentazioni della ragione di prevaricare continuamente il limite della sua collaborazione con la natura – fu tentato da parte del Meli nella costruzione di un poema, il Don Chisciotti e Sanciu Panza, composto negli anni 1785-1786.

Ma in questo poema la sostanziale debolezza ideologica e morale del Meli (piú ancora che la precisa situazione di un suo riformismo moderato e pauroso di ogni soluzione eversiva) si rivela chiaramente e si traduce nella incapacità di sorreggere una costruzione davvero organica ed unitaria. La stessa possibile dialettica fra i «deliri» di Don Chisciotte e la spicciola saggezza di Sancio Panza si complica e si smussa nella confusa prospettiva della satira di Don Chisciotte, portavoce delle personali velleità umanitarie e sociali del poeta e insieme personificazione degli errori di riformatori incapaci e incompetenti, piú mossi dall’ambizione e dalla moda che da autentica chiarezza ed esigenza intellettuale e morale. Scene descrittive felici, episodi umoristico-fantastici non mancano, ma non si organizzano in una vera funzione poematica.

Si può cosí capire come nell’ultimo periodo della sua attività poetica il Meli abbia rinunciato ad ogni velleità costruttiva di vasto respiro e si sia applicato o a componimenti occasionali o alla stesura di quelle Favuli murali che piú direttamente vennero ad esprimere il senso piú vero e personale della sua privata saggezza e della sua esperienza della vita e degli uomini. Certo in alcuni componimenti occasionali (importanti a documentare la sua crescente avversione per gli sfoci rivoluzionari dell’illuminismo, la sua piccola polemica moralistica con l’ordine legittimistico, criticato, dall’interno, per la presenza in esso di errori nella scelta di collaboratori, ma sostanzialmente appoggiato nella prospettiva della lotta antirivoluzionaria e antinapoleonica) affiorano alcune interrogazioni dolenti e pessimistiche sulla natura dell’uomo, sulla effettiva realtà del piacere, sulla reale bontà e benevolenza della natura e dei poteri superiori che presiedono all’ordine del mondo, le quali tutte sembrano – pur in contesti poeticamente assai aridi – scoprire un fondo piú doloroso ed inquieto nello scetticismo edonistico del Meli, riprendendo gli elementi pessimistici già accertabili nel Polemuni e piú fortemente nei tre componimenti sul Chiantu d’Eraclitu o nella piú tarda Consolazioni di li giusti (Dialogu tra l’Esperienza e la Religioni), o nella Littira a Paolo Nascè.

Ma proprio il finale di quest’ultimo tardo componimento che punta sulla definizione della sorte dell’uomo, inutilmente alla ricerca di una felicità che sempre gli sfugge, come una «trizziata eterna» (un’eterna minchionatura), ci riporta al tono piú vero di questo pessimismo meliano che sarebbe errato avvicinare, come pur a volte si è fatto, al pessimismo dei grandi poeti dell’epoca preromantica e romantica – da Alfieri a Leopardi, a Belli –, dato che esso realmente conduce non ad una protesta morale e metafisica, ma ad una troppo facilmente delusa e troppo compiaciuta saggezza privata ed epicurea, versione senile e piú stanca di quell’edonismo vitale che aveva potuto rafforzarsi con entusiastici incentivi del rousseauismo e dei motivi della sanità e letizia naturale, affiatarsi con la fervida e varia vita del paesaggio e dei personaggi naturali, e svilupparsi in poesia – entro la stagione felice della Buccolica e delle canzonette –, ma che sostanzialmente anche allora costituiva la base personale piú consistente ed autentica della prospettiva del Meli.

Su quella base, appunto nella sua versione di saggezza privata e solidamente mediocre, si muovono le Favuli murali, che assicurano un’ultima maturazione «media» delle qualità stilistiche del Meli nella direzione di una costante tenuta di tono e di ritmo, di uno sguardo limpido e di una limpida voce, e spiccano nell’abbondante favolismo di secondo Settecento per la maggiore vitalità del rapporto scena-moralità, per la vivacità di un bestiario tanto piú ricco ed estroso (vasto scavo nella realtà degli animali e nel loro rapporto allegorico con atteggiamenti e storture dell’animo umano), per la forza ariosa di certi racconti[93] e la coerenza di misura nel passaggio fra raccorciati emblemi e svolgimenti narrativi complessi. Ma non possono in alcun modo considerarsi all’altezza della Buccolica e della poesia idillico-realistica della stagione centrale, su cui deve puntare la piú giusta e storica valutazione della poesia del Meli.

5. Il teatro nel secondo Settecento e l’opera di Carlo Gozzi

La vita teatrale, già cosí ricca e importante nella letteratura dell’epoca arcadica, prosegue, durante il secondo Settecento, fra discussioni critiche programmatiche[94], ambizioni di gara con il teatro straniero, soprattutto francese, volontà di nuove riforme teatrali corrispondenti a persistenti scontentezze circa le realizzazioni concrete, riflettendo nel proprio svolgimento le nuove istanze di costume e di idee dell’epoca illuministica e dei suoi sviluppi verso il preromanticismo e il neoclassicismo.

Il vasto panorama dell’attività teatrale dell’epoca trova due momenti di alta realizzazione poetico-teatrale nell’opera comica del Goldoni e in quella tragica dell’Alfieri, che studieremo nei capitoli dedicati ai due grandi scrittori, meglio chiarendo allora le vere possibilità poetiche di una tensione teatrale che in quelle due maggiori personalità si accorda con la forza autentica di una concreta ispirazione poetica e commuta cosí istanze, programmi, condizioni culturali e storiche in vera poesia e in vero ritmo teatrale.

Senza quelle due grandi personalità (la prima piú collegata alle condizioni medie dell’epoca illuministica, la seconda al culmine dello sviluppo da illuminismo a preromanticismo) quel panorama apparirebbe sí interessante a documentare una tensione alla espressione teatrale di momenti della storia del costume letterario e culturale del secondo Settecento, ma risulterebbe artisticamente ben poco incisivo e rilevante, pur con la maggiore forza estrosa e risentita di Carlo Gozzi e con la efficacia notevole del melodramma giocoso, specie negli esiti piú compatti del Casti.

Nel campo della tragedia, che rimane pur sempre, nella scala settecentesca dei «generi» teatrali, il campo considerato piú illustre e difficile, tanto piú risultano il carattere velleitario e la intrinseca debolezza della aspirazione al «genere perfettissimo»: sia che gli scrittori puntassero (come vedemmo già per il Conti – il piú notevole scrittore di tragedie nel passaggio verso la metà del secolo – e come potrebbe vedersi nel caso del graviniano e contiano Giuseppe Gorini Conio) sulla forza degli argomenti storici e della unione di filosofia e poesia, sia che tentassero l’accordo di una piú «moderna» semplicità e verisimiglianza con una piú forte intenzione pedagogica stimolatrice di alte «virtú» spinte fino al paradosso, e in realtà assai discordanti dal clima medio di saggezza e prudenza illuminata e razionalistica, come fecero soprattutto i vari scrittori del teatro gesuitico. Questi scrittori, mirando anzitutto alla educazione dei giovani dei loro collegi, finirono spesso per restringere la tematica tragica escludendo motivi amorosi e personaggi femminili e cosí tanto piú esasperando i contrasti e le accentuazioni paradossali delle virtú eroiche, morali, religiose o degli opposti vizi. Come quasi sempre fece il gesuita genovese Giovanni Granelli (1703-1770), che il Bettinelli ardí proclamare «Sofocle redivivo», capace di unire in sé «correggendole» le qualità di Corneille e di Racine, mentre in realtà egli non supera nelle sue tragedie – esaltanti o un eroico amor filiale (il Sedecia) o un supremo sentimento religioso (il Manasse) o viceversa caratterizzanti la scelleratezza di «politici» ambiziosi e intriganti (il Dione)un livello di abilità costruttiva, di correttezza declamatoria, di acutezza psicologica: qualità appoggiate anche alle risorse del suo professionale esercizio di predicatore e confessore. Cosí anche lo stesso Bettinelli, assai acuto e vivo nella discussione critica e programmatica dei problemi teatrali da lui ripresi soprattutto a contatto con la nuova tragedia illuministico-classicistica del Voltaire[95], rivela nelle sue tre tragedie (il piú giovanile e scadente Gionata, il Demetrio Poliorcete ossia la virtú ateniese, del ’54, il Serse del 1756) i forti limiti delle remore e dell’indirizzo moraleggiante e pedagogico del teatro gesuitico e della sua scarsa vocazione tragica anche nella terza e migliore tragedia che riprende, con maggior efficacia, elementi del Manasse e del Dione granelliani combinandoli con riprese della Semiramide di Voltaire, e presenta con maggiore lucidità una figura di tiranno maniaco che poté forse suggerire qualche spunto al Saul alfieriano, come poté fare anche quel Giovanni da Giscala con cui un altro tragediografo di metà secolo, il Varano (già da noi ricordato nel paragrafo sulla lirica) si impegnò – con minore abilità e scaltrezza tecnica, ma con piú interno se pur confuso fervore drammatico – nella rappresentazione di un tiranno empio e pervicace, condotto a rovina dalla stessa sua forza intollerante e dalla sua irreligiosa superbia, significativa nella direzione di un teatro variamente legato ad istanze moralistiche e religiose.

Si deve comunque ricordare il fatto che, quando l’Alfieri pensò ad una prova di forza con il precedente teatro tragico italiano, non si rivolse ai vari prodotti della seconda metà del secolo, ma all’arcadica Merope del Maffei, in qualche modo ribadendo un giudizio di scontentezza sui successivi tentativi di rinnovamento del teatro tragico che si infittiscono col progredire del secolo, magari anche con sollecitazioni di premi e concorsi, come quello bandito nel 1770 da Ferdinando di Borbone duca di Parma, che dové ridursi a premiare alcune tragedie insignificanti e, in realtà, assai piú intonate alle forme melodrammatiche metastasiane che non ai proposti nuovi caratteri di altezza e profondità tragica.

Di fatto, anche nel secondo Settecento, l’attrazione dei toni melodrammatici permane al fondo della piú naturale disposizione sentimentale degli stessi scrittori tragici (magari associandosi – come vedemmo già nel caso del Savioli – a componenti del gusto rococò) e molto spesso la stessa paradossale tensione «virtuosa», fra volontà edificante e pedagogica religiosa o illuministica, può riconoscersi assai vicina alla tematica e ai toni dei melodrammi eroico-altruistici del Metastasio.

Né, infine, molto può ricavarsi (senza qui parlare delle tragedie del Monti, trattate nel prossimo volume di questa opera) dalle stesse tragedie di contemporanei dell’Alfieri se non in sede di mutamenti del gusto: il caso dell’Arminio di Ippolito Pindemonte con la sua colorazione preromantica o il caso delle tragedie del fratello del Pindemonte, Giovanni (1751-1812), piú intonate al gusto neoclassico, in forme grandiosamente scenografiche (fin dai Baccanali del 1788) e insieme insaporite da elementi shakespeariani e da varianti – fra colorito storico e movimento romanzesco – della sua prevalente tendenza spettacolare.

Del resto, anche nell’ambito del melodramma, la cui produzione continua instancabile in rapporto alle esigenze delle opere musicali, scadendo piú spesso in vera e propria librettistica frettolosa e sciatta, sarà facile osservare come in genere aridi e poeticamente poveri risultino i melodrammi «seri» anche quando, in polemica col modello metastasiano (oggetto allora di numerose critiche ma anche di forti elogi[96]) accusato di scarsità di sentimento tragico, di incoerenza di molti dei suoi personaggi, di troppa abbondanza di elementi meravigliosi e fiabeschi[97], Ranieri de’ Calzabigi (Livorno 1714-Napoli 1795) promosse una riforma del melodramma (non solo come testo letterario, ma come intera e organica opera teatral-musicale) tesa a rompere la gara di primato fra poesia e musica, a ridurre i personaggi e a concentrare la vicenda suggerendo al musicista una sobrietà intensa del suo discorso musicale espressivo, ad usare nel libretto un linguaggio semplice e chiaro.

Ché se la riforma del Calzabigi dette notevole appoggio alla nuova musica operistica del Gluck, non si può dire che i suoi libretti melodrammatici «seri», scritti in gran parte appunto per Gluck (da Orfeo ed Euridice, del ’62, ad Alceste, del ’66, o a Paride ed Elena del ’69), rappresentino davvero risultati di alto e nuovo livello poetico e superino una certa gracile gentilezza e una capacità di concentrazione della vicenda che finisce però per ridursi eccessivamente ad una linea chiara, ma schematica, o l’interesse di una maggior apertura a temi nuovi del costume sentimentale e della letteratura di tipo preromantico (come nella Comala che trasferiva in melodramma un canto dell’Ossian).

In realtà lo stesso Calzabigi[98] – i cui limiti anche di intuizione critica veramente nuova si rivelano nella stessa notevole lettera all’Alfieri sulle sue tragedie – appare piú libero e vivace nel melodramma comico L’Opera seria, che, riprendendo la satira e parodia dell’assurdo mondo teatrale[99] in tutte le sue componenti – già esercitate con tanto maggior estro dal Gigli nella Dirindina, dal Metastasio nell’Impresario delle Canarie, dal Goldoni nell’Impresario delle Smirne, nonché dal Marcello in alcuni motivi del Teatro alla moda –, le riportava al nuovo livello di difficoltà, di ignoranza, di disorganicità di collaborazione di attori, poeti, musicisti quali tornavano a ripresentarsi nel secondo Settecento.

E sia che si pensi al piú elegante librettismo di Lorenzo Da Ponte (di cui parleremo poi nel paragrafo sui memorialisti) soprattutto per Mozart (Nozze di Figaro, Don Giovanni, Cosí fan tutte, felici nel rapporto fra toni patetici e prevalenti toni comici) o ai melodrammi giocosi del Goldoni o del già ricordato Casti, si costaterà che i migliori risultati del melodramma di secondo Settecento vanno identificati nell’ambito dei toni giocosi e satirici. E questi trovavano diretta espressione nei libretti per l’opera «buffa» napoletana, caratterizzata da una piú decisa impronta popolare, dialettale e realistica che, già viva nel primo Settecento (con librettisti e autori comici come Niccolò Corvo, Francescantonio Tullio, Gennaro Antonio Federico, Pietro Trinchera[100]), ebbe poi piú forte ripresa nella seconda metà del secolo con le opere di Francesco Cerlone e di quel Giambattista Lorenzi (nato a Napoli nel 1719 e morto nel 1807) il quale, oltre ad una propria produzione di numerosi libretti, collaborò con Ferdinando Galiani alla costruzione di quel notevolissimo Socrate immaginario che, con forte, anche se a volte troppo insistita comicità, metteva in ridicolo la mania grecheggiante[101] e filosofica del tempo nella figura di Tammaro, ignorantissimo e ingenuo buonuomo, che si crede Socrate redivivo e compie azioni insensate alla luce della sua bizzarra e spropositata pretesa (in cui coinvolge personaggi umili e popolari[102], con effetti assai vivi nello scontro di lingua e dialetto, di ignoranza e buffa imitazione di un linguaggio filosofico e classico), finché vien guarito e rinsavito chiudendo nel ristabilito dominio del buon senso le sue pazze e caleidoscopiche avventure.

Particolarmente notevoli (a parte quelli del Goldoni) risultano, come dicevo, i melodrammi giocosi del Casti che, sia nella direzione della satira e parodia del costume teatrale del tempo (Prima la musica e poi le parole), sia, e meglio, in quella piú generale di personaggi, vicende, aspetti della vita contemporanea anche quando l’argomento è attinto da altri tempi (dal Re Teodoro in Venezia al Re Teodoro in Corsica, ai Dormienti e alla Grotta di Trofonio, al Catilina, al Cublai, gran Kan dei Tartari, al Bertoldo e all’Orlando Furioso[103]), raccolgono i vivi umori polemici e satirici dell’autore trasferendoli in una rappresentazione melodrammatica misurata ed organica che si avvale di un forte estro inventivo, di un sapiente uso satirico-parodistico del linguaggio melodrammatico «serio», di una fusione compiuta e sicura della satira di ambiente e di una satira di motivi letterari in una dimensione singolare e fertile che, nella sua sfaccettata unità, può agevolmente assimilare elementi eroicomici derivati dal teatro italo-spagnolo già, tanto prima, utilizzati dal Gigli.

Nel campo stesso della commedia occorre pur dire che in generale, accanto al grande teatro comico del Goldoni, non si possono operare recuperi di veri valori artistici e di autentica originalità e che – a parte il caso singolare delle Fiabe drammatiche di Carlo Gozzi – il panorama vasto degli scrittori comici di secondo Settecento non supera l’interesse di documentazione – a livelli vari di efficienza tecnica sempre assai modesta – di movimenti delle mode e del gusto, della circolazione e diffusione di idee e ideali medi dell’epoca illuministica nella loro varia e spesso ambigua tensione verso i suoi svolgimenti di sensibilità fra piú vaga «sensiblerie» e piú accentuati ma piuttosto generici movimenti sentimentali e preromantici. Certo la vasta attività e produzione comica accompagna – meglio di quanto possa dirsi per la tragedia – lo svolgimento dei gusti ed interessi degli scrittori e del pubblico di secondo Settecento, il diffondersi, come dicevo, di una mentalità critica, ma scarsamente aggressiva e corrosiva, nei confronti o di costumi arretrati o di mode e infatuazioni esterofile e frivole in nome di un piú generale buon senso, di una ragionevolezza e magari di una piú schietta naturalezza che risente di valori medi della civiltà illuministica o di parziali reazioni a questi, quando essi appaiono troppo estremistici e rigidamente sistematici, assecondandone piuttosto il gusto dell’avventura romanzesca ed esotica, il piacere della sensibilità larmoyante e virtuosa.

Ma, ripeto, la resa artistica è mediocre e assai deboli sono lo scatto e il ritmo comico, l’autentica vocazione teatrale, piú recuperabile in realtà in certo teatro comico pregoldoniano dell’epoca arcadico-razionalistica.

Debole e sciatta risulta cosí l’opera teatrale dell’avversario del Goldoni[104], Pietro Chiari (Brescia 1711-1785), ex-gesuita e spregiudicato banditore delle idee alla moda in una prospettiva non tanto di personale e sicura partecipazione ai nuovi motivi dell’ideologia illuministica e rousseauiana, quanto di corsa al successo e alla popolarità.

Prospettiva di mestierante attento a cogliere ogni nuovo motivo capace di porlo all’avanguardia del gusto e, piú, della nuova tematica, che il Chiari infaticabilmente perseguí in una abbondantissima attività di romanziere, di divulgatore di nuove idee in farraginosi dialoghi e saggi (come quello in dodici volumetti i Trattenimenti dello spirito umano sopra le cose del mondo passate, presenti e possibili ad avvenire) e soprattutto di scrittore teatrale pronto a inserirsi avventurosamente in ogni forma di esperimenti nuovi e di manipolazione e rafforzamento di argomenti tratti dal teatro o dalla narrativa francese e inglese. Come egli fece nella lotta con il Goldoni, proponendo, ad un pubblico irrequieto e avido di novità, ora una frettolosa riduzione di un romanzo del Marivaux nella sua commedia Marianna o sia l’orfana, ora un rifacimento del Tom Jones del Fielding nell’Orfano, perseguitato, ramingo, riconosciuto, ora gareggiando con il Goldoni in martelliani su soggetti esotici (La sposa persiana e Le sorelle cinesi), ora tentando la forma di tragicommedie macchinose e piene di effetti vistosi e spettacolari (La vendetta amorosa e L’inganno amoroso) o quella di una «tragedia popolare», la Madre tradita, sulla via della nuova commedia lacrimosa, insaporita di spunti sociali. Con ciò il Chiari pur contribuiva alla circolazione di idee e temi nuovi in un pubblico vasto e di varia estrazione sociale, ma nella maniera effimera di una prosaica e piatta presentazione di temi del tempo senza forza artistica e senza sicura presenza e partecipazione personale.

Né del resto anche chi, come il poligrafo romagnolo Appiano Buonafede (1716-1793), intese, con maggiore impegno personale, animare e «riformare» il teatro comico immettendovi una discussione culturale e ideologica (ciò che il Buonafede tentò nelle sue Commedie filosofiche[105]), riuscí a realizzare le sue intenzioni in una coerente espressione comico-teatrale.

Ma anche su di una via piú vicina all’esempio goldoniano, fra gusto realistico e recupero comico-satirico di situazioni e condizioni della società contemporanea, la stessa vicinanza del grande modello mostra subito la sostanziale mediocrità di commedie non prive di qualità di mestiere e di interesse documentario, ma cosí smorte ed esangui che la loro stessa documentarietà storica ne risulta assai ridotta e non molto stimolante anche in una semplice storia del costume e della cultura.

Sarà il caso del bolognese Francesco Albergati Capacelli (1728-1804), nobile e agiato aristocratico, ma (almeno fino alla rivoluzione francese che fece di lui un deciso antirivoluzionario e «misogallo») aperto alle idee filantropiche e riformatrici con cui egli intendeva – con volontà di maggior «coraggio» rispetto a quello del suo amico Goldoni – trarre comicità e possibilità di intervento riformatore in una piú coerente ridicolizzazione della boria e del falso onore nobiliare, appoggiandola ad una indubbia passione ed esperienza teatrale, che spicca come suo interesse predominante[106] sia nella sua fitta corrispondenza con illuministi e scrittori italiani e francesi (fra questi il Voltaire e la Caminer Turra, attivissima nella diffusione in Italia della commedia lacrimosa), sia nell’appoggio dato al Goldoni (e poi allo stesso Alfieri), sia nella traduzione di opere teatrali straniere, sia nella notevole attività del suo teatro privato nella villa di Zola. Ma alla sua passione e alla sua esperienza teatrale non corrisposero risultati comici apprezzabili né sulla direzione centrale della sua satira della classe nobiliare (in cui si può puntare, per maggiore abilità di intreccio, sul Pregiudizio del falso onore), né su quella di una satira delle mode e infatuazioni esterofile, proprie di una società oziosa e vuota, che vorrebbe animare comicamente (ma in realtà con una facile, allentata e dispersiva piacevolezza) l’atto unico Le convulsioni, satira delle nuove letture di libri stranieri malinconici o materialistici (dallo Young all’Holbach) come causa delle convulsioni isteriche di una dama alla moda.

Temi che si ritrovano – risorsa assai modesta e monotona di tanto teatro del tempo, anche se non priva di interesse nell’accertamento della diffusione di nuovi gusti e mode – al centro dell’altro epigono goldoniano, il romano Gian Gherardo De Rossi, già da noi altrove ricordato, e autore appunto di piccole commedie soprattutto imperniate sui fanatismi delle mode, còlti, non senza qualche maggior sapore ambientale, nella Roma di ultimo Settecento: il fanatismo per l’antiquaria nel Calzolaio inglese in Roma, quello per il teatro musicale, nella Prima sera dell’opera, quello – nelle Sorelle rivali – per il wertherismo e il sentimentalismo di quella commedia «lacrimosa», che egli criticava anche nei suoi trattati teatrali[107], ma a cui pur concesse – con certa contraddittorietà che è un po’ di tutta questa minore zona teatrale tardo-settecentesca – un suo contributo diretto con qualche sua altra commedia (come Il podestà di Bisenzio e Il soverchiatore), mentre, piú direttamente in accordo con moderati motivi di saggezza e riforma morale di origine illuministica e goldoniana, si impostano commedie gracili, ma garbate, come La commedia in villeggiatura o Il cortigiano onesto.

E cosí, fra accettazione della riforma e di modi e temi del Goldoni, tentativi di maggior novità fra esaltazione di motivi illuministici, apertura alla commedia «lacrimosa» e borghese, gusto di satira letteraria e teatrale, si muovono – sempre ad un livello di mediocrità e di varia abilità di mestiere – un po’ tutti gli altri piú individuabili rappresentanti del teatro comico di secondo Settecento: come lo sciatto e improvvisatorio Francesco Antonio Avelloni (Venezia 1756-1837), autore di ben seicento opere, come il veronese Andrea Willi (1733-1793) soprattutto autore di drammi sentimentali, come il piemontese Camillo Federici (pseudonimo di G.B. Viassolo 1749-1802) nelle cui commedie, impastate di goldonismo e di elementi sentimentali-borghesi, prevale piú chiaramente l’esaltazione del principe assolutista-illuminato (specie nella facile, ingenua, ma pur leggibile commedia I pregiudizi dei paesi piccoli, in cui l’imperatore d’Austria, giunto in incognito in una piccola città tedesca, confonde la boria nobiliare e la ammaestra nei suoi veri doveri e nella sua vera dignità[108]). O come – in una piú decisa simpatia per la commedia lacrimosa – il livornese Giovanni De Gamerra (1743-1803) che cercò programmaticamente un rinnovamento del teatro italiano attraverso una fusione dei caratteri del teatro shakespeariano e di quello spagnolo, risentendo della teorizzazione diderottiana del dramma borghese e svolgendola – senza sostegno di adeguati contenuti ideologici – nella direzione di commedie e drammi a grosso effetto spettacolare e sentimentale, portando al massimo, e in forme esteriori e paradossalmente «orrorose» e truculenti, la tensione emotiva della commedia lacrimosa che veniva sempre piú predominando nei gusti del pubblico di fine secolo. Sicché anche un deciso avversario di quella, Alessandro Pepoli veneziano (1757-1796) – che fu insieme velleitario rivale della tragedia alfieriana – dové fare i conti con il gusto del pubblico e tentare di «migliorare» e moderare il teatro lacrimoso scendendo comunque sul suo terreno. E il padovano Simeone Antonio Sogràfi (1759-1818), piú congeniale autore di «farse» e di fortunate commedie festose e di chiara ascendenza goldoniana (come la piú notevole Olivo e Pasquale, con tanti richiami evidenti al Burbero benefico e alle figure di nobili spiantati e ridicoli sul tipo del marchese di Forlipopoli della Locandiera, o come – nell’insistita linea della satira del mondo teatrale – Le convenienze teatrali), finí pure – nella sua disponibilità e nei suoi «doveri» di poeta di teatro al servizio di compagnie drammatiche e quindi portato ad assecondare i gusti del pubblico – per scrivere un raffazzonamento, molto lacrimoso e sentimentale, del Werther goethiano, mentre concedeva ad altri elementi del gusto e delle aspirazioni di fine Settecento l’offerta di drammi storici e spettacolari (come la Lucrezia degli Obizzi e la Caduta di Gerusalemme) o drammi sociali-rivoluzionari come Il matrimonio democratico, ossia il flagello de’ feudatarii (1797) che, malgrado il suo interesse nella programmazione di un teatro educativo alle nuove idealità democratiche del periodo giacobino italiano, non ne rappresenta certo una realizzazione teatrale ed artistica incisiva e concreta.

Sicché, tutto sommato, di fronte a tante intenzioni e interessi documentari del gusto e delle idee nel teatro di secondo Settecento, possiamo riconoscere una personalità risentita e originale e una indubbia vocazione teatrale – pur ad un livello tanto inferiore rispetto alla personalità e alla forza teatrale di un Goldoni – solo in Carlo Gozzi, fratello minore di Gasparo, nato nel 1720 a Venezia e in quella città – a parte un periodo passato da militare in Dalmazia, fra il 1741 e il 1744 – vissuto fino alla morte nel 1806. La sua vita fu tutta legata alle sue familiari e pubbliche polemiche in cui il suo carattere forte, aspro e intollerante, aristocraticamente sdegnoso e disposto soprattutto al rilievo duro e satirico (ma con vive possibilità di maggior estro umoristico e bizzarro) dei difetti degli altri, si impegnò sino all’ultimo con caparbia pertinacia e orgogliosa sicurezza delle proprie ragioni e convinzioni.

Tali polemiche – che trovarono occasioni particolari a vario livello di importanza, ma che certo ebbero anche un centro unitario nella natura reattiva e risentita dell’uomo e nella sua concezione aristocratica e reazionaria – sono alla base della sua lunga attività di scrittore che, se non fu puro e semplice dilettante (come egli si qualificò con sprezzante falsa modestia), portò però nella sua stessa opera una certa impazienza e un impegno piú combattivo e polemico che non una profonda serietà e disciplina letteraria, anche se egli combatté la sciatteria e l’impurità linguistica del suo tempo «imbastardito» e proclamò la sua fede nei classici e in quel culto dei «buoni scrittori» della tradizione italiana che lo fece partecipare all’attività puristica e tradizionalistica della Accademia dei Granelleschi.

Eppure in quella foga polemica – a volte persino sproporzionata ai suoi oggetti – consiste la molla di una vena scrittoria singolare e spesso trascinante e suggestiva, acremente personale e capace – sulla base del risentimento – di movimenti estrosi e freschi, e persino, a volte, di abbandoni piú gentili ed umani.

Gli obbiettivi polemici del Gozzi sono vari e a vario livello d’importanza. Sul piano piú direttamente biografico-personale primo obbiettivo polemico fu la sua stessa famiglia economicamente dissestata, alla cui decadenza finanziaria e sociale egli non si rassegnava, cercando faticosamente di risollevarne le fortune con liti giudiziarie e con imprese di carattere commerciale e viceversa rifiutando quell’attività di scrittore «mercenario» e «prezzolato» – per librai e teatri – che riteneva uno degli aspetti piú esecrandi di un tempo che cosí avviliva la poesia e che avrebbe, a suo avviso, degradato a «maldicenze vendute» i suoi scritti «sempre liberi, sempre franchi, sempre pungenti, sempre satirici sul costume universale»[109].

Ed ecco che la stessa polemica con la famiglia (o poi quella con il Gratarol che motiva l’impegno delle Memorie inutili) si profila entro una piú generale polemica contro il suo tempo decaduto e immorale, contro gli scrittori «prezzolati» e interessati, in una correlazione che associa gli altri due piú importanti obbiettivi polemici del Gozzi: i commediografi Goldoni e Chiari (che si contendevano il favore del pubblico veneziano con le loro opere di «mestieranti» variamente opposte agli ideali morali e letterari del Gozzi, «granellesco» e conservatore, sia per la loro sciatteria stilistica, la loro noncuranza della buona tradizione, sia per i loro contenuti immorali, plebei, intonati alla filosofia libertina ed empia) e insieme proprio la stessa filosofia e mentalità illuministica che il Gozzi considerava causa prima della decadenza moderna, della rovina della struttura rigidamente gerarchica della repubblica aristocratica veneziana.

Da questa sua volontà di lotta e di satira sul piano letterario e ideologico traggono origine le sue celebri Fiabe che – precedute da alcuni feroci attacchi al Goldoni e al Chiari (il lunario burchiellesco La tartana degli influssi per l’anno bisestile 1756, La scrittura contestativa al taglio della «Tartana», l’inedito Il teatro comico all’Osteria del Pellegrino tra le mani degli Accademici Granelleschi)volevano anzitutto dimostrare concretamente come fosse possibile conquistare il favore del pubblico con opere teatrali costruite con i vecchi procedimenti della commedia dell’arte, basate su argomenti fiabeschi e «meravigliosi», e insieme mescolavano a tali temi e toni la satira anche diretta delle commedie lacrimose e romanzesche del Chiari e delle commedie realistiche del Goldoni, e quella delle mode e idee illuministiche corruttrici e false, empie e mendaci.

Accordatosi con il capocomico Antonio Sacchi, il Gozzi approntò e fece rappresentare a Venezia, con grande successo, fra il ’61 e il ’65, dieci fiabe: L’amore delle tre melarance, Il corvo, Il re cervo, la Turandot, La donna serpente, la Zobeide, I pitocchi fortunati, Il mostro turchino, L’Augellino belverde, Zeim re de’ Geni.

In queste opere, con varia intensità, si esprime la forza satirico-comica del Gozzi nel confronto dei suoi obbiettivi polemici – che in campo letterario si estesero, dopo la lotta con il Chiari e con il Goldoni, al dramma lacrimoso francese – e insieme ad essa si esprime il suo estro bizzarro e fantasioso, compiaciuto degli effetti disordinati ed efficaci tratti dalla tecnica lazzesca e improvvisa[110] e dall’uso delle maschere della commedia dell’arte, dalla materia fiabesca ricavata dalle Mille e una notte, dal Pentamerone del Basile, dalla Posilecheata del Sarnelli, e mescolata con gli altri elementi satirici, comici, lazzeschi, in un caleidoscopico magma di avventure, casi, impostazioni di personaggi a vario livello di mentalità e di linguaggio, di battute feroci o apertamente comiche, entro una singolare disposizione al giuoco scenico e mimico di uno spettacolo mosso e trascinante.

Chiari sono ormai i limiti – di fronte agli entusiasmi piuttosto pretestuosi dei romantici e magari, piú tardi, di registi e critici del «teatro puro» – della vera natura e consistenza poetica delle Fiabe, che offrono piuttosto un meraviglioso e un fiabesco meccanico e spesso assai cerebrale che non un vero e coerente impeto di libera e creativa fantasia e di fiabesco ingenuo e «popolare». Ché, oltre tutto, il conte Gozzi sentiva il «popolare» e l’«ingenuo» con il complicato compiacimento di un letterato frettoloso, ma tutt’altro che incolto, e di un conservatore rigido che amava l’ignoranza, la sanità, le virtú di obbedienza e fedeltà delle classi popolari come salvaguardia dell’ordine aristocratico e autoritario. Mentre il «meraviglioso» era piú frutto di una forte abilità immaginosa e compositiva che non di un sicuro slancio irrazionale e surreale.

Considerazioni che devono certo smorzare le ipervalutazioni delle Fiabe del Gozzi (e si giunse ancora in pieno Novecento a contrapporre la sua libera fantasia al mediocre buon senso del piccolo-borghese Goldoni![111]) e ricondurre ad un giudizio piú misurato e storico che tenga piú conto delle ragioni polemico-ideologiche che sottendono la costruzione delle Fiabe e che tanto chiaramente emergono in quell’Augellino belverde, che può essere considerato la fiaba migliore e piú indicativa dell’arte teatrale del Gozzi: la quale, come dicevo, non può essere certo portata al livello della vera e grande poesia, né assunta ad esponente di una sicura premessa del gusto romantico, ma che, d’altra parte, non può essere nemmeno drasticamente ridotta a puro e semplice, ozioso divertimento e prodotto di pura scommessa intellettualistica e a presa in giro di un pubblico sedotto e seducibile con le piú sciocche formule di divertimento.

Cosí le Fiabe rimangono pur sempre opere interessanti e vive, e – soprattutto nel piú composto e sicuro Augellino belverde – un incontro di estro comico, di ironia e satira, limitata ma sicura, di ambiguo, ma stimolante compiacimento per un mondo di affetti popolari e schietti[112], si configura in un ritmo dinamico di azione teatrale cui non può richiedersi un’armonia costruttiva e una perfezione formale, anche perché il Gozzi tendeva piú istintivamente ad un forte effetto di efficacia impressiva, ad un giuoco di azioni e battute, cui serve anche la mescolanza di linguaggi (dialetto, italiano normale, lingua poetica piú aulica), di prosa e di poesia (con endecasillabi sciolti, martelliani, versetti di arietta melodrammatica) in cui contemporaneamente il Gozzi svolge la sua azione e satireggia forme e modi della letteratura che egli combatte.

Vista nella sua composita prospettiva di battaglia ideologica e letteraria e di estrosa vivacità teatrale, la «fiaba filosofica» dell’Augellino belverde ben dimostra il piano piú vero della ricerca del Gozzi e le possibilità della sua resa limitata, ma efficace e stimolante, avvivata proprio dall’urto con la sua epoca «illuminata», anche se incapace di proporre un punto di vista davvero nuovo e superiore.

Molto meno interessanti delle Fiabe vanno invece considerati i numerosi lavori teatrali (tragicommedie, commedie romanzesche di «cappa e spada» tratte dal teatro spagnolo[113]) con cui il Gozzi volle alimentare il repertorio della compagnia comica del Sacchi (scioltasi solo nel 1783), continuando la sua impresa polemica contro il dramma borghese e «lacrimoso» e sfogando insieme la sua verve di scrittore infaticabile e appassionato per la vita teatrale. E se anche in questa farraginosa, frettolosa e assai artigianale attività non mancano spunti di interesse per atteggiamenti di satira antiilluministica e spunti di vivace bravura estrosa, nel suo insieme essa non costituisce un vero sviluppo motivato e coerente dell’arte del Gozzi teatrale al di là delle Fiabe.

La polemica con il suo tempo corrotto, degradato, volgare, antieroico ed antiaristocratico, incapace di virtú e di dignità malgrado le sue pretese di «illuminata» superiorità, trova però – al di là delle Fiabe – un altro sfocio interessante nel poema eroicomico, o – come lo intitolò l’autore – «faceto», la Marfisa bizzarra (composta fra il ’61 e il ’68), che – sulla via del Ricciardetto del Forteguerri, ma con tanto maggior vigore e a nuovo livello di scontro con il proprio diverso tempo – si serviva della grottesca degradazione del mondo epico-cavalleresco per satireggiare aspramente il secolo illuminato e filosofico, il suo costume immorale, come l’autore precisava nell’avvertenza ai lettori:

La Marfisa bizzarra, poema di aspetto scherzevole, non è che un quadro storico del costume corrotto, di ritratti naturali, di caratteri veramente de’ nostri giorni, della mia patria infelice e un’allegorica predizione del di lei finale destino.[114]

E se ci manca la precisa «chiave» del poema, in rapporto al ritratto di personaggi veneziani trasposto in tutti i personaggi dell’opera[115], poco ciò importa di fronte al fatto che i personaggi e le vicende traducono in forma satirico-caricaturale aspetti e caratteri della società di secondo Settecento cosí come essa appariva all’occhio deformante e intransigente del moralista reazionario, che solo nella sua intenzione piú sfocata poteva pretendere (come egli disse nella prefazione del poema) di concordare – a parte lo stile «familiare» diverso da quello «sublime» del Parini – con le «viste» e i «princípi» del Mattino e del Mezzogiorno. Ché, mentre il Parini fondava sostanzialmente la sua satira sui valori del riformismo illuministico, il Gozzi – come abbiamo già visto – si appoggiava ad una concezione chiaramente conservatrice e tradizionalistico-aristocratica.

Sicché anche nella Marfisa non vivono tanto le virtú positive, qui collegate con una nostalgia acuta e sincera, ma storicamente assurda, di un mondo di valori perduti (fede, eroismo, amicizia, costume sobrio e frugale) e del resto personificate in pochissimi personaggi (Orlando, Angelino di Bellanda, Morgante), quanto la rappresentazione, insistita e risentita, del degradato mondo settecentesco, del suo enciclopedismo frivolo, della sua mania filosofica, della sua esteromania, delle sue mode superficiali, della sua sostanziale immoralità: difetti incarnati nei personaggi dei paladini grotteschi e avviliti nella stravolta loro condizione di personaggi epico-cavallereschi che vivono nell’antieroica mentalità settecentesca ed entro un bizzarro miscuglio di particolari del vecchio mondo cavalleresco e del tempo contemporaneo. Cosí Marfisa non è piú la temeraria guerriera della tradizione, ma una damina sventata e capricciosa, dedita ad avventure scandalose, per poi finire malata di tubercolosi e beghina. Cosí Astolfo diviene un damerino alla moda, Rinaldo un avventuriero cinico e un contrabbandiere ubriacone, Gano un baro, Olivieri un ipocrita. Tutto viene corrotto da simili personaggi e dalle idee libertine ed empie di cui li alimentano i «libriccini» illuministici che essi stessi divulgano sin nell’ambiente naturalmente e tradizionalmente sano dei contadini:

Quell’antica innocenza villereccia,

un tempo celebrata da’ poeti,

non avea piú né seme né corteccia,

il rossor, il pudor si stavan cheti;

perocché certi paladini feccia,

o vogliam dir filosofi discreti,

che villeggiavan l’autunno e la state,

avean le villanelle addottrinate.[116]

A questo vigoroso impianto di satira e di caricatura antiilluministica e anti-contemporanea non corrispondono però una salda struttura concreta di vicenda poetica e un’adeguata, puntuale sicurezza stilistica. Cosí come raramente il contrasto fra vizi presenti e virtú passate e vagheggiate supera il rilievo negativo dei primi e si fonde in toni piú complessi e chiaroscurali, in un incontro di sdegno e di pietà, di ira e di umana positività. Ché nello stesso episodio dell’onesto Morgante ridotto a oggetto di spettacolo da fiera in un gabbione – certo assai vicino a quei possibili risultati piú complessi – prevalgono pur sempre la forza della caricatura deformante e degradante del povero guerriero ridotto «pelle ed ossa», una «mummia», simile alla «figura d’un sudario»[117], e la forza della scena grottesca della folla intorno al baraccone.

Le qualità piú vivaci e fresche dello scrittore, nella narrazione-rievocazione di esperienze e avventure biografiche, delineate con rapida e sorridente-grottesca incisività, e di particolari avvenimenti che toccano il margine del meraviglioso e del bizzarro di casi e contrattempi reali-assurdi, si pronunciano piú fortemente nelle tarde Memorie inutili (pubblicate nel 1797-1798[118]) che già nel titolo denunciano l’elemento di autocomicità risentita ed acre nel suo fondo, ma non priva di aperture al gusto del ricordo e di un piú arioso sorriso, con cui il Gozzi investiva la stessa sua rappresentazione autobiografica.

Anche di quest’opera l’origine era polemica e occasionale: con essa infatti il Gozzi voleva rispondere alla Narrazione apologetica di un nobile veneziano, Antonio Gratarol, suo sfortunato nemico (fu costretto ad esulare da Venezia), che si volle riconoscere sanguinosamente caricaturato in un personaggio delle Droghe d’amore del Gozzi, attribuendo tale forma di pubblica diffamazione al suo rapporto amoroso con l’attrice Ricci, a cui lo stesso Gozzi sarebbe stato legato da una simile passione. Ma mentre la diretta intenzione polemica e difensoria si realizza nelle parti esplicitamente ad essa connesse – certo le piú prolisse e fastidiose del libro –, la vena polemica e comico-grottesca piú generale e congeniale all’animo risentito ed estroso del Gozzi trova pur modo di realizzarsi efficacemente in una larga offerta di rapide e pungenti caricature e definizioni satiriche di persone ed ambienti (il caso del fratello Gasparo sposatosi per una «geniale astrazione poetica», o il caso della «pindarica amministrazione» della cognata Bergalli, o il caso della definizione di un convento di suore come «beata stia di vergini») e di sciogliersi piú ampiamente e narrativamente nella rievocazione di vicende giovanili o nel rilievo dato a contrattempi assurdi e fantastici, con un incontro molto efficace dell’acre segno grottesco e sin autosatirico piú proprio del Gozzi e di un libero abbandono al gusto del ricordo e della narrazione novellistica.

Si aprono cosí pagine e sequenze di pagine molto vive ed incisive, in cui meno si può insistere sul rilievo negativo di forme sciatte e magari di quei barbarismi e neologismi che il Gozzi condannava dall’alto della sua posizione di purista e «granellesco», ma a cui la sua foga polemica e narrativa pur lo portava (malgrado interventi di revisione e di rielaborazione recentemente rilevati nel caso delle Memorie inutili[119]). Ché in quelle pagine lo stesso piú ibrido impasto linguistico di arcaismi e neologismi, di forme dotte e di francesismi, si schiarisce di fatto e perde certo suo piú fastidioso imbarazzo (piú avvertibile nelle parti direttamente apologetiche e difensive) entro una fondamentale ricerca di spregiudicata efficacia. Si pensi almeno al racconto «eroicomico» della temeraria serenata sotto la casa di una fanciulla in una cittadina del Montenegro[120] o si pensi, sulla linea piú bizzarra e fantasiosa di «contrattempi» e di casi impensati e sbalorditivi, alla narrazione del ritorno dell’autore nella sua abitazione che trova fastosamente illuminata e invasa da una folla in festa:

Parmi che non sia indegno d’esser narrato un comico contrattempo che mi sorprese, e voglio narrarlo. Abitava io nella casa paterna posta in calle della Regina, contrada di San Cassiano, ed ero rimasto solo abitatore di una casa assai grande, perocché i miei due fratelli Francesco ed Almorò, ammogliati e accasati nel Friuli, attenti a’ loro interessi in quella provincia, avevano lasciata nel mio partaggio la paterna abitazione. Ne’ tempi delle villeggiature mi portava anch’io nel Friuli, lasciando le chiavi e la custodia del mio albergo ad un mercante di biade mio vicino onestissimo.

Avvenne per caso che un autunno, per uno de’ miei contrattempi fedeli, le pioggie e i torrenti caduti mi trattennero lungo tempo nel Friuli e sino al novembre inoltrato. Quelle nevi alla montagna e que’ venti che ristabiliscono il sereno avevano anche fissato un grandissimo freddo. M’avviai verso Venezia ben impellicciato, e superando pantani, buche profonde e fiumi gonfiati, vi giunsi verso l’un’ora di notte metà vivo e metà morto per la noia, per la stanchezza, per il freddo e per il sonno.

Smontai dalla barca che mi condusse alle poste a San Cassiano, e fatto prendere ad un facchino il mio baule in collo e al mio servo una cappelliera sotto il braccio, indirizzai i passi verso la mia abitazione, ben ravvolto nel pelliccio e tutto brama e necessità d’andarmene a letto ben caldo. Giunto col facchino ed il servo carichi alla calle della Regina, quella via era cosí affollata e calcata di maschere e di gente d’ogni sesso, che il voler fendere la piena per giungere all’uscio mio con le some de’ miei due seguaci era cosa affatto impossibile. «Che diavolo è questa calca?» chiesi ad uno che m’era presso. «Fu oggi creato patriarca di Venezia il patrizio Bragadino, che ha il suo palagio nel fondo di questa calle» rispose quell’uomo. «Si fanno fuochi, feste; si largisce pane, vino e danari al popolo per tre giorni. Queste sono le cause della pressa enorme».

Riflettendo io che l’uscio della mia casa era vicino al ponte per cui si passa al campo di Santa Maria Materdomini, credei, facendo un giro per la calle detta del «ravano» e per la contrada di Sant’Eustacchio, di poter riuscire nel detto campo e passando il ponte di aver libertà di ficcarmi nel mio albergo a dormire. Feci il lungo giro co’ portatori del mio corredo, e giunto nel campo di Santa Maria Materdomini rimasi uno stupido nel vedere spalancate le mie finestre, e la casa mia, tutta fornita di ciocche di cristallo e illuminata da cere, ardere come la casa del Sole.

Dopo esser stato mezzo quarto d’ora con la bocca aperta a mirare tanta maraviglia, mi scossi, e facendo cuore passai il ponte, picchiando forte all’uscio mio. Aperto l’uscio mi si affacciarono due militi urbani, i quali presentandomi due spuntoni al petto gridarono con viso fiero: «Per di qui non si passa.» «Come!» diss’io ancor piú sbalordito e mansuetamente. «Perché non poss’io passare?» «Non signore», risposero que’ terribili, «per quest’uscio non s’entra. Ella vada a porsi in maschera ed entri per quel portone che vede qui a mano dritta, ch’è del palagio Bragadini. Mascherato la lasceranno per di là entrare alle feste». «Ma se fossi il padrone di questa casa, e giunto stanco da un viaggio, agghiacciato e assonnato, non potrei entrare nella mia casa per pormi nel mio letto?» diss’io con tutta la flemma. «Ah, il padrone?» risposero que’ feroci. «Ella si fermi ed avrà qualche risposta». Detto ciò mi chiusero impetuosamente la porta in faccia.

Io guardava come un smemorato il facchino ed il servo, ed il facchino oppresso dalla soma ed il servo guardavano me incantati. S’aprí finalmente di nuovo l’uscio e mi si presentò un mastro di casa tutto trinato d’oro, il quale con molti inchini mi fece l’invito d’entrare. V’entrai, e salendo la scala chiesi a quella riverente persona che fosse l’incantesimo ch’io vedeva nel mio albergo.

«E lei non sa nulla?» rispose quell’uomo. «Il mio padrone patrizio Gasparo Bragadino, prevedendo che il di lui fratello sarebbe eletto patriarca, trovandosi ristretto di fabbricato per fare le consuete feste pubbliche, desiderò di unire con un ponticello di passaggio dalle finestre questa casa alla sua, per aver maggior agio. Tanto fu eseguito con la di lei permissione. Qui si fanno parte delle feste e si getta dalle finestre al popolo pane e danari. Lei non abbia però alcun dubbio che la stanza dov’Ella dorme non sia stata preservata e chiusa con diligenza. Venga meco, venga meco, e vedrà».

Rimasi ancor piú attonito sentendomi dire d’una permissione che nessuno m’aveva chiesta e ch’io non aveva data. Non volli però far parole con un mastro di casa sopra ciò, e giunto nella sala restai abbagliato dalle gran cere che ardevano e stordito da’ servi e dalle maschere che facevano un gran girare e un gran bisbigliare. Il romore che si faceva nella cucina m’attrasse a quella parte, e vidi un grandissimo fuoco a cui bollivano paiuoli, pignatte, tegami, e girava un lungo schidione di polli d’India, di pezzi di vitella e d’altro...[121]

Pagine, come molte altre delle Memorie inutili, davvero indimenticabili e tali da dare al Gozzi un posto assai alto nella memorialistica settecentesca.

6. Gasparo Gozzi

In una posizione tanto piú ricca di sfumature e di riflessi di esperienze diverse entro un prevalente, ma non chiuso interesse di letterato amante della pagina scritta ed elaborata, della civiltà delle lettere come esercizio di raffinamento non solo letterario, ma umano, psicologico e civile, si colloca la figura del fratello maggiore di Carlo Gozzi, Gasparo, che di Carlo condivise, con tanto maggiore coscienza stilistica, le preoccupazioni di difesa della «buona» tradizione linguistica e letteraria (propria dell’Accademia dei Granelleschi che ebbe anche lui fra i suoi soci piú attivi), ma che, molto diversamente da Carlo, non mancò di affiatarsi pure con le istanze civili, con l’attenzione alla vita pratica e morale in progresso, con il desiderio di un allargamento di orizzonti culturali, quali venivano pur appoggiati nelle condizioni medie dell’illuminismo estremamente moderato e cauto della cultura veneziana di secondo Settecento: assai spesso configurate anche nelle forme di un conservatorismo ragionevole e illuminato, pauroso di ogni nuova spinta eccessiva ed astratta, ma pure inclinato ad aprirsi e arricchirsi collaborando ad un avanzamento anzitutto morale, individuale e socievole, cui lo stesso esercizio scrupoloso e consapevole della letteratura doveva contribuire come in un piú sicuro controllo di nuove condizioni culturali e civili inseribili nella tradizione.

Nato a Venezia il 4 dicembre 1713 in una famiglia di piccola nobiltà economicamente dissestata dalla crisi che travagliava in quell’epoca il patriziato minore di Venezia, Gasparo venne educato, fra corsi di legge e di matematica, alla scuola classicistico-moderata del Seghezzi e presto si volse a congiungere la sua preminente vocazione letteraria con una faticosa opera di scrittore e poligrafo professionale, di «paziente Giobbe» della letteratura, trasformando la propria casa (con la collaborazione anzitutto della prima moglie, la poetessa Luisa Bergalli) in una singolare officina di libri e di imprese editoriali e teatrali[122], spesso sfortunate e fallimentari a cui il Gozzi dové supplire con le piú umili fatiche di precettore presso nobili famiglie, o di copista del catalogo della Libreria di San Marco, invano aspirando a cattedre dell’Università di Padova (come quella di Lettere greche e latine in cui, nell’80, gli fu preferito Clemente Sibiliato). E se nel ’60 si aprí per lui la fortunata stagione dell’attività giornalistica nella pubblicazione della «Gazzetta veneta», del «Mondo morale» e dell’«Osservatore veneto periodico», dopo la cessazione dell’ultimo periodico nel ’62 il Gozzi si trovò di nuovo alle prese con le difficoltà economiche che lo obbligarono alla prosecuzione delle sue fatiche di traduttore (di questi anni è il volgarizzamento degli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, e di alcuni dialoghi di Luciano) e all’accettazione di vari e diversi impieghi pubblici, da quello di Revisore delle Stampe a quello di soprintendente della Scuola di Padova (1774), città in cui – dopo un tentativo di suicidio nel 1777 a causa di una grave malattia nervosa, e dopo la morte della Bergalli – trascorse gli ultimi anni della sua vita, amorevolmente assistito dalla seconda moglie, Sara Cénet, protetto dalla potente amicizia di Caterina Dolfin Tron, e assiduamente impegnato nella sua attività letteraria (nonché in una notevole attività di moderato riformatore di ordinamenti scolastici), fino alla morte avvenuta il 27 dicembre 1786.

Anche se le ricordate condizioni di necessità economica obbligarono spesso il Gozzi ad una attività scrittoria frettolosa e tumultuosa[123], il suo piú personale esercizio di scrittore non manca di svolgersi entro la linea costante di un amoroso culto dello stile ed entro la spinta di una disposizione morale congiunta con un acuto senso – fra accogliente e satirico – della realtà e della società. Disposizioni piú intime che – dopo un piú giovanile ed eclettico esercizio di rimatore di tipo tardo-arcadico e l’applicazione, nelle Rime piacevoli e burlesche, ad una ripresa del bernismo insaporito da risentimenti ed accenti piú personali quando l’invettiva e il sarcasmo toccano una materia piú autobiografica[124] – si precisano già chiaramente – anche se con vario esito artistico – nel primo volume delle Lettere diverse (1750), in cui il tessuto tradizionale del genere «epistolare», conversevole e «vario», e la costruzione sapiente e calcolata vengono pur spesso superati in un piú genuino gusto di estrosa e acuta attenzione ad argomenti personali e contemporanei, in una capacità di ironizzare su se stesso e sul proprio tempo, insieme cogliendo e vivacemente rappresentando moti sinceri del proprio animo e rapidi, intensi scorci e quadretti di vita quotidiana e di cronaca contemporanea. Ne risulta (e si pensi almeno, come esempio probante, alla lettera al Seghezzi) un tono medio, ancora appesantito da una piú forte e scoperta letterarietà, ma certo già avvertibile come tono piú caratteristico di questo scrittore e che tanto acquisterà di delicatezza e di levità, di acutezza e di raffinata densità, quando si alimenterà di una piú matura e concreta esperienza di cultura e di vita, quando si accenderà, nella sua luce pacata e sottile, nell’attrito con piú concreti problemi ed aspetti della vita della società contemporanea.

Meglio che nella famosa Difesa di Dante (1758), con cui il Gozzi prese posizione contro l’iconoclasta Bettinelli (in realtà, come vedremo, tutt’altro che privo di spunti assai validi per l’amore preromantico e romantico degli aspetti piú appassionati e realistico-sentimentali della poesia dantesca e specie dell’Inferno), disperdendo spesso nell’apologia piú accademica e in una versione della grandezza poetica di Dante troppo legata ad un gusto piú del «ghiribizzoso» e bizzarro che del «fantastico» un pur vivo senso della articolata unità del poema incentrata nella costante presenza del poeta-protagonista[125], ciò avverrà nella centrale e fondamentale attività giornalistica del ’60-62, quando il Gozzi intraprenderà, in un periodo di eccezionale fertilità e felicità inventiva, la pubblicazione di tre giornali di diversa impostazione e di diverso interesse, trovando la via espressiva piú congeniale della sua ispirazione letteraria e morale non tanto nel «Mondo morale»[126] (in realtà un pesante e farraginoso romanzo allegorico-didascalico incentrato nel tema della graduale corruzione della natura umana appoggiato alla traduzione della tragedia del Klopstock, Der Tod Adams, e di dialoghi di Luciano), quanto nella «Gazzetta veneta»[127] e nell’«Osservatore veneto»[128].

Con la «Gazzetta veneta» il Gozzi piú originalmente si inseriva nel ricco mondo giornalistico veneziano che dalla fase dei grandi giornali eruditi di primo Settecento (come soprattutto il «Giornale de’ letterati d’Italia») era passato a imprese giornalistiche piú di «tendenza», fra interessi religioso-teologici, aperture piú chiaramente civili (il caso del «Magazzino italiano»), piú diretti interessi scientifici ed economici. Vi si inseriva con un particolare gusto della realtà cittadina, con una saggezza briosa e antiastratta e antisistematica, con chiare punte di sfiducia nella forza assoluta della filosofia, e con un tipo di scrittura nitida e leggera, precisa ed ironica, raffinata e sciolta, ben adatta ad una comunicazione e ad una informazione su fatti e cose di una cronaca cittadina, sapidi di realtà immediata, ma suscettibili insieme di una loro resa estrosa e a volte quasi surreale.

In questa prospettiva giornalistico-cronachistica il Gozzi, che si proponeva un fine congiunto di utilità e di diletto (affermando nel sottotitolo del suo giornale che in questo si annuncerà «tutto quello ch’è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate in Venezia e fuori di Venezia, il prezzo delle merci, il valore dei cambii ed altre notizie, parte dilettevoli e parte utili all’uomo»[129]), riusciva a congiungere – con grande abilità letteraria ma con una piú sicura vittoria sul puro e semplice divertimento letterario – le sue qualità di humour, di estro, di moralità, di curiosità per la realtà piú quotidiana e minuta, il suo moderato impegno nella collaborazione ad una civiltà saggia e prudente.

Ne risultano cosí, al sommo di un esercizio di delicato attrito con le cose e le notizie del giorno, brevi pezzi di indubbia efficacia artistica, fra sorriso garbato e contenuto («Rosa, moglie di Michele Levantino ebreo, sabbato partorí tre figliuole, una delle quali morí subito e l’altre due il lunedí. Per esser quella giornata mi pare che facesse troppo»[130]), gusto di un documento di realtà svolto in un lieve tono bizzarro e quasi surreale

(Ne’ passati giorni fu licenziato un cameriere, perché giunto il suo padrone a casa, il quale ha per uso di non cenare, ma d’andar subito a dormire, in cambio d’adoperare lo scaldaletto, ficcò fra le lenzuola, in grandissima fretta la torcia accesa, e cominciò a tirarla su e giú, come se fosse stato lo scaldaletto.)[131]

giungendo, sulla base del suo tenue realismo, a moralità fra sorridenti ed amare:

La mattina del passato martedí fu ritrovato un bambino nato di fresco sopra una via, morto. Sono due possenti deità Amore e Vergogna: il primo è degno di scusa appresso al mondo, perché almeno accresce il popolo; ma la seconda, giunta a tal segno, rende le donne piú crudeli d’ogni bestia.[132]

Per distendersi a volte in descrizioni, sempre rapide e segnate da un tocco di lieve realismo e da un amore non puramente libresco – anche se sempre raffinatamente inscritto in un ideale letterario di compiuta e ben definita eleganza stilistica –, di scenette animate e mosse (come quella che descrive la calle del forno a San Polo e la «baruffa» popolana che vi si svolge[133]), che non possono non far pensare al Goldoni e alle sue commedie piú popolari, in una consonanza che viene chiarita dai giudizi del Gozzi, proprio nella «Gazzetta», su commedie goldoniane, e che insieme ben graduano il tanto minor impeto vitale e poetico del Gozzi e la sua misura piú distaccata e letteraria anche quando egli trae dalla materia della vita quotidiana e popolare un ritmo piú alacre e vivace.

Non mancano infatti nel contesto delle notizie e di piccoli fatti aneddotici anche veri e propri giudizi critici acuti pur nel loro andamento cronachistico ed espositivo, come quello appunto sulla prima recita dei Rusteghi goldoniani che può servire, come dicevo, a dimostrare una consonanza significativa fra il Gozzi e il suo grande contemporaneo e concittadino nel gusto di un realismo educato e poetico, di uno sguardo che illumina la realtà nelle sue pieghe piú comuni e non perciò meno poetiche. Come là dove, in questo resoconto teatrale, il Gozzi ammira la capacità goldoniana di «allogare» nella commedia «tutte le circostanze con squisita proporzione», «tutte con l’arte fatte spiccare e messe in movimento», «perché appunto come raggio di sole (mi si permetta questa comparazione poetica parlando di poesia) penetrato pel fesso della finestra, ove a te par vòto e nulla, ti fa apparire una lunga striscia di minute particelle in perpetuo movimento»[134], o come là dove acutamente rileva l’omogeneità e la varietà del carattere dei quattro rustici, «medesimo carattere» che «compartito in quattro uomini, ha quattro gradi e quattro aspetti diversi, che non violentati si affacciano agli uditori con varietà piú grata»[135].

Nel successivo «Osservatore veneto», alla diminuita tensione cronachistica e al minor gusto della comunicazione col pubblico corrisponde insieme un maggior impegno scrittorio in disegni piú vasti, in un favoleggiare allegorico e moralistico (che riprende la direzione allegorico-moralistica del «Mondo morale», resa però, anche attraverso l’esercizio della «Gazzetta», piú ordinata, circoscritta e dominata dallo scrittore), in una piú aperta disposizione di varietà di taglio e costruzione fra narrativa novellistica e conversatività piú distesa e moraleggiante e in una piú esplicita ricerca di disillusa saggezza alimentata anche – in un unico canale di rapporto stilistico-contenutistico – da una piú forte ripresa dell’eredità di Teofrasto e di Luciano, del ritrattismo morale di La Bruyère, della tradizione moralistica cinquecentesca, insaporita dalla nuova lucidità e dalla nuova verve ironica del Settecento, e dalle consonanze – seppure in una tonalità tanto piú scialba e uniforme – con il gusto teatrale di tipo goldoniano e con il gusto pittorico-realistico del Longhi, specie nei celebri ritratti satirico-morali[136], nonché da una simpatia – per quanto paternalistica e poco profonda – per le virtú semplici e schiette, per la saggezza naturale di personaggi umili e popolari che il gusto piú letterario e a volte calligrafico[137] del Gozzi trasforma in figurine aggraziate e manierate eppur non prive di un loro interno movimento affettuoso e cordiale[138]. L’osservatore, il moralista, il letterato amante della scrittura sottile e in punta di penna, collaborano unitariamente nelle pagine migliori dell’«Osservatore» su di un registro piú vario di quello della «Gazzetta», ma anche – come inizialmente accennavo – con un minor attrito nella piccola realtà descritta, con un maggiore appello alla poesia e al sogno come migliori vie alla felicità[139] e ad una calma ed edonistica saggezza in cui il Gozzi progressivamente si arrocca traendone deliziosi apologhi morali-poetici

(Bisognerebbe fare un bell’accordo di due scuole almeno insieme, sicché cuore e mente facessero come la bocca e le dita col flauto: io vorrei che il cuore soffiasse a tempo, e la mente reggesse il fiato con la sua bella cognizione, e creasse una dolce armonia nel vivere umano... Se l’armonia ch’esce dalla mente e dal cuore ben concordati a sonare ordinatamente, fosse cosa che potesse pervenire agli orecchi, s’empirebbe il mondo di dolcezza, né ci sarebbe musica piú soave di questa),[140]

ma insieme procedendo sulla via di una maggiore delusione sulle vere possibilità di miglioramenti umani e civili, con un crescente ricorso all’evasione nel sogno e nella creazione letteraria, che potrebbe trovare ulteriore conferma in quel piú tardo giornale, «Il sognatore italiano» (1768), che alcuni studiosi propendono ad attribuire al Gozzi[141].

Comunque è nella prosa dei giornali che il Gozzi colse il meglio delle sue qualità umane e stilistiche. Ché nei Sermoni (1745-1781 circa) in versi endecasillabi (e dunque pur inclinati ad un fare discorsivo e narrativo, fondamentale nel nostro scrittore), meno, in sostanza, risulta la migliore disposizione inventiva ed artistica del Gozzi, piú diluita entro scenette e ritratti satirici del «bel mondo» veneziano che, abili e ben costruiti, sono in sostanza assai deboli ed opachi, manierati e incapaci della condensazione realistico-satirica di un Parini (cui troppo spesso il Gozzi dei Sermoni è stato avvicinato), mal sostenuti da un moralismo che si viene facendo, specie nel progredire della vita senile dello scrittore, sempre piú sfocato nei suoi valori di appoggio. Sicché, piú che puntare su alcune celebri scenette della vita galante e frivola della decaduta nobiltà veneziana presa dalle mode effeminate ed effimere[142], si può semmai piú convenientemente – e pur moderatamente – indicare la maggior efficacia di quei Sermoni che piú direttamente corrispondono al crescente fondo di delusione e amarezza autobiografica del Gozzi[143], al suo scetticismo e fatalismo che lo inducono a rifugiarsi nei «sogni», secondo una direzione che si può cogliere insieme in certe lettere tarde, parte di quell’epistolario che è pur documento notevole della vita interiore e della prosa del Gozzi.

Come nella lettera del 15 giugno 1782 al suo fedele Angelo Dalmistro, cosí piena di una pacata e amaramente ironica malinconia:

Voi pure v’ostinate a darmi il titolo di celeberrimo. Bel celeberrimo, per mia fe’, un uomo fuggito, si può dire, dal mondo; entrato in una solitaria tana, che appena può trarsi dietro le calcagna; che fugge i libri e lo scrivere, come il diavolo dalla croce, e che si pente di cuore d’essersi lungamente affaticato per acquistarsi infine una vecchiezza piena di cancheri! Da un poco d’anima in fuori, appiccata ancora non so con che, né a che, ad un carcame quasi diafano, io non ho altra vita. Un pochetto d’aria che m’entra nel polmone mi fa vivere ancora come un mantice; e di tutto me non ho piú altro d’intero che il nome, forse in grazia del santo battesimo, che non può per la sua dignità perire come il restante...[144]

Non cosí si potrebbe certo avvertire nel Gozzi un che di veramente preromantico, ché poi egli, come reagiva alle speranze del piú ottimistico illuminismo, cosí reagiva (senza la fede salda e virile di un Parini nella robusta religione dei classici) alle mode preromantiche, progressivamente chiudendosi in un dolente e malinconico isolamento di letterato e di uomo, in una saggezza scettica e delusa che non veniva profondamente rotta neppure dall’impegno del pedagogista e del riformatore degli studi[145], che poteva sí lucidamente cogliere la necessità di un’istruzione professionale per le classi umili o quella di una scuola secondaria per l’ingresso all’Università e di un arricchimento dello stesso insegnamento umanistico con la maggiore presenza di discipline storiche, giuridiche, economiche, ma che inseriva tali esigenze entro una visione moderatamente conservatrice e inutilmente volta a rafforzare dall’interno la struttura sociale e politica della vecchia e decadente repubblica veneziana.

7. Narratori, memorialisti, viaggiatori

Una prospettiva letteraria piú particolarmente stimolata e avvivata da esigenze dell’epoca illuministica (e poi colorata dai riflessi delle accentuazioni di sensibilità e figuratività in direzione preromantica e neoclassica) è quella della narrativa e soprattutto della memorialistica e della relazione di viaggio.

Di una particolare espressione di istanze narrative, nel secondo Settecento, si può parlare per la novellistica in versi per la quale già ricordammo le Novelle del Casti e ora potremo ricordare quelle del pisano Domenico Luigi Batacchi (1748-1802), «libero pensatore» e simpatizzante con le idee giacobine a causa delle quali ebbe vita misera e perseguitata nella Toscana granducale e nello stesso regno di Etruria, opponendo però alle sue sventure biografiche un innato gusto comico e ridanciano che, pur alimentandosi di certo spirito libertino, anticlericale di origine illuministica, si ricollega piú fortemente a tradizioni comico-burlesche e bernesche già vive ed attive nel corso del secolo fin dalla zona arcadica. Sicché appare eccessiva una forte colorazione illuministica (e per altro verso preromantica nel rilievo esagerato di un umorismo nato come superamento di forti contrasti interiori) di un’attività letterario-narrativa che tocca i suoi esiti piú interessanti di un tono divertito, fra realistico e fiabesco, non tanto nel fastidioso poema burlesco La rete di Vulcano e neppure nelle stesse vere e proprie Novelle in sesta rima, piú affidate alle risorse di un’oscenità sfrenata che a vero interesse narrativo, quanto nello Zibaldone, poemetto novellistico in cui una piú espansa novella-cornice (di per sé assai vivace e fresca nella multiforme rappresentazione di personaggi cinici e furfanteschi) inquadra sette novelle assai ben costruite e insaporite dal tono, già ricordato, tra fiabesco e realistico, realizzato soprattutto nell’agile e leggiadra novella di Basilichina.

Ma quando si passa alla narrativa in prosa e ad un vero impegno di tecnica narrativa romanzesca, quale può ben riscontrarsi nella «moderna» narrativa settecentesca francese e inglese, dovrà subito dirsi che il numero cospicuo di nomi che potremmo qui raccogliere e l’ambizione a dare esempi di questo «genere letterario» sono assai sproporzionati rispetto al valore artistico di questa produzione debole, confusa, quasi sempre inefficiente anche sul piano della pura «leggibilità». Sí che può capirsi come l’Alfieri nella Vita (e dunque alla fine del secolo) potesse giustificare la sua giovanile lettura di romanzi stranieri, particolarmente francesi, perché «degli italiani leggibili non ve n’è»[146], e come, ancor piú tardi, il Foscolo dovesse affermare che agli eccellenti romanzi dell’Europa moderna gl’italiani non potessero opporre se non i loro vecchi novellieri («misero fasto, pari a quello degli antichi patrizi che alle fogge del nostro secolo contrappongono le armature de’ loro antenati»[147]) o quelli settecenteschi ricalcati su quelli tre-cinquecenteschi[148]. Tanto che chi studi la composizione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis o dei frammenti del Sesto tomo dell’io facilmente osserverà come il Foscolo, nella sua volontà di creare romanzi moderni, dovesse rivolgersi, come appoggio di un’adeguata tecnica narrativa, ai romanzi stranieri settecenteschi, o direttamente o attraverso le numerose traduzioni italiane di quelli[149]: traduzioni che spesso – malgrado la loro varia efficacia stilistica – costituiscono il settore piú utile della prosa romanzesca italiana di secondo Settecento come sostegno alle successive imprese narrative di primo Ottocento[150]. Laddove, ripeto, la diretta produzione romanzesca italiana del tempo (se si esclude il caso di Alessandro Verri e dei suoi romanzi, di cui parleremo nel paragrafo dedicato agli esempi della letteratura preromantica e preromantico-neoclassica: anche se poi le celebri Notti romane solo molto parzialmente possono dirsi veramente «romanzo») può sí servire al rilievo di un largo desiderio della narrazione romanzesca e allo studio documentario degli spostamenti di gusto e di mentalità del pubblico, e degli scrittori di «mestiere» al pubblico piú attenti e piú pronti ad assecondarne gusti e preferenze anche effimere e passeggere (cosí nel sostanziale declino del romanzo pastorale e nel passaggio all’amore per il romanzo avventuroso-galante o allegorico, o storico-avventuroso o persino religioso ed edificante[151]), ma non regge assolutamente ad un esame critico, per quanto esso possa essere paziente e indulgente, anche nei casi di piú vistoso successo e di maggiore continuità di impegno nella ricerca narrativa.

Quali furono soprattutto (in mezzo a tanti casi di applicazione piú sporadica al «genere» romanzesco che poté verificarsi anche in linee secondarie di interesse di piú consistenti scrittori[152]) i casi di Pietro Chiari (già ricordato nel paragrafo sul teatro) o di Antonio Piazza (Venezia 1742-Milano 1825), accomunati insieme dal carattere di produttori di una letteratura di consumo e dalla debolezza e sciatteria narrativa e scrittoria. Basti del resto per il primo, e per le sue scelte ispirate dalla volontà di adeguarsi «al gusto corrente del secolo», ricordare come in un primo tempo egli prendesse posizione contro il «romanzo» (nelle sue Lettere scelte del 1749-1752), perché, a suo parere, il gusto del tempo propendeva piú per i saggi-dissertazioni all’uso inglese che per i romanzi, per poi, dieci anni dopo, nella Francese in Italia, giustificare la sua pratica di infaticabile produttore di romanzi perché «i librai non vendono che romanzi, ed io non devo pertanto scrivere che soli romanzi, se scriver voglio de’ libri, che sieno venduti e convertino l’inchiostro in oro»[153].

Date tali premesse e la natura farraginosa, frettolosa e spregiudicatamente plagiaria e raffazzonatrice di questo avventuriero della penna, si può capire quanto effimeri siano gli stessi segni documentari dei suoi numerosissimi romanzi continuamente aggiornati sull’ultima moda e sulle opere italiane o europee piú fortunate (il caso della Bella pellegrina che fulmineamente utilizzò la écossaise del Voltaire) o variamente mescolanti i piú diversi pimenti della sensibilità e della ideologia illuministica fino ad accostamenti rousseauiani-preromantici (il caso dell’Uomo d’un altro mondo o sia Memorie di un solitario senza nome, scritte da lui medesimo in due linguaggi, chinese e russo, e pubblicate nella nostra lingua dall’abate Pietro Chiari), con una piú costante preferenza per l’intreccio avventuroso, complicato e sorprendente, che piú attraeva lo scrittore e di fatto schiacciava e svuotava gli stessi interessi filosofici o sentimentali del «gusto corrente», livellava ogni possibile maggiore ricerca o di discussione problematica o di descrizione psicologica inerente a quegli interessi e temi.

Come avviene anche nei piú sopportabili e astrattamente interessanti romanzi del Chiari: La ballerina onorata, La cantatrice in disgrazia, La commediante in fortuna, La giuocatrice di lotto (scritti tutti negli anni fra il 1754 e 1757).

Né certo piú positivamente potrebbe considerarsi l’abbondantissima produzione romanzesca (e teatrale) del Piazza che, partito da una pedissequa imitazione del Chiari, cercò poi una misura piú breve e condensata dell’intreccio, che voleva essere piú «naturale» e piú forte avvicinamento al tipo narrativo-lacrimoso (con elementi di egualitarismo rousseauiano nell’Ebrea, istoria galante, o piú apertamente patetico come nei Deliri dell’anime amanti) o a quello del romanzo picaresco (come negli Zingari) per poi ritornare, negli ultimi due decenni del secolo, alla base avventurosa chiariana.

Piú interessante invece, almeno per i piú consistenti legami con temi e problemi dell’epoca illuministica, saranno da considerare, nella linea del romanzo allegorico-critico, quei Viaggi di Enrico Wanton alle terre incognite australi ed ai regni delle scimmie e dei cinocefali, nuovamente tradotti da un manoscritto inglese (come suona il nuovo titolo dell’opera, intera, pubblicata nel 1764 a Venezia – con falsa data Berna – e prima pubblicata solo nella prima parte già nel 1749) di Zaccaria Seriman (1708-1784), veneziano di origine armena, che in quel lungo romanzo di chiaro modulo gulliveriano, attraverso le esperienze deludenti di due amici inglesi, Enrico e Roberto, in terre immaginarie abitate da popoli fantastici e animaleschi, raffigura – con toni critici e satirici piú acri – costumi e idee del tempo, avvicinandosi a ottimistiche e utopistiche prospettive di una società organizzata secondo i dettami dei «lumi» della ragione per poi correggerle con cauto scetticismo. All’incontro fra critica delle istituzioni presenti, prospettive utopistiche e ripiegamento scettico corrisponde un’altrettanto incerta capacità costruttivo-narrativa. Ma entro questi limiti ideologico-artistici i Viaggi del Seriman offrono un vasto e ricco spaccato della società e della cultura italiana di metà Settecento e singole parti piú acute, specie nel motivo della satira della società aristocratica e della sua incultura, della astrattezza di filosofi sistematici e metafisici, della cultura accademica e pedantesca (con probabili riferimenti locali alla veneziana Accademia dei Granelleschi), della Roma papale (chiamata nel romanzo «Astuzia»), dominata dalla corruzione e dalla ipocrisia, nonché della stessa Roma antica, vagheggiata dai classicisti e invece qui presentata in una storia di violenze e ingiustizie politiche.

In realtà una forma particolare di narrativa italiana nel secondo Settecento va ricercata, piú che nei tentativi di romanzo o di novella, in due direzioni espressive spesso fra loro praticamente congiunte: quella della memorialistica e quella delle relazioni di viaggi.

Nella prima – che idealmente culmina nei Mémoires del Goldoni e nella Vita dell’Alfieri (esse stesse ben significative di due personalità e di due momenti fortemente diversi nella storia del secondo Settecento: la prima nel pieno di una Weltanschauung ottimistica e sostanzialmente illuministica, la seconda violentemente preromantica ed eroico-pessimistica) – ben si individua il gusto di una narrazione di vicende e avventure realmente vissute (anche se variamente accresciute ed esaltate in una prospettiva di particolare rilievo dei propri casi e della propria personale importanza) che fortemente pertiene ad una mentalità avida di realtà e di esperienza dal cui attrito concreto può naturalmente sprigionarsi il gusto di una rievocazione personale compiaciuta e magari nostalgica, ma mai isolata dalla trama fitta di casi e persone, da una vita di rapporti e scontri con una concreta società.

Dopo le grandi autobiografie del Vico e del Giannone e quelle di altri scienziati e letterati di primo Settecento (alla cui direzione di prevalente attenzione al proprio svolgimento intellettuale si collegano piú fortemente le numerose notizie autobiografiche di filosofi e ideologi illuministi), e casi sporadici di rievocazioni burlesche e in versi della propria vita[154], la memorialistica di secondo Settecento piú artisticamente interessante segue la direzione narrativo-avventurosa sopraindicata, presente in vari scrittori di «memorie», ma con assai diversa forza ed efficacia di tensione e di risultati.

Cosí piuttosto scialbe e grigie risultano le Memorie di Filippo Mazzei[155], pur non prive di un interesse documentario che certo appare piú vario e complesso, piú sfaccettato e brillante nella larga esperienza di uomini, paesi, vicende storico-politiche esposta nella massiccia opera memorialistica di Giuseppe Gorani: quei Mémoires pour servir à l’histoire de ma vie che l’illuminista milanese (per il cui profilo generale e per i cui interessi ideologico-politici rimando alle pagine già dedicate a lui nella sezione del Diaz) stese a Ginevra, fra il 1806 e il 1807[156], quando, ormai vecchio e completamente distaccato dalla vita politica e socievole, volle cercare un compenso alla sua amara solitudine appunto in una intera rievocazione della sua vita avventurosa e frustrata nelle sue ambizioni personali e nelle sue aspirazioni ideologico-politiche. Ma, se l’opera del Gorani è interessante per la vasta presentazione di vicende, avventure, costumi, personaggi disposti in un largo arco di tempo e in vari paesi d’Europa – fra vita militare, attività politica e diplomatica, viaggi e avventure galanti –, la loro animazione narrativa ed artistica è assai modesta e, mentre la presenza del personaggio autobiografico spicca piú per le sue sproporzionate ambizioni, ambiguamente rilevate e ironizzate[157], e per l’acre e un po’ angusto risentimento vittimistico (legato alle sue sfortunate origini di cadetto sacrificato e perseguitato dai propri familiari) che non per una effettiva prepotenza personale, la messa in azione del ricchissimo materiale di esperienza non trova una adeguata forza di ritmo e rilievo narrativo[158], disperdendosi in scene e quadri piuttosto giustapposti, in ritratti di grandi personaggi troppo aneddotici e viziati da uno spirito di malignità e di demistificazione piuttosto gretto e scarsamente corrosivo e pungente[159], cui corrisponde uno stile rigido e opaco, anche quando pretenderebbe al sarcasmo o alla comicità. Insomma, pur tenendo conto dell’effetto «materiale» di tante offerte per la conoscenza del tempo e della società settecentesca e degli indubbi interessi politici dell’autore – appannati però, in questa sua stanca e delusa vecchiaia, da una prospettiva di casualità equivoca della storia che non riesce a farsi aggressivo e potente pessimismo –, i Mémoires del Gorani appaiono come una importante occasione mancata e non possono alla fine non deludere anche chi non ricerchi un’espressione letterariamente sicura ed elaborata, ma almeno una forza di azione e di narrazione, quale invece tanto diversamente si può trovare nell’opera memorialistica di un Casanova e in quella, insieme piú tenue e piú letterariamente scaltra, di un Da Ponte (per non tornar qui sulle Memorie inutili di Carlo Gozzi).

Giacomo Casanova (nato a Venezia nel 1725 e morto nel 1798 nel castello di Dux dopo una movimentata vita di avventuriero e di poligrafo passata in varie parti di Italia e di Europa) è certo dei due il piú interessante e dotato di indubbie qualità narrative. Tali qualità non trovano realizzazione nel tentativo di un vero e proprio romanzo farraginoso e velleitariamente utopistico-illuministico (Icosameron ou histoire d’Édouard et Élisabeth, qui passèrent quatre-vingt ans chez les Mégamicres, habitants aborigènes du Protocosme dans l’intérieur de notre globe[160]), bensí nella monumentale narrazione della sua vita, quella Histoire de ma vie, che egli scrisse, nella vecchiaia solitaria e stanca nel castello di Dux, quasi a recuperare nel ricordo e nel racconto la sua perduta e vagheggiata vitalità formidabile, l’inesausto bisogno di una fruizione di beni mondani, da lui spinta fino ad una irrequieta curiosità intellettuale e ad una ambizione inappagata di affermazione letteraria e sin filosofica, ma chiaramente riconosciuta (com’egli dice nella prefazione della Histoire) come centrale e supremo piacere dei sensi («Cultiver les plaisirs de mes sens fut dans toute ma vie ma principale affaire; je n’en ai jamais eu de plus importante»[161]), associando il piacere di piatti fortemente saporiti e quello dello stesso forte odore delle donne amate[162] e spiegando poi che il temperamento sanguigno lo rese

très sensible aux attraits de toute volupté, toujours joyeux, et empressé de passer d’une jouissance à l’autre, et ingenieux à en inventer. De là vint mon inclination à faire de nouvelles connaissances, autant que ma facilité à les rompre...[163]

In tale prospettiva di recupero – attraverso la narrazione – di una vita tutta immersa nel presente[164], mossa anzitutto dalla ricerca dei piaceri e della voluttà (e spiegata in un inquadramento vagamente filosofico sensistico-illuministico dominato da un confuso deismo di tipo massonico), le memorie del Casanova si profilano in una specie di continua epopea narrativa dell’affermazione vitale dello scrittore-protagonista nelle innumerevoli e spregiudicate avventure vissute, con formidabile foga, entro un mondo cangiante e preciso (Casanova non ama il pittoresco e lo sfumato), denso di luoghi e persone, còlti in un movimento incessante, nell’intrico di casi sorprendenti e provvidenzialmente risolti ad maiorem gloriam delle inesauribili risorse ingegnose del protagonista, giocatore e baro, sfruttatore implacabile delle altrui debolezze, megalomane e sicuro di sé, della propria fortuna, del proprio talento. Sicurezza che lo porta ad incontri di alto livello intellettuale e sociale (al centro quelli con il grande Voltaire o con re e potenti della terra), cosí come lo porta a mescolarsi, nella sua avidità di avventura e di piacere, con avventurieri e canaglie, con donne di malaffare, con bari e scrocconi e soprattutto lo spinge all’incessante ricerca dell’amplesso femminile, mèta suprema del suo istinto edonistico e sensuale.

Sotto la penna un po’ grossa e pesante[165], ma decisa e fertile, del vecchio scrittore, si ridipana la incessante e irrequieta vicenda dell’avventuriero e la foga vitale, che questa aveva animato, si traduce in una foga narrativa di indubbia forza trascinante, che – mentre ridispiega per il lettore una inesauribile galleria di vive stampe e scene settecentesche (specie nella direzione della vita libertina in luoghi di piacere e di giuoco, in teatri, in alberghi affollati o in splendidi palazzi nobiliari) – ricrea, al di là del piacere documentario, una energica impressione di scene in movimento, di ritmo narrativo autentico, anche se il fondo dell’animo e della cultura dello scrittore è sostanzialmente volgare e superficiale ed anche se l’aggirarsi nel circolo della sensualità può provocare spesso una sorta di sazietà e monotonia, accresciuta da certi moduli ripetitorii di impostazione della scena erotica (i casi troppo replicati della seduzione contemporanea di due donne o certa troppo replicata ritualità edonistico-mitologica della preparazione all’atto amoroso).

Ma la forza narrativa generale è innegabile e infinite scene – ora brevissime[166], ora protratte in larghissimo giro di pagine – rimangono fortemente impresse nella memoria del lettore (anche quando possono avere qualcosa di ripugnante nell’assoluta amoralità della narrazione[167]) per la chiarezza dell’impostazione e la sicurezza dello svolgimento e della resa incisiva: sarà l’affascinante avventura della fuga dai Piombi[168], sarà la narrazione del viaggio picaresco del giovane Casanova con frate Stefano[169], sarà – fra le narrazioni erotiche – la vicenda dell’amore per la monaca veneziana[170] o la scena ariosa e beffarda del doppio amore con Angélique e Lucrèce a Tivoli e della sfrontata caricatura dell’ingenuo fidanzato della seconda[171], o la forte scena dell’orgia degli abati omosessuali a Roma in casa di Lord Talou[172]. O sarà il complicato intreccio fra discussioni e letture di versi ariosteschi e amori con fanciulle del luogo, nella narrazione della visita a Voltaire[173], in cui Casanova sfoggia la sua abborracciata cultura e la sua piú vera capacità di persuasione istrionica e di personale estro affascinante.

Inutile chiedere a Casanova interpretazioni originali e profonde dei problemi storici, ideologici, culturali e letterari del suo tempo[174]: perché certe esaltazioni della grandezza dell’Ariosto o di Orazio («le poète de la raison», ma piú, per lui, del carpe diem) si confondono poi con l’ipervalutazione del «grande» Baffo, il poeta veneziano osceno, e si riconducono soprattutto ad un senso assai dilettantesco della poesia e al suo carattere di ornamento e di incoraggiamento ad una concezione edonistica e libertina della vita. Cosí come la partecipazione alla grande disputa illuministica sulla prevalenza dei beni e dei mali, dei piaceri e dei dolori nella vita dell’uomo si risolverà in senso volgarmente ottimistico e nel disprezzo per la soluzione pessimistica come dovuta ad uomini malati o poveri che cambierebbero parere se godessero «d’une bonne santé», se avessero «la bourse pleine d’or» e belle donne a disposizione[175]. Giudizio grossolano che riconduce alla fondamentale superficialità dello spirito e della cultura del Casanova (colorata indubbiamente di riflessi illuministici, ma non tale da far di lui un vero e persuaso illuminista) e alla sua fondamentale prospettiva edonistica e sensuale di avventuriero e di narratore di una vicenda vitale e di un contatto con il proprio tempo rivisti con forza e passione egotistica e nella loro brillante luce di avventure e di peripezie eccitanti e singolari, in un mondo settecentesco – quello delle corti e degli stati assolutistici-illuminati[176] – di cui il Casanova coglie gli aspetti piú vistosi e coloriti, non i problemi e le tensioni piú serie e profonde.

Tanto minore è indubbiamente la forza vitale e narrativa (anche se letterariamente piú educata) dell’altro memorialista Lorenzo Da Ponte (già da noi ricordato per i suoi melodrammi) che narrò la sua lunga e avventurosa vita (era nato nel 1749 a Ceneda – oggi Vittorio Veneto – di padre israelita poi convertito al cattolicesimo quando il fanciullo cambiò il nome di Emanuele Conegliano in quello di un vescovo protettore) nelle tarde Memorie[177] scritte quando da vecchio, insegnante e diffusore della letteratura italiana, viveva a New York (dove morí nel 1838), passato in America nel 1805 a causa dei debiti contratti a Londra per le sue rovinose imprese teatrali e commerciali, dopo lunghi periodi passati prima come prete e insegnante nei seminari di Portogruaro e Treviso, poi a Gorizia (dove fu spia del governo veneto) e soprattutto a Dresda e Vienna come poeta teatrale.

Nate da un intento apologetico della propria vita combattuta e difficile fra un certo spirito di persecuzione e ostilità vere e in gran parte causate dalla natura poco scrupolosa dell’avventuriero (e quindi non sempre attendibili quanto alla veridicità dei fatti narrati e idealizzati a proprio vantaggio), le Memorie del Da Ponte costituiscono comunque un altro notevole documento del costume dell’epoca tardo-settecentesca in vari ambienti e paesi (la Venezia della decadenza tra le gesta degli avventurieri, le velleità dei novatori, la sospettosa vigilanza del governo aristocratico; o la società galante e letteraria di una città provinciale come la Gorizia veneta-austriaca; o la Vienna del mondo teatrale fra le cabale e gli intrighi dei librettisti, dei cantanti, dei musicisti e dei loro protettori; o la piú ricca e aperta vita londinese, o infine la vita puritana e borghese dell’America di primo Ottocento). Ma la loro forza di rappresentazione e narrazione è assai discontinua e, malgrado l’intento dell’autore di dar prova di una prosa semplice e svelta piú efficace che ornata, la loro resa artistica è fortemente saltuaria, aprendosi con una certa fatica a piú freschi e piacevoli squarci di ritratti ironici e pungenti (come quello del vecchio Casanova fra bisbetico e arrogante e poi improvvisamente rasserenato e pronto a ridere su se stesso e la propria dubbia moralità[178]), di agili figurine deliziose e insaporite da un gusto assai vivo di particolari personali e ambientali (come quella della giovane ostessa goriziana[179], quella del Cera che, in un momento d’estrema povertà del Da Ponte e della sua giovane moglie, appare improvvisamente nella misera stanza d’albergo con alcune cibarie che consolano e rallegrano i due sventurati affamati[180]), di incontri inattesi e bizzarri (secondo un gusto del «contrattempo» e dell’incidente divertente e stupefacente che fa pensare a piú efficaci procedimenti delle Memorie inutili di Carlo Gozzi[181]), di piú complete scenette ariose e ben calcolate che rompono (piú fitte nelle prime parti, piú sporadiche nelle ultime) il tessuto piuttosto grigio e faticoso della narrazione.

Nella piú precisa direzione delle relazioni e narrazioni di viaggi iniziata, nei modi pertinenti agli interessi di tipo illuministico, dai Viaggi in Russia dell’Algarotti[182], potrebbe raccogliersi (se lo spazio lo consentisse) un’ampia documentazione e illustrazione di questo importante settore della prosa di secondo Settecento e del lento e sfumato variare del gusto e degli interessi di scrittori e uomini di cultura nel loro contatto con paesi, costumi, ambienti storici, concrete persone del mondo settecentesco italiano ed europeo e quindi anche con incentivi e stimoli a confronti fra la situazione italiana e quella di altri paesi, e con inerenti contributi a una visione cosmopolitica e nazionale che di tanto poté approfondire – fra eccessi esterofili e risentimenti nazionali – la nuova presa di coscienza della tradizione italiana, dei suoi limiti e delle sue qualità e possibilità.

Nella impossibilità di un piú accurato e ben desiderabile studio di personalità e testi che tanto arricchiscono la nostra conoscenza della prosa dell’epoca illuministica nel suo sviluppo verso accentuazioni di tipo preromantico e colorazioni di gusto neoclassico e nella piú generale tensione di esperienza e di espressione di un’epoca cosí alacre e fertile, basti almeno rapidamente indicare i casi piú significativi e individuati di tale percorso[183], ancora ricordando come anche nei memorialisti sia ben forte la descrizione di viaggi e di esperienze di diversi paesi e culture.

Cosí, in una zona ancora legata a toni piú accademici e tardo-arcadici e al gusto della lettera-saggio rivolta soprattutto all’esemplarità linguistico-epistolare – ma insieme con un crescente e sincero gusto di osservazione e di interesse storico e politico, affiatato al progrediente spirito illuministico – potrà individuarsi la posizione di quelle Lettere familiari e critiche che Vincenzo Martinelli (Montecatini 1702-Firenze 1785) – autore anche di una Istoria critica della vita civile, trattato morale-educativo sul vivere in società, e di due opere storico-cronachistiche: Istoria d’Inghilterra e Istoria del governo d’Inghilterra e delle sue colonie in India e nell’America settentrionale – scrisse dal 1748 in poi (pubblicandole nel 1758) durante il suo soggiorno londinese, quando le concepí anzitutto come utile esempio di buona lingua italiana in relazione alla sua attività di insegnante di italiano, ma scegliendo come argomenti non solo piú dirette questioni linguistiche (come nella lunga lettera al Newdigate «sopra l’ortografia della lingua italiana»), bensí anche piú impegnative questioni di storia, di filosofia, di gusto (discutendo, alla luce del suo empirismo di toscano erede della tradizione galileiana-rediana, scritti e giudizi di Voltaire e di Rousseau), o descrizioni della vita inglese e del suo sistema di libertà, attento soprattutto alle istituzioni e alle cose utili agli uomini e alla loro socievole convivenza, all’incontro piacevole di natura e arte, nei giardini e nell’urbanistica, al contributo della grazia femminile alla saggia fruizione della vita.

Tutto in una scrittura arguta e garbata, in forme e moduli fra tarda Arcadia e lucidità e grazia illuministico-rococò[184], che si appuntisce in piú incisiva finezza sorridente nei gustosi aneddoti piú volte introdotti ad animare piú vivacemente il contesto di varie lettere[185].

A questa zona di metà Settecento appartengono anche le Lettere al march. F. Hercolani sopra alcune particolarità della Baviera ed altri paesi della Germania, pubblicate a Lucca nel 1763, del bolognese Giovanni Ludovico Bianconi (1717-1781) – amico del Maffei e dell’Algarotti e vissuto a lungo ad Augusta e soprattutto a Dresda –, che in quelle associò il suo gusto di erudito ed esperto di antiquaria e di arti figurative[186], che lo portava ad una descrizione spesso troppo minuziosa di biblioteche e gallerie di Monaco e di altre città tedesche, a quella piú stimolante curiosità illuministica per condizioni di vita sociale e civile che sostiene le parti piú animate del suo libro: quelle appunto in cui la sua lucida ed equilibrata intelligenza illustra, con pacato e ben disteso discorso, i costumi e magari l’ordine, l’amore di pulizia, l’osservanza delle leggi dei cittadini tedeschi, risalendo da queste condizioni di vita alle loro origini in una tradizione civile e religiosa molto legata all’educazione protestante di cui il Bianconi vede acutamente l’importanza nei confronti di un’etica civile moderna, mentre pure acutamente rileva – nel paragone stimolante fra Germania ed Italia – le condizioni piú arretrate della nostra cultura ancora troppo accademica e del costume italiano meno ispirato al senso e al rispetto della convivenza civile.

Ed è proprio nella direzione di un sempre piú prevalente interesse ideologico-civile illuministico che col progredire del secolo si collocano non solo le nuove relazioni o lettere di viaggio dovute a veri e propri illuministi militanti, come il Frisi, il Biffi, il Pilati[187] (di cui ha già trattato direttamente Furio Diaz in altra parte di questo volume), ma anche uomini di cultura prevalentemente letteraria e capaci insieme di notevoli risultati descrittivo-narrativi e di acute riflessioni e osservazioni. Sia nel caso piú esile di Francesco Luini (Lugano 1740-Milano 1792), scienziato e letterato, autore delle Lettere scritte da piú parti d’Europa a diversi amici e signori suoi nel 1783 (pubblicate a Pavia nel 1785), che dalle esperienze di viaggio in vari paesi fra Italia, Svizzera e Francia, ricava una specie di filosofia del viaggiatore «contemplatore» che non trascura né il gusto dei paesaggi, né le osservazioni scientifiche, né le riflessioni morali sull’uomo, ricavandone in fine un «utile disinganno», un equilibrato discernimento fra illusorie speranze e sperimentate realtà («quella brillante luce, quel tatto fino, quel senso intimo, quell’odorato discernitore delle cose fisiche e morali, tanto essenziale per saper come viviamo e con chi»[188]). O sia nel caso piú cospicuo del versiliese Luigi Angiolini (1750-1821), importante personaggio della politica e della diplomazia toscana[189], che impiegò la sua acuta conoscenza e capacità interpretativa di fenomeni politici, di uomini concreti, di istituzioni e condizioni di vita nelle sue Lettere sopra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda, uscite anonime a Firenze nel 1790 (prive però della parte dedicata all’Olanda mai venuta alla luce[190]), molto efficaci nel loro insieme, perché anche le parti piú minutamente documentarie trovano poi la loro funzione di preparazione alle pagine piú nitide e distese di giudizi e di ritratti, di rilievi illuminanti sulle istituzioni della libertà inglese (che l’Angiolini ammira pur avvertendone i rischi e i limiti e la difficoltà di trasferirle in altre condizioni nazionali), sui costumi, le particolarità della vita dell’Inghilterra e della Scozia (e a proposito dell’ultima non mancano pagine assai belle sulle virtú dei montanari scozzesi ricollegate ad un sobrio recupero di simpatie ossianesche), sulle varie forme della vita religiosa delle sette protestanti, come quella dei quaccheri, alla cui descrizione, fra simpatie e critica, sono dedicate alcune delle pagine piú nitide dell’Angiolini. Che fu scrittore di penna fine e incisiva, nemico della ridondanza oratoria e sentimentale, abilmente utilizzante un periodare semplice e breve ben adatto al suo ingegno analitico e preciso, ben capace di ricavare un certo effetto di luce calma e nitida persino da un breve e antiretorico rilievo di paesaggio o di clima, come in questo breve brano sul clima di Edimburgo e sulle sue brevissime notti estive:

Quel che è vero, anche senza i loro elogj [gli elogi degli stessi abitanti], è che questa estate ha belle bellissime le notti; esse non hanno durata maggiore di due ore e mezzo o tre. A dieci ore della sera ho letta una lettera senza sforzo in mezzo alla strada; e all’un’ora dopo mezzanotte ho veduto piú chiaro che all’alba di mezz’ora in altri paesi...[191]

La lucidità illuministica – pur con varianti di diversa coloratura di sensibilità e di visività nei lenti svolgimenti verso il preromanticismo e il neoclassicismo – domina centralmente la prosa di simili scrittori di viaggi, facendosi ancora piú oggettiva, nella sua aderenza alle cose descritte e agli avvenimenti narrati, in quelle relazioni di viaggio che piú direttamente sono ispirate dalle ricerche di cultori delle scienze naturali, fisiche, come nel caso del Volta[192], o in quello piú esemplare di Lazzaro Spallanzani (Scandiano 1729-1799) che, soprattutto con spirito di scienziato (anche se non privo di buona formazione letteraria e filosofica, ché egli anzi in un primo tempo fu insegnante di lingua greca e di filosofia) compose – oltre a diari in relazione ad un suo viaggio a Costantinopoli per mare e, al ritorno, attraverso i Balcani e l’Austria[193] – quei Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino[194] che soprattutto dimostrano – nella loro limpida e semplice prosa, strettamente aderente al procedere nitido dell’osservazione diretta e sperimentante e delle sue rigorose e coerenti conclusioni – la singolare efficacia di una disposizione scrittoria tutta aliena da ogni ornamento pittoresco e retorico, contraria ad ogni impeto e colorito sentimentale, calma e nitida anche quando descrive tempeste, terremoti ed eruzioni vulcaniche, eppure innegabilmente attraente e quasi a suo modo poetica, proprio per la pacata luce che l’intelligenza proietta sulla pagina, commutando lo stesso intimo fervore del ricercatore, il suo piacere di sicure acquisizioni e di sicure confutazioni di errori scientifici e credenze favolose, le sue vibrazioni di fronte agli spettacoli «giocondi» e alle «meraviglie» del «grande laboratorio della natura», in una tranquilla forza di lucida descrizione oggettiva di oggetti, fenomeni fisici ed animali. E si pensi almeno alle pagine sulle migrazioni delle anguille di Comacchio e al fascino che un lettore esperto prova proprio là dove manca ogni ricerca di effetti e di colore artistico e pure non mancano un ritmo e una luce immessi nelle cose descritte e nel loro movimento[195].

Gusto della prosa come strumento dell’intelligenza scientifica che si ritrova – con un di piú, non esterno, di sensibilità di ascendenza rousseauiana e apertura assai contenuta ad un piú rude pittoresco di paesaggio e di umanità primitiva e schietta – nella relazione di viaggio del padovano Alberto Fortis (1741-1803) (per il cui ritratto generale rimando alle pagine del Diaz): le lettere del Viaggio in Dalmazia (pubblicate a Venezia nel 1774), anch’esse prospettate soprattutto alla luce della ricerca di un naturalista attento anzitutto alla precisa e «utile» descrizione[196] di un paese nei suoi aspetti geografici, mineralogici, climatici, ma anche di un «philosophe» illuministico attento ai costumi dei popoli e rousseauianamente attratto da forme di virtú e di dignità umana ritrovate piú schiette e sicure ad un livello di civiltà diverso da quello dei popoli piú progrediti e illuminati[197].

Cosí, accanto alle pagine limpide che descrivono rocce, corsi di fiumi, pianure, ricavando dalla descrizione obbiettiva una certa poeticità delle cose[198] (con qualche squarcio piú risentito, ma non enfaticamente sentimentale, su alcuni «colpi d’occhio teatrali» e su alcuni spettacoli di orrore naturale come le cateratte della Cettina[199]), si raccolgono, senza profondo divario, quelle sui costumi dei Morlacchi, in cui la sobria simpatia per un popolo o ignorante o considerato barbaro, e di cui si verificano invece virtú e spontanea disposizione civile, porta nella calma e lucida prosa del Fortis movimenti piú intensi, ma mai enfatici e retorici, anche quando egli ammira e traduce un canto eroico-funebre intonato al gusto ossianesco, recepito dall’amico del Cesarotti entro una disposizione piú illuministico-primitivistica che veramente preromantica.

Piú vicine invece ai riflessi delle nuove tendenze del gusto preromantico e neoclassico e in una disposizione di relazione di viaggio piú aperta almeno al pittoresco o a canoni di figuratività in direzione neoclassica potranno infine ricordarsi le relazioni di viaggio del Rezzonico e dello Scrofani, il piú vicino, quest’ultimo, ma in forme tanto piú esterne, alla situazione piú chiaramente e intimamente preromantica del Viaggio sul Reno del Bertola, di cui parleremo, entro il profilo generale di questo scrittore, in un successivo paragrafo dedicato piú direttamente alla tendenza preromantica. Carlo Castone della Torre di Rezzonico (per il cui profilo generale rimando al paragrafo sul neoclassicismo) fu autore di numerosi e prolissi libri di viaggio, assai appesantiti da un interesse tra figurativo e piú precisamente archeologico-erudito che soprattutto predomina nel Viaggio di Napoli negli anni 1782 e 1790 e nel Viaggio della Sicilia e di Malta negli anni 1793 e 1724[200].

Migliore certo (anche nella piú viva spinta dell’interesse per le arti figurative[201], qui piú libera dall’eccessivo peso antiquario tanto accresciuto nelle altre ricordate relazioni di viaggio, cronologicamente successive) il Giornale del viaggio d’Inghilterra negli anni 1787 e 1788, che con maggiore disponibilità – anche se con una certa superficialità eclettica e dilettantesca – si apre insieme alla descrizione di oggetti artistici, di gallerie, musei, edifici, alla degustazione visiva (ché soprattutto il Rezzonico traduce i suoi vari interessi in un prevalente esercizio dei suoi occhi «ghiotti», dei suoi «cupidi occhi», come egli li chiama piú volte[202]) di paesaggi, rovine, giardini «artificiosamente naturali», e all’osservazione piú illuministica sui costumi e sul sistema inglese liberalcostituzionale che per lui, come per tanti altri intellettuali italiani, rimase esempio essenziale di libertà e di pacifica convivenza civile e contribuí poi al rifiuto delle forme estreme della rivoluzione francese nei suoi aspetti di «terrore» o di «tirannia» popolare.

Ma nell’insieme anche il Viaggio d’Inghilterra, pur interessante per una maggior ricchezza di componenti illuministiche e neoclassiche e per un maggior intervento del «pittoresco» paesistico (ancora assai distinguibile da un piú vero gusto sentimentale preromantico[203]), rimane ad un livello generale di freddezza e intimo distacco, lontano insieme dal fervore preromantico e dalla limpida oggettività degli scrittori-scienziati prima ricordati.

Piú mosso e risentito (anche se viceversa troppo declamatorio ed enfatico) e piú immesso nel processo di un gusto a tinte vistosamente preromantiche e neoclassiche, è infine il Viaggio in Grecia fatto nell’anno 1794-1795 di Saverio Scrofani (Modica 1756-Palermo,1835) il quale, soprattutto attivo negli studi economici e storici[204], riversò nelle lettere del suo Viaggio[205] la confusa esuberanza di uno spirito illuministico assai aggressivo, filantropico, antitirannico e anticlericale[206], acceso dall’impeto sentimentale rousseauiano e preromantico[207] e dalla nostalgia per un’antichità esemplare per bellezza e per plutarchiano eroismo[208], insieme avvalendosi – nella costruzione piuttosto ibrida del suo libro – delle acquisite lezioni di una vasta letteratura europea, fra il Viaggio sentimentale dello Sterne (già tradotto dallo Scrofani nel 1792), il Voyage du jeune Anacharsis del Barthélemy, le Ruines del Volney.

Da qui l’interesse storico, culturale e letterario del Viaggio che ci conduce ai limiti estremi del secolo in un impasto illuministico-preromantico e neoclassico molto vistoso, anche se, nei confronti già accennati con il Viaggio sul Reno del Bertola, la stessa vistosità e l’enfatica sottolineatura di temi e toni di quell’impasto denunciano i limiti intimi dell’operazione scrittoria dello Scrofani e della sua piú vistosa che intima significatività artistica e storica.

8. L’estetica e la poetica del sensismo e le posizioni linguistiche e letterarie degli illuministi del «Caffè»

Abbiamo piú volte indicato, sin da certi casi della stessa poesia dell’Arcadia matura (il caso soprattutto del Rolli), e poi nella zona medio-settecentesca (il caso dell’Algarotti e poi dello stesso Savioli), la componente sensistica che viene a dare alla poesia, nei suoi svolgimenti dentro e al di là dell’Arcadia, un particolare sapore di concretezza sensuosa, variamente collaborando con la componente della icasticità classicistica e con la componente figurativa e mossa del rococò: collaborazione che, variamente attuata in molti degli scrittori già esaminati, troverà il suo culmine nella poesia del Parini, specie nella fase che va dalle prime Odi alle prime parti del Giorno, incentrandosi nella piú viva spinta di una prospettiva combattiva e satirica di netto carattere illuministico.

Proprio nel caso alto del Parini meglio potrà concretamente mostrarsi il rapporto fra la poetica del sensismo, elaborata in idee e tensioni pragmatiche personali, e l’espressione poetica degli ideali illuministici nella personale-storica versione del riformatore-poeta. Ma qui occorrerà – seppure rapidamente – delineare la configurazione dell’estetica sensistica quale si venne precisando in Italia in coincidenza con la maturazione di un piú chiaro, consapevole e combattivo illuminismo specie nell’ambito del gruppo illuministico piú compatto e deciso: quello degli illuministi lombardi raccolti nella Società dei Pugni e intorno alla rivista «Il Caffè», per la cui storia generale non posso che rimandare alle pagine ad essa già dedicate dal Diaz.

Se la prospettiva essenziale del «Caffè» e dei suoi maggiori collaboratori, Beccaria, Pietro ed Alessandro Verri, è di carattere ideologico-civile (battaglia per un profondo rinnovamento della cultura, della vita, della società in collaborazione con i gruppi illuministici europei), essa investe e coinvolge insieme i problemi dell’estetica, della letteratura, della lingua, rompendo – in forme tanto piú decise e consequenziarie di quanto già avesse tentato di fare un Algarotti – con la cultura e la letteratura accademica e arcadica, insistendo vigorosamente sul primato – anche in letteratura – della sostanza delle «cose» rispetto ad ogni ozioso ed evasivo impegno nelle sole «parole», e perciò approfondendo, anche in sede teorica, il carattere della bellezza estetica come essenzialmente legato non ad astratte schematizzazioni metafisiche o a regole e canoni pedanteschi e retorici o a eclettiche combinazioni empiristico-intellettualistiche[209], ma a vive e schiette sensazioni rampollanti dalla vita e dal bisogno di piacere, essenziale nell’analisi sensistica dell’uomo e della sua natura, e sostegno fondamentale alla stessa utilità della letteratura sulla base di argomenti vivi, sentiti, interessanti per tutti gli uomini.

È su questa via che, usufruendo della lezione del sensismo francese ed inglese (da Locke a Condillac)[210], ma avvivandola con una piú forte esigenza di inserire, e insieme distinguere, il piacere estetico nella generale dinamica della psicologia e della sensibilità umana[211], si colloca la fertile meditazione estetica di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, soprattutto in due trattati, le Ricerche intorno alla natura dello stile (1770) del primo e il Discorso sull’indole del piacere e del dolore (1773) del secondo.

Nelle Ricerche (che svolgono un nucleo di idee già presenti nel Frammento sullo stile pubblicato nel «Caffè» nel 1765) spicca soprattutto – nella ricerca di nuove norme stilistiche basate sulle leggi della psicologia e dell’associazionismo sensistico – una forte tensione alla evidenza, perspicuità, energia delle immagini[212], dovute alle capacità dello scrittore di immettervi e di associarvi – ma con ordine e chiarezza, e senza eccesso e confusione[213] – sensazioni vive e numerose, collegabili coerentemente con le idee principali, specie nella forma degli «aggiunti» (aggettivi, «epiteti»). Sicché la mèta essenziale dello scrittore sarà quella di «imitare la natura col distinguere, avvicinare e far risaltare gli oggetti in quella maniera che producano il massimo d’impressione, il piú vivo, cioè il piú chiaro e il piú distinto possibile»[214], soprattutto per mezzo delle sensazioni «meno immediatamente suggerite dal nome» e che cosí ne complicano l’impressione piú complessa e stimolante. Come viene chiarito con un esempio, che tanto ci dice sui rapporti di tale estetica con la poetica di un Parini:

Noioso e intollerabile è il dire bianca neve, perché il nome di quella immediatamente risveglia la bianchezza, e non altro quasi risveglia; sarà però piú soffribile e meno ingrato il dire la fredda neve, sí perché l’aggiunto non è immediatamente suggerito dal nome, e non esclude la percezione della qualità dominante, che è la bianchezza, dal nome di neve sufficientemente indicata; ma ancora perché l’aggiunto di fredda indica necessariamente una viva sensazione appartenente a tutt’altro senso di quello della vista; onde due sensi sono occupati col dire fredda neve ed uno solo col dire bianca neve. Ma perché mai non siamo offesi, anzi piuttosto ci piace il dire il bianco fiocco di neve, spiacendoci nello stesso tempo bianca neve? Il primo nome di neve, in primo luogo, risveglia l’idea di un volume sufficientemente grande, onde la ripetizione di questa qualità dominante non fa che allungare l’uniformità di una tale sensazione; ma la voce di fiocco indica una minima particella, e però una piccola sensazione. L’aggiunto di bianchezza dunque non fa che ingrandire e fermare nella fantasia una qualità che le sarebbe sfuggita. In secondo luogo, la parola di fiocco suggerisce non cosí immediatamente la bianchezza, come la figura e la disposizione delle parti.[215]

Esempio che può insieme indicarci i limiti di sottigliezza razionalistica e quasi «geometrica» dell’analisi del Beccaria e la sua pertinenza ad una zona della sensibilità illuministica saldamente dominata dalla ragione e da un saggio, virtuoso edonismo, eppure non fino al punto che la stessa minuziosa analisi della psicologia e del meccanismo associazionistico non finisca per sommuovere piú oscuri e densi grovigli di sensibilità fra piacere e dolore[216] su quella via da sensismo a emozionalismo e sentimentalismo che piú viene approfondita da Pietro Verri nel suo ricordato Discorso sull’indole del piacere e del dolore. Questo è preceduto da anticipazioni assai vive in vari scritti pubblicati nel «Caffè», come quello sulla musica[217] o come quello sui «giudizi popolari» che, puntando sulla maggiore apertura comune della «strada del cuore», fa del popolo il «giudice competente del teatro e dell’eloquenza» perché «chi assiste ad una rappresentazione teatrale non ride riflettendo se debba piangere o ridere, ma bensí sentendo puramente l’impressione pietosa o vivace della favola»[218]. Anticipazioni che nel Discorso trovano una risoluzione piú spiegata entro una specie di fenomenologia del gusto che si lega alla lucida e acuta indagine sulla natura dell’uomo, mosso da piaceri e dolori, vivo nelle sensazioni-emozioni piacevoli o dolorose, ma in fine (poiché nella celebre discussione aperta dal Maupertuis sulla prevalenza delle somme dei piaceri e dei dolori il Verri conclude per la prevalenza della seconda, pur dando al suo pessimismo un carattere energetico ed attivo) scosso soprattutto dal dolore che «precede ogni piacere» (in quanto questo nasce sempre da una cessazione o diminuzione del dolore) ed è cosí «il principio motore dell’uomo»[219]. E ciò particolarmente vale nel campo dell’arte, in cui il piacere estetico nasce come fuga dal tedio e dall’insieme di quei «dolori innominati, dolori non forti, non decisi, ma che ci rendono addolorati, senza darci un’idea locale del dolore»[220], sicché

la grand’arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole sensazioni dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch’egli prosegua a essere occupato degli oggetti proposti, e terminatane l’azione, richiamando poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di piacevoli e sia contento di averle provate.[221]

Cosí il Verri alimentava la poetica sensistica di un piú forte valore delle sensazioni-emozioni – pur entro il limite di un largo circolo di fiducia illuministica e di un dolore che risulta esteticamente in piacere (con nuove consonanze con la poesia pariniana, serena, ma tutt’altro che priva di turbamenti e inquietudini della sensibilità) – e insieme postulava un apprezzamento positivo della varietà storica e psicologica dei gusti e il carattere di partecipazione attiva del pubblico di lettori e spettatori all’esperienza artistica e di attiva considerazione di tale carattere da parte dello stesso scrittore, e quindi il suo impegno antiornamentale in un’arte impressiva ed espressiva insieme, in una ricerca di utile dulci legato alla forza densa delle sensazioni-emozioni immesse nell’opera. Mentre l’insistenza sul carattere doloroso della sensibilità (solo piacevole in quanto vittoriosa sul dolore) ben indica come dal seno del sensismo illuministico potessero protendersi in avanti punte di inquietudine sentimentale atte a sorreggere lo sgorgo piú intenso della sensibilità e del sentimentalismo preromantico.

Ciò che – in un campo piú libero ed estroso di saggismo fra ironico e appassionato, tanto meno costruito e dedotto teoricamente – viene ancor piú sottolineato nella giovanile attività di Alessandro Verri quale collaboratore del «Caffè». In una scrittura giornalistica di singolare efficacia e lucidità[222], con un gusto di sorpresa brillante spinto fino al paradosso, il giovane Alessandro svolge sempre piú arditamente – nell’arco della sua collaborazione al «Caffè» – una tendenza illuministico-sensistica mossa a sorreggere con tanto fervore il valore degli «errori utili»[223], della maggiore sicurezza del sentimento rispetto all’intelletto[224], della forza dell’entusiasmo e del «cuore»[225], della libera ispirazione[226], che essa finisce per forzare i limiti di saggezza illuminata e di fede centrale nella progressiva forza della ragione e a condurre gli elementi sensistici fino alle soglie del piú inquieto e predominante sentimentalismo preromantico: come avverrà (e lo vedremo in un successivo paragrafo) ad Alessandro Verri nel suo piú tardo passaggio ai romanzi e alle Notti romane.

Proprio Alessandro Verri fu anche l’autore del celeberrimo articolo del «Caffè» Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, che ben rappresenta la posizione estremistica presa dagli illuministi del «Caffè» intorno alla questione della lingua, dibattuta anche nel primo Settecento in termini di maggiore prudenza e di moderata esigenza di libertà rispetto al piú rigido toscanesimo e trecentismo di tipo bembistico e cruscante ed ora (dopo gli avvii piú arditi e francesizzanti dell’Algarotti in parte riequilibrati nella sua piú tarda attività: come abbiamo visto accennando alla revisione linguistica del Neutonianismo) e ripresa ad un livello di radicalismo innovatore che si connette con le piú forti spinte illuministiche verso una libertà piena, verso una spregiudicata ammissione di parole straniere purché necessarie a indicare cose ed idee nuove, verso una netta subordinazione delle «parole» alle «cose», nonché verso quel patriottismo illuminato che intende superare la chiusura delle patrie «locali» e trovare in una lingua comune a tutta l’Italia lo strumento adatto a gareggiare con le altre lingue moderne, in moderna capacità di designare ed esprimere nuove idee e nuovi problemi.

Posizioni che il giovane Verri esponeva in forma drastica e quasi paradossale in una serie di dichiarazioni che puntano polemicamente contro ogni restrizione tradizionalistica e puristica e che giova qui riportare anche come esempio della prosa aggressiva e satirica di quello scrittore nella sua fase piú fervidamente innovatrice e illuministica:

Cum sit, che gli autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d’ogni laccio ingiusto che imporre si voglia all’onesta libertà de’ loro pensieri, e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di fare nelle forme solenne rinunzia alla pretesa purezza della toscana favella, e ciò per le seguenti ragioni.

1. Perché se Petrarca, se Dante, se Boccaccio, se Casa, e gli altri testi di lingua hanno avuta la facoltà d’inventar parole nuove e buone, cosí pretendiamo che tale libertà convenga ancora a noi: conciossiaché abbiamo due braccia, due gambe, un corpo, ed una testa fra due spalle com’eglino l’ebbero...

2. Perché, sino a che non sarà dimostrato, che una lingua sia giunta all’ultima sua perfezione, ella è un’ingiusta schiavitú il pretendere che non s’osi arricchirla, e migliorarla.

3. Perché nessuna legge ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca, ed a scrivere o parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi.

4. Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone, noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa, o del Crescimbeni, o del Villani, o di tant’altri, che non hanno mai pensato di erigersi in tiranni delle menti del decimo ottavo secolo, e che risorgendo sarebbero stupitissimi in ritrovarsi tanto celebri, buon grado la volontaria servitú di que’ mediocri ingegni che nelle opere piú grandi si scandalizzano di un c, o d’un t di piú o di meno, di un accento grave invece di un acuto. Intorno a che abbiamo preso in seria considerazione, che se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl’ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant’altri beni mai ci procacciò l’industria, e le meditazioni degli uomini; ed a proposito di carrozza egli è bene riflettere, che se le cognizioni umane dovessero stare nei limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici, sapremmo bensí che carrozza va scritta con due erre, ma andremmo tuttora a piedi.

5. Consideriamo ch’ella è cosa ragionevole, che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole, onde noi vogliamo prendere il buono quand’anche fosse ai confini dell’universo, e se dall’inda, o dall’americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch’esprimesse un’idea nostra, meglio che colla lingua italiana, noi lo adopereremo, sempre però con quel giudizio, che non muta a capriccio la lingua, ma l’arricchisce, e la fa migliore.

6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico Regno Ortografico, e conformeremo le sue leggi alla ragione dove ci parrà che sia inutile il replicare le consonanti o l’accentar le vocali, e tutte quelle regole che il capriccioso pedantismo ha introdotto, e consagrate, noi non le rispetteremo in modo alcuno. In oltre considerando noi che le cose utili a sapersi son molte, e che la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all’acquisto delle idee, ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto lontani d’arrossirne, che ne facciamo amende honorable avanti a tutti gli amatori de’ riboboli noiosissimi dell’infinitamente noioso Malmantile, i quali sparsi qua e là come gioielli nelle lombarde cicalate sono proprio il grottesco delle Belle Lettere.

7. Protestiamo che useremo ne’ fogli nostri di quella lingua che s’intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove.

A tali risoluzioni ci siamo noi indotti perché gelosissimi di quella poca libertà che rimane all’uomo socievole dopo tante leggi, tanti doveri, tante catene ond’è caricato; e se dobbiamo sotto pena dell’inesorabile ridicolo vestirci a mo’ degli altri, parlare ben spesso a mo’ degli altri, vivere a mo’ degli altri, far tante cose a mo’ degli altri, vogliamo, intendiamo, protestiamo di scrivere e pensare con tutta quella libertà, che non offende que’ principî che veneriamo...[227]

Queste posizioni di rottura estremistica valgono soprattutto appunto nella loro volontà di rottura rispetto ad una lingua impoverita dalla sua chiusa adesione ad una situazione storica lontana ed archeologica, e rispetto ad una letteratura oziosa di «parolai» e di retori. Perché poi – a parte le concrete correzioni interne da parte degli scrittori del «Caffè» ispirate dallo stesso loro sensismo attento alle idee «accessorie» e al dovere di suggestione sensoria ed emozionale dello stile (si pensi a quanto abbiamo detto del Beccaria e di Pietro Verri) – simili posizioni vengono sí accolte fondamentalmente nella loro sostanza antiretorica e anticruscante, ma variamente realizzate in una piú consapevole esigenza letteraria e in un piú equilibrato senso di rapporti fra modernità e tradizione, fra libertà, creatività di neologismi e «libertinaggio» esterofilo e francesizzante, come vedremo, sia nell’amore barettiano per la lingua «naturale», sia nelle posizioni linguistico-estetiche del Parini, sia nella piú concreta e viva posizione del Cesarotti, in una via che – in una larga discussione complicata dalle nuove tendenze preromantiche e neoclassiche – si prolungherà sin nel primo Ottocento nelle posizioni linguistiche montiane, opponendosi piú decisamente al riaffiorante e rigido purismo di un Cesari e riassorbendo in parte le esigenze piú concretamente «nazionali» che potevano avere una loro certa validità, se estratte dal piú chiuso nazionalismo di posizioni come quella del piemontese Francesco Galeani Napione (1748-1839). Il quale, se con il suo saggio Dell’uso e de’ pregi della lingua italiana (1791-1792) duramente combatteva persino la «giudiziosa libertà» del Cesarotti, come pericolosa concessione all’«imbarbarimento» «infranciosato» della lingua italiana, non poteva tuttavia accettare la pura e semplice posizione della Crusca, e spostava almeno al Cinquecento (e alla prosa scientifica del Seicento) l’esemplarità della lingua tradizionale e cercando comunque una lingua di «tutti» come la sola atta a diffondere «le scienze, il buon gusto e la coltura in ogni ordine di persone» (situazione linguistica che riconosceva proprio nella avversata nazione francese, piú generalmente colta «perché la lingua delle leggi, de’ libri, dell’istruzione non è diversa da quella che sa parlare il popolo eziandio piú abbietto»[228]).

Dalla lingua alla letteratura la posizione degli illuministi del «Caffè» si svolge sul fondamentale motivo del rinnovamento e della battaglia contro i pedanti, i «parolai», i letterati oziosi e accademici, i residui dell’Arcadia: posizioni che in parte concordano – almeno nella loro parte negativa – con quelle letterariamente piú scaltrite e complesse di un Bettinelli o di un Baretti, ma che, di nuovo, nella loro audacia piú estremistica rappresentano il fronte innovatore piú compatto, almeno nella fase di vita piú attiva e concorde del gruppo lombardo.

Lingua e letteratura sono saldamente collegate entro la polemica di «cose» contro «parole», come può ben far vedere il saggio di Pietro Verri Pensieri sullo spirito della letteratura d’Italia, in cui il vizio di fondo degli «aristotelici delle lettere» è fatto consistere insieme nella loro adorazione di opere ornamentali e vuote, nella loro preferenza nella «eleganza della rilegatura» formalistica rispetto alla sostanza delle opere[229], e nell’antico irrigidimento della lingua in modelli antiquati e ormai estranei agli interessi della cultura moderna:

Nell’Italia nostra però vi sono tuttavia gli Aristotelici delle lettere, come vi furono della filosofia, e sono quei tenaci adoratori delle parole, i quali fissano tutti i loro sguardi sul conio d’una moneta, senza mai valutare la bontà intrinseca del metallo; e corron dietro, e preferiscono nel loro commercio un pezzo d’inutile rame ben improntato e liscio a un pezzo d’oro perfettissimo, di cui l’impronto sia fatto con minor cura. Immergeteli in un mare di parole, sebben anche elleno non v’annunzino che idee inutili o volgarissime, ma sieno le parole ad una ad una trascelte e tutte insieme armoniosamente collocate ne’ loro periodi, sono essi al colmo della loro gioia. Mostrate loro una catena ben tessuta di ragionamenti utili, nuovi, ingegnosi, grandi ancora; se una voce, se un vocabolo, una sconciatura risuona al loro piccolissimo organo, ve la ributtano come cosa degna di nulla. Sono que’ tali come quel raccoglitore dei libri, il quale gli sceglieva sulla eleganza della rilegatura, rare volte osservandone il titolo, non che l’opera; e cosí preferiva le opere del celebre Gomez rilegate in vitello, alla storia del presidente De Thou legata in pergamena.

Questi inesorabili parolai sono il piú forte ostacolo, che incontrano anche al dí d’oggi in Italia i talenti, che sarebbero dalla natura altronde felicemente disposti per le lettere: essi co’ loro rigidi precetti impiccoliscono ed estinguono il genio de’ giovani nell’età appunto piú atta a svilupparsi; essi colle eterne loro dicerie intimoriscono talmente i loro disgraziati alunni, che in vece di sollevarsi con un felice ardimento, scrivendo, a quell’altezza, a cui giunger possono le loro forze, con mano tremante servilmente si piegano alla scrupolosa imitazione di chi fa testo di lingua; e quel pittore, il quale nelle prime opere sue, se fosse stato libero, avrebbe prodotte molte bellezze, e alcuni difetti, per migliorare poi sempre colla propria esperienza, s’agghiaccia colla pedanteria dell’imbecille e venerato suo maestro, e per troppo temere i difetti, non produce piú né difetti né bellezze proprie, ma oscure e dispregevoli copie non mai capaci di dar un nome all’autore.

Questa disgrazia dell’Italia è provenuta, cred’io, da ciò che nell’Italia, quasi appena dopo il risorgimento delle lettere, si pretese di aver fissata la lingua, e si pretese di piú di averla fissata con confini sí immobili, che la lingua italiana della scrittura avrebbe dovuto avere tutta la rigidezza delle lingue morte, perdendo quel naturale tornio, e quella pieghevolezza all’idee di ciascuno scrittore, che forma il primario genio delle lingue vive. Io non pretendo già che debba esser lecito ad un pulito e colto scrittore il far uso di que’ vocaboli, che sono talmente municipali d’una parte d’Italia, sí che nell’universale lingua italiana non sieno conosciuti; io non pretendo neppure che un pulito e colto scrittore ignori la grammatica della lingua in cui scrive, e macchi i suoi discorsi con frequenti errori, o barbarismi; nemmeno pretendo che sia lodevole un perfetto libertinaggio di lingua, introducendo senza ragione ne’ scritti delle frasi o de’ modi di dire ignobili, o forestieri al genio della lingua; io dico bensí, che il merito della lingua è un puro merito secondario, ch’egli è un puro abbellimento del discorso; né può essere mai risguardato come un merito primario, se non se da coloro, i quali non sanno far uso della miglior parte dell’uomo.[230]

Mentre un significativo esempio della letteratura che gli illuministi lombardi sostenevano, nella sua efficacia morale e espressiva-impressiva, può essere il giudizio elogiativo di Pietro Verri sulle commedie goldoniane, che si avvale pur significativamente della conferma del consenso del pubblico e particolarmente di quello non italiano (e soprattutto di quello del Voltaire) a indicare piú chiaramente il valore universale di una vera opera poetica e la consonanza con essa dello spirito europeo piú avanzato e illuminato:

Nelle commedie del signor Goldoni primieramente è posto per base un fondo di virtú vera, d’umanità, di benevolenza, d’amor del dovere, che riscalda gli animi di quella pura fiamma, che si comunica per tutto ove trovi esca, e che distingue l’uomo che chiamasi d’onore, dallo scioperato. Ivi s’insegna ai padri la beneficenza e l’esempio, ai figli il rispetto e l’amore, alle spose l’amor del marito e della famiglia, ai mariti la compiacenza e la condotta; ivi il vizio viene accompagnato sempre dalla piú universale e possente nemica, cioè l’infelicità; ivi la virtú provata ne’ cimenti anche piú rigidi riceve la ricompensa; in somma ivi stanno con nodo sí indissolubile unite la virtú al premio, e la dissolutezza alla pena, e sono con sí vivi e rari colori dipinte e l’una e l’altra, che v’è tutta l’arte per associare le idee di onesto e utile nelle menti umane con quel nodo, il quale se una volta al fine giungessimo a rassodare, sarebbero i due nomi di pazzo e di malvagio sinonimi nel linguaggio comune.

Io non dirò che le ottanta e piú commedie del signor Goldoni dilettino tutte; dirò che spirano tutte la virtú, e che la maggior parte di esse veramente diletta. Che dilettino me, ogni lettore deve accordarmelo, poiché parlo in materia in cui non v’è miglior giudice competente; che dilettino gli spettatori sembra cosa molto probabile, direi quasi delle probabilmente probabili, anzi delle probabilmente probabiliori, posto che vediamo il concorso ch’esse hanno avuto, ed hanno tuttavia per tutto ove si rappresentano.

Gli abitatori di Parigi, quelli cioè che sono avvezzi ogni giorno a vedere sui loro teatri le piú belle produzioni drammatiche, che gli uomini abbiano fatte, almeno dacché le memorie sono giunte a noi, essi ascoltano con applauso le commedie del valoroso nostro italiano. Nella Germania molte delle sue commedie si rappresentano tradotte ed applaudite. Pongasi tutto ciò da una parte della bilancia, pongasi dall’altra parte il piccol numero degli insensibili pedanti, e poi si giudichi, se in una cosa che piace cosí universalmente vi sia una ragione perché piaccia, oppure se sia un effetto senza cagione.

La vita degli uomini di genio è sempre stata il bersaglio delle frecce degli uomini mediocri, e Molière sarebbe stato da essi oppresso, se la protezione d’un gran monarca non lo avesse difeso. Sia detto a gloria nostra, gl’Italiani hanno fatto per quest’illustre paesano quello che avrebbe potuto fare un monarca, e la sensibilità della nazione al merito ha offerto in tributo all’eccellente comico l’allegria, le lagrime, e gli applausi de’ pieni teatri. Sin dalle montagne, ove ha scelto di passare i giorni della gloriosa sua vecchiaia il maestro vivente del teatro, il signor di Voltaire, vengono gli elogi al Ristoratore della commedia, al Liberatore dell’Italia dai Barbari, al vero Dipintore della Natura, signor Goldoni; ed in fatti il nostro comico per liberarci dalla vera barbarie, in cui erano le scene d’Italia, ha dovuto superare i primi ostacoli, cioè la difficoltà di avvezzare i commedianti a imparare a memoria, e la difficoltà di avvezzare gli uditori a gustare le cose imparate a memoria. Il nostro comico ha dovuto per gradi mostrarci la commedia, e molte ce ne ha mostrate, le quali, oso predirlo, si mireranno un giorno con gloria dell’Italia, come ora con diletto e istruzione.[231]

E si noti, pur nelle analogie, il maggiore spicco dato dalla pagina verriana al valore educativo-filantropico in senso illuministico, rispetto al moralismo piú blando del giudizio – già da noi ricordato – del Gozzi sul Goldoni.

Né si dimentichi che il Parini è citato piú volte nel «Caffè», in articoli di Alessandro Verri e del Secchi, come il «nostro Orazio», il «nuovo Giovenale», l’«eccellente poeta del Mattino»[232], anche se poi, nell’articolo di Pietro Verri Sul ridicolo[233], questi avvertiva nella descrizione del «giovin signore» una mancanza di piú forte stimolo al riso a causa di una certa indulgenza del poeta verso le forme eleganti del mondo nobiliare satireggiato. Ed anche questa critica è ben significativa per la piú forte carica di aggressività desiderata dal Verri sulla direzione satirica pariniana.

Non occorrerà qui – tanto è evidente anche nel giudizio verriano sul Parini[234] – sottolineare i pericoli di queste posizioni nello scambio di una vera poesia nutrita di «cose» e di prodotti letterari educativamente e combattivamente efficaci ma privi della forza mediatrice e veramente rinnovatrice della poesia, né i pericoli di una posizione linguistica che poté provocare non solo le reazioni di tradizionalisti retrogradi, ma anche i concreti dissensi di scrittori come un Parini, un Alfieri, e poi di un Foscolo e di un Leopardi. Ciò che qui conta è sottolineare il valore di rottura e di stimolo che esse rappresentarono nel momento storico in cui si esprimevano. Anche se poi occorrerà aggiungere che di fronte a queste posizioni solo nel periodo giacobino si prospetteranno – con molte ingenuità e rozzezza letteraria – ancor piú radicali proposte di letteratura popolare e democratica che possono giungere alla ipotesi di una specie di riforma democratica del linguaggio che escludesse persino aggettivi (come «regale», «nobile», ecc.) entrati nell’uso comune, ma pericolosi per l’idea reazionaria che ne era all’origine[235].

A queste esigenze fondamentali (che variamente si riflettono con minore consapevolezza e forza di rinnovamento in tanti scrittori del secondo Settecento in parte da noi già ricordati nel paragrafo sui memorialisti e viaggiatori) corrisponde la prosa degli illuministi militanti – e non solo di quelli del «Caffè» – con varianti e modulazioni personali che richiederebbero una descrizione ed interpretazione particolare, ma che in realtà qui mi è impossibile attuare data l’impostazione del presente volume diviso fra sezione ideologico-storica e sezione storico-letteraria: perché non posso evidentemente ritornare sui vari ritratti degli scrittori illuministi già presentati nella sezione del Diaz, e, non potendo quindi risalire ai caratteri della prosa di quegli scrittori dal riesame delle loro individuali, concrete, interne e intere ragioni ideali, morali, biografico-storiche, sarei costretto a svolgere un discorso generico, e di tipo formalistico-retorico per me assurdo.

Ché infatti – a parte la scarsa attendibilità di vecchie distinzioni fra il carattere della prosa pacata e serena degli illuministi settentrionali e quello piú fervido ed utopistico di quelli meridionali (tanto invece nei primi agiscono a vario livello elementi di entusiasmo e di sensibilità e tanto nei secondi è forte anche una concretezza e un’attenzione a condizioni e problemi locali) – già nel gruppo degli illuministi del «Caffè» si offrono prospettive varie e differenze di accento e di ritmo espressivo, nonché diversi svolgimenti stilistici anche nell’arco di maturazione di uno stesso pensatore-scrittore: come nel caso vistoso delle posizioni fervide e lucidamente entusiastiche del Beccaria del Dei delitti e delle pene che si traducono in una prosa decisa e sicura[236] – una sicurezza al culmine di una forte tensione ideale e sentimentale – e di quelle piú tecniche e particolareggiate delle Consulte caratterizzate da una prosa piú rigida e minuziosa. E si pensi almeno alle differenze fra il gusto scrittorio piú vario e raffinato di Alessandro e quello piú profondo e analitico-sintetico di Pietro Verri; fra la prosa poco elaborata del Carli e la sensibile e sentimentale finezza della prosa di un Biffi[237]. O, nel caso di alcuni dei maggiori illuministi meridionali, la differenza fra la prosa fervida e limpida del Filangieri e la matura, densa chiarezza didattica del Genovesi pur piú costruita entro una sintassi appoggiata a forme della prosa di tradizione[238]. Per non dire poi del caso del Galiani, la cui eccellente e brillante prosa italiana e francese è inseparabile dalle sue complesse radici nelle posizioni mentali e ideologiche di questo illuminista antienciclopedico, nell’attrito delle sue battaglie antiastratte all’interno dell’illuminismo e nelle pieghe sinuose del suo scetticismo e relativismo corrosivo e intollerante di ogni luogo comune[239]. Per non dire di quanto si potrebbe raccogliere, in un esame minuto e giustificato entro varie prospettive e capacità personali, di quello spirito illuminista caustico, umoristico-aggressivo, che risulta dagli epistolari e spesso anche dalle piú semplici battute di causerie brillante nella stessa aneddotica del tempo dei lumi. Si pensi, ad esempio, alle celebri battute del marchese Caracciolo, come quella del suo colloquio con il re d’Inghilterra che si congratulava con lui e col re di Napoli, di cui era ambasciatore, per la soppressione dell’ordine dei gesuiti e a cui egli rispose: «Il faut expérer, Sire, que comm’on a commencé par les Jésuites, on finira par les Capucins». E poiché il re si meravigliava di questa inclusione dei cappuccini, di cui gli si diceva che erano «des braves gens», il Caracciolo concluse: «C’est pour cela, Sire, que je l’ai mis les derniers»[240].

9. La critica fra illuminismo e preromanticismo: Bettinelli e Baretti

Anche al di fuori della piú compatta situazione degli illuministi del «Caffè», nel piú generale campo della critica e della storiografia letteraria italiana la fondamentale spinta dell’illuminismo anima, a diversi livelli di forza, di novità, di consapevolezza, nuove prospettive e nuovi impegni di studio e di interpretazione in relazione a nuove prese di coscienza della situazione letteraria e culturale contemporanea nei suoi rapporti con il passato; mentre crescenti aperture nel complesso passaggio dal denso e fertile terreno del sensismo verso il sentimentalismo preromantico complicano ed ampliano le istanze illuministico-sensistiche in una direzione che si può cogliere già nel Bettinelli e, meglio, nel Baretti, per farsi piú forte nel Cesarotti e nel raccordo, in lui, fra l’attività in campo critico e linguistico e la sua opera di traduttore dell’Ossian, delle quali si parlerà nel prossimo paragrafo.

Per quanto riguarda la vera e propria storiografia letteraria una piú decisa impronta illuministica è da riconoscere nell’opera storiografica di Carlo Denina (per il cui generale profilo rimando alle pagine a lui dedicate dal Diaz) che, autore piú tardi di un abbozzo della storia letteraria moderna prussiana (La Prusse littéraire sous Frédéric II, uscita a Berlino nel 1790-1791), si occupò della storia letteraria occidentale (Discorso sopra le vicende della letteratura, del 1760, ripreso ed ampliato in una seconda edizione del 1784), rompendo vecchi schemi precettistici e cercando – con chiaro spirito illuministico, anche se con una assai relativa capacità di approfondimento – di mettere in movimento le «vicende» della storia letteraria entro un nesso fra letteratura, cultura, condizioni storico-sentimentali e fin climatiche (secondo quell’attenzione all’influenza del clima che è tipica della storiografia illuministica europea), e nell’indagine delle cause che avrebbero mosso il diagramma di perfezione e decadenza delle letterature dall’epoca classica ai tempi moderni, con tutto un rilievo, variamente acuto e stimolante, di tali fasi, come quello – simile al piú vigoroso rilievo del Risorgimento bettinelliano – della fase di origine delle letterature moderne nel secolo undicesimo in rapporto con la nuova vita politica e sociale, secondo il principio generale che

in molti modi la sorte delle arti va unita a quella delle civili società, e le vicende della letteratura seguono le rivoluzioni delli stati, tanto nel crescere quanto nel declinare.[241]

E se nel caso dell’incompiuta, monumentale opera bibliografica di Giammaria Mazzuchelli (Brescia 1707-1765), Gli scrittori d’Italia, cioè notizie storiche e critiche intorno alle vite e agli scritti de’ letterati italiani (di cui uscirono sei volumi fino alla lettera B, fra il 1753 e il 1763) prevale nettamente l’impostazione erudita (essa stessa però, pur nella prosecuzione della erudizione del periodo arcadico-razionalistico, resa come piú lucida e puntuale dall’illuministico bisogno di verità e di conoscenza sicura, che stimolò un nuovo rilancio dell’erudizione e della filologia anche nel campo della storiografia letteraria[242]), l’esigenza di una storia letteraria ambiziosa di compiutezza e di scansione storica si rivela, in forme piú enciclopediche di «universalità della cultura», nella voluminosa opera del gesuita spagnolo italianizzato Giovanni Andrés, Dell’origine, de’ progressi e dello stato attuale di ogni letteratura (pubblicato a Parma fra il 1782 e il 1789), e non manca a suo modo di riflettersi nella stessa fondamentale Storia della letteratura italiana (pubblicata a Modena dal 1772 al 1782 e poi risultata corretta e ampliata dal 1787 al 1794) del bergamasco Girolamo Tiraboschi (1731-1794)[243]. Infatti, se questa storia rimane fondamentale e sempre utile per le notizie e l’accertamento delle «verità di fatto», in essa non manca una intenzione «filosofica» per quanto vaga e poco originale (e non certo in accordo con le prospettive ideologiche dell’illuminismo, da cui il Tiraboschi è separato dalle sue idee conservatrici e religiose[244]), che pur ha consonanze con istanze del pensiero storico illuministico sia nella volontà tiraboschiana di non perder di vista il legame fra letteratura e cultura (ché anzi la nozione di letteratura viene estesa – anche se in forme piuttosto materiali – a tutte le manifestazioni culturali), sia nell’adozione di un periodizzamento per secoli o gruppi di secoli entro il quale si seguono (con un compromesso pur significativo rispetto alla pura storia per generi) i «progressi e le vicende» di singoli generi e forme di letteratura, mentre negli stessi concreti giudizi – poco incisivi e originali – su singoli scrittori vengono assai spesso accolte le opinioni medie settecentesche fra Arcadia e illuminismo[245].

Ma entro l’attività critica del secondo Settecento ha un posto particolare, per la ricchezza dei suoi interessi ed interventi fra letteratura militante, meditazione estetico-pragmatica ed esercizio critico, la personalità complessa, e per molti aspetti ambigua, di Saverio Bettinelli.

Nato a Mantova nel 1718, il Bettinelli entrò nell’Ordine dei gesuiti e si dedicò all’insegnamento di rettorica in collegi gesuitici a Brescia, a Bologna, a Venezia e piú lungamente a Parma, nel collegio de’ Nobili, fra il 1752 e il 1759, con l’intervallo di alcuni viaggi in Italia, in Germania e in Francia (precettore dei principi di Hohenlohe) e ancora in Francia e a Ginevra per visitare Rousseau e Voltaire. Nel 1759 lasciò Parma (forse anche a causa di ordini della Compagnia di Gesú infastidita del clamore suscitato dalle Lettere virgiliane) e passò nella casa di esercizi spirituali di Avesa, presso Verona, e a Verona stessa, insegnante e predicatore, finché nel 1772 fu chiamato a Modena come prefetto della scuola e professore di eloquenza in quell’università, stabilendosi poi – in seguito allo scioglimento, nel 1773, dell’ordine dei gesuiti – a Mantova, dove rimase sino alla morte (1808), tranne un soggiorno a Verona dove si era rifugiato all’arrivo delle armate francesi, scrivendo contro Napoleone un poema, L’Europa punita, di cui fece poi una palinodia con i tre canti encomiastici Bonaparte in Italia, meritandosi cosí dal nuovo dominatore la nomina a membro dell’Istituto Nazionale e del Collegio elettorale dei dotti.

La ricchezza di rapporti, la molteplicità di interessi[246], di interventi, di opere pongono la singolare personalità di questo gesuita illuminista, letterato mondano, ma tutt’altro che privo di idee e di intuizioni vivaci ed acute, nel pieno sviluppo della letteratura e della cultura illuministica italiana, con impulsi audaci e iconoclastici che lo avvicinano alle posizioni innovatrici degli stessi uomini del «Caffè» (che lo stimarono ed apprezzarono come lo stimò ed apprezzò il Voltaire), con aperture al passaggio verso accentuazioni sentimentali-preromantiche, ma anche con remore, smussamenti e, infine, nella sua lunghissima vecchiaia, ripiegamenti piú chiari di tipo conservatore sia in sede ideologica che letteraria.

Remore, smussamenti e infine ripiegamenti che vanno percepiti e graduati in uno sviluppo complicato senza accettare interamente l’ipotesi di un preciso e costante intento di utilizzazione delle idee illuministiche o di nuove istanze preromantiche in vista di una politica della cultura di tipo nettamente gesuitico adeguantesi a nuove situazioni culturali per svuotarle e risolverle in una aggiornata prospettiva di dominio culturale cattolico – anticipo del neoguelfismo[247] –. Anche se potrà avvertirsi che le sue stesse audacie hanno un certo fondo di provvisorietà, un certo margine di ambiguità, e mancano della sicurezza ideologica che caratterizza l’illuminismo riformistico di un Parini o le posizioni piú aggressive degli uomini del «Caffè». Limiti che possono cogliersi nelle sue stesse opere piú impegnative da un punto di vista storico-culturale, quale è soprattutto il Risorgimento d’Italia (elaborato a lungo fino al 1772) che, importante nella prospettiva illuministica e voltairiana di una storia non solo politica, ma culturale (ed anzi incentrata nell’idea che i veri eroi della storia non sono i conquistatori, ma gli uomini che contribuiscono con la cultura, le scienze e le arti al progresso umano), e per il recupero – sulla base del materiale muratoriano – dell’importanza crescente dell’epoca medievale dopo il Mille quando ebbe luogo la rinascita italiana e l’inizio del suo contributo alla civiltà europea culminata nel Cinquecento, non può non mostrare insieme e l’indubbia fertilità di tanti motivi e impostazioni bettinelliane[248] e, ripeto, i limiti generali della costruzione storica del Bettinelli, nonché l’affiorare di una direzione di dispotismo illuminato che si associa all’idea di una rinnovata missione della Roma papale che viene a limitare, con il suo peso, le piú aperte simpatie dimostrate dal Bettinelli per le repubbliche democratiche dei comuni italiani medievali e la stessa simpatia piú storicamente congeniale per gli Stati assoluti di tipo chiaramente illuministico.

Cosí nella stessa sua produzione e attività di letterato e di critico militante potrà avvertirsi, al fondo, una certa oscillazione fra motivazioni piú serie e sicure e motivazioni mondane e alla moda, e la mancanza – fra tanta vivacità di intelligenza e ricchezza di interessi – di un accento personalmente vigoroso quale è quello che caratterizza invece un Baretti.

E tuttavia tale costatazione non toglie che si debba ben riconoscere al Bettinelli, oltreché la capacità di offrire (specie all’altezza dell’Entusiasmo) nuove intuizioni sulla poesia e tanti vivi esempi di prosa intelligente e raffinata, una ineliminabile funzione piú volte sollecitatrice e collaboratrice del rinnovamento letterario e culturale del secondo Settecento, nella rottura di vecchi schemi accademici e di concezioni letterarie puramente tradizionalistiche.

Ciò avvenne anzitutto – dopo la pubblicazione nel ’51 di un poemetto satirico, Le Raccolte, che metteva in ridicolo il persistente uso arcadico di raccolte di poesie di vari autori su argomento occasionale e dunque un tipo di poesia senza ragioni concrete ed intime – nella clamorosa vicenda della pubblicazione, nel 1757 (con data 1758), dei Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori accompagnati dalle Lettere virgiliane, con cui il Bettinelli prendeva posizione – non senza un certo gusto scandalistico – a favore di una poesia «moderna» di cui le epistole in sciolti del Frugoni, dell’Algarotti e del Bettinelli stesso, riportate nel volume, sarebbero stati significativi esempi per l’uso dell’endecasillabo sciolto: perché «la rima troppo avvilita, la rese volgare» e perché lo sciolto adegua tanto meglio il movimento schietto del discorso poetico, e tanto meglio dipinge «gli oggetti in modo dilicato insieme, e forte, che paia averli davanti agli occhi», non tradendo «né la verità né la decenza», adattandosi «al piacere e al consenso di tutti» e da tutti riuscendo «inteso», tutti lasciando «dilettati e convinti»[249]. Giustificazione del verso sciolto che rimanda ad una poetica illuministica in cui l’utile dulci doveva soprattutto servire alla divulgazione combattiva delle nuove verità scientifiche e filosofiche, come avveniva nel componimento del Bettinelli sulla filosofia e la poesia dedicato all’Algarotti e imperniato sul rimprovero all’Italia perché non ha accettato pienamente la nuova filosofia sensistica e newtoniana, a causa della sua pigrizia e della sua arretratezza culturale.

Ed è appunto contro l’arretratezza culturale e letteraria, contro l’oziosa e vacua continuazione della rimeria arcadica, contro il dominio di vecchie precettistiche e dell’antiquato culto cruscante per la vecchia lingua trecentesca, contro la pedissequa imitazione e il culto fanatico di Dante e di Petrarca che il Bettinelli conduce la battaglia rinnovatrice e «moderna» delle Lettere virgiliane, troppo spesso ridotta – dai contemporanei e piú tardi – al solo aspetto piú clamoroso dell’attacco illuministico e razionalistico alla Divina Commedia, trovata (da Virgilio e da altri antichi che si immaginano dialoganti in Eliso: e dunque alla luce di un illuminismo classicistico) poema oscuro, irregolare, di contenuto superstizioso e scolastico, prodotto di tempi barbari e rozzi, bisognoso di una drastica riduzione ad un insieme di «tre o quattro canti veramente poetici».

In realtà la battaglia del Bettinelli va intesa in tutta la sua intera prospettiva polemica – poi sviluppata nelle successive Lettere inglesi[250] che portava alle conclusioni di una condanna definitiva della vecchia letteratura arcadico-cruscante[251] e che soprattutto mirava a colpire, piú ancora che Dante (e Petrarca), i loro moderni imitatori e infatuati lodatori, e che – mentre va rapportata all’estremismo di una posizione polemica fino al paradosso – non manca di far affiorare entro le stesse dure negazioni di carattere illuministico e razionalistico un senso assai vivo della nucleare forza poetica di Dante che – privo di «buon gusto» a causa del tempo medievale, illuministicamente condannato come epoca di ignoranza e di barbarie – «grande ebbe l’anima, e l’ebbe sublime»[252] e nei canti o passi piú appassionati che il Bettinelli trasceglie (con un criterio fra sensismo e avvii del suo sviluppo preromantico) appare esemplare, intraducibile per la sua forza originale e resistente malgrado tutti i difetti storici del poema nel suo insieme. Sí che l’esaltazione che il Bettinelli fa del canto di Ugolino[253] e la stessa prospettiva in cui essa è fatta (verso una poesia forte e appassionata, robusta e assolutamente originale) risulta in realtà assai stimolante e nuova, assai recuperabile storicamente come lontano appoggio all’amore che il romanticismo porterà a Dante soprattutto per la poesia appassionata e realistica dell’Inferno.

Su questa via il momento di maggiore apertura del Bettinelli ad istanze e fermenti che superano il piú preciso ambito illuministico in contrasto con le posizioni piú duramente razionalistiche e utilitaristiche e in una direzione incerta e compromessa, ma pur non priva di spunti stimolanti per il lento e confuso passaggio da sensismo a sentimentalismo, da classicismo illuministico a preromanticismo, è certo quello rappresentato dal saggio del 1769, Dell’entusiasmo delle belle arti, che si proponeva non tanto di definire l’entusiasmo[254] quanto di «farlo sentire» e di «scuoter l’anima» il piú possibile, ricorrendo, come a «veri autori del libro», soprattutto alla «natura» e al «sentimento»[255] e rivendicando il potere della sensibilità e dell’immaginazione poetica minacciati dal tirannico dominio della ragione, dalle pretese del «severo geometra» e del «freddo e secco analitico» di ridurre la poesia entro i confini della scienza e della filosofia[256].

E se nella posizione complicata del Bettinelli non manca il richiamo al «buon gusto» come ordinatore della esuberanza fantastico-sentimentale (come non mancano componenti di gusto neoclassico, specie in molte valutazioni sulle arti figurative), nelle parti del libro che piú direttamente puntano sul primato essenziale dell’«affetto», della «passione» di quello che l’autore definisce «entusiasmo sensibile» o che distinguono «genj ed ingegni», «bello» e «sublime», piú si addensano affermazioni ed esemplificazioni tese a rilevare la superiorità del cuore, del genio, del sublime, sull’ingegno, sul talento, sulla sapienza artistica:

Omero, Dante, Ariosto, Milton, Cornelio[257], tra’ poeti sembrano fare una classe primaria, e chi venne dopo tra maggior lume e coltura restar sembra di sotto in questa parte, come Virgilio, Petrarca, Tasso, Pope e Racine, i quali nel bello sono superiori. Quelli mancano nel disegno, nel decoro, nel costume, in che questi sono maestri; ma quelli il son nel sublime, che sta soprattutto. La scarsezza in lor di parole, o di frasi è compensata dalla lor forza, ogniuna mi dice qualche cosa, mi dipinge, e presenta un’immagine, mi discopre una verità, e quel rozzo, e semplice stesso ingrandisce le cose; e me medesimo, mi occupa tutto e mi sottomette, né ho tempo di riflettere, se vi manca il metodo, l’armonia, la decenza. Tutto è cosa in quello stile, e le parole medesime sono cose, perché fan colpo, ed effetto piú forte. Laddove noi coll’arte, e colle parole spesso inutili, e al piú sonore, troppo affollate, e però oscure, co’ periodi contornati, e rotondi, e quindi sterili, e fiacchi, con sinonimi, e con epiteti di puro lusso, noi cosí togliamo la forza, la maestà, la grandezza al parlare, come al dipigner le tolgono i finti contorni, l’ombre sbattute, le mezze tinte, e le tenere carni, e gli studiati panneggiamenti, e il colorir delicato, senza cui Michelangelo giunse ad una grandissima sublimità.[258]

Cosí facendo il Bettinelli appoggiava di fatto, anche se con equivoci e forti incertezze, una nozione e pratica di poesia che, pur sorretta dalle punte piú intense della poetica sensistica, si veniva aprendo ai principi del sentimentalismo preromantico, cui lo stesso scrittore si avvicinava, con una sensiblerie intenerita e larmoyante, anche in certe lettere-novelle, come quella di Catina e dei suoi amori per un povero pastore, tutte piene di «deliri del cuore», che si inseriscono nel contesto galante e conversevole di quel Carteggio fra due amiche scritto a penna corrente che piú in generale appartiene a quel genere di brillanti causeries cui tanto inclinava, in una delle direzioni della sua disponibilità intellettuale e scrittoria, il gusto conversevole e mondano dell’abate settecentesco[259].

In realtà si trattava di un’apertura che il Bettinelli venne poi progressivamente riducendo e chiudendo nella zona piú tarda della sua lunghissima attività, sia opponendosi al «tragico furibondo ed orrendo» di certi testi preromantici stranieri che finiscono per «far paura» al lettore «invece di toccarne il cuore»[260] – cercando dunque di non perdere la base del sentimento, ma restringendolo alla luce di una misura meglio ritrovata nelle pagine piú appassionate di Virgilio o di altri classici adatti al recupero sentimentalistico –, sia ancor piú, e piú tardi, acremente polemizzando con gli stessi diritti del «genio»[261] da lui tanto appoggiati nel momento dell’Entusiasmo e definitivamente arroccandosi in una posizione tradizionalistica e reazionaria, non solo da un punto di vista letterario, di fronte ai nuovi prodotti poetici, fossero essi L’Ortis o i Sepolcri del Foscolo o, prima, le tragedie dell’Alfieri contro cui egli scrisse (in una lunga lettera del 1790 al De Giovanni[262]) un vero e proprio saggio critico-polemico – a suo modo acuto e sottile[263] e insieme maligno e molto gesuitico nell’impasto di ironia e di falsa umiltà, di generose ammissioni iniziali – stroncandone insieme la poesia e la radice politica di questa (ché l’Alfieri appare a lui «un politico che vuol fare il poeta», «un filosofo non un poeta») e opponendo alla concezione impegnata del letterato alfieriano quella evasiva e puramente letteraria a cui il Bettinelli approdava dopo le sue irrequiete e vivacissime puntate in direzione illuministico-preromantica:

I grandi poeti sono pacifici, non vivono d’odio, aborrono il sangue, e non fan mai congiure né alla corte, né a tavolino, ove talora le verseggiano felicemente. Saranno anime basse, cuori timidi, gente da nulla pei moderni eroi, ma fan de’ poemi e delle tragedie immortali e veramente poetiche, mentre quelle anime grandi, que’ cuori indipendenti, quella gente odiatrice de’ dominii per dominare col nome di libertà, pronunceranno delle sentenze, vibreranno gran pensieri, slanceranno lampi e fulmini di passioni tetre, cupe con frasi energiche, con versi sforzati e odiosi, ma non poetici.[264]

D’altra parte, anche in questi scritti tardi è innegabile la lucidità della prosa bettinelliana che – pur nelle sue varie direzioni e nei suoi vari toni e nei suoi stessi pericoli di dispersività e leggerezza – supera assai le tanto piú modeste capacità dello scrittore in versi e trova alcune delle sue rese piú fuse e sicure non solo nelle forme piú accese dei suoi scritti piú impegnativi, ma anche nella direzione piú libera e spregiudicata, e spesso caricaturale e ironica, della sua prosa di corrispondenza (o di saggio in forma di corrispondenza). Basti pensare in proposito almeno a certi deliziosi ritratti di Voltaire con il suo berretto di velluto e il suo viso intelligentissimo e scimmiesco, o colto mentre zappa il suo campicello o espone con arguta ghiottoneria i suoi gusti culinari[265].

Tanto piú vigorosa e sanguigna, anche se tutt’altro che priva di remore e di contraddizioni, si afferma nella critica del secondo Settecento e nel passaggio fra illuminismo e preromanticismo la personalità di Giuseppe Baretti, suggestiva e singolare sin nelle vicende biografiche movimentate, soprattutto a causa del suo carattere irrequieto e polemico, risentito e intollerante.

Nato a Torino il 25 aprile del 1719, entrò presto in contrasto col padre e si recò, a sedici anni, a Guastalla, presso uno zio, associando il mestiere di scrivano di un commerciante con i primi studi letterari proseguiti sotto la guida del Tagliazucchi, a Torino (1737) e dal 1738 in poi a Venezia e a Milano dove soggiornò a lungo (a parte un periodo passato a Cuneo come economo delle fortificazioni e a Torino, dove invano sperò di succedere nella cattedra al Tagliazucchi) legandosi all’ambiente letterario di quelle due città e alle loro Accademie (dei Trasformati a Milano, dei Granelleschi a Venezia).

Viste le difficoltà di una sistemazione a Torino e verificato il contrasto insanabile fra il suo carattere e la chiusa mentalità del suo paese natale, il Baretti cercò migliore fortuna e piú propizio clima culturale in Inghilterra, a Londra, dove rimase dal 1751 al 1760, proseguendovi e approfondendovi – in un’esperienza essenziale di vita e di cultura e nell’amicizia con letterati e intellettuali inglesi, e soprattutto con Samuel Johnson, da lui sempre onorato come suo maestro e massimo critico del suo tempo – quel passaggio da una formazione piú strettamente letteraria e linguistica – rimasta pure fondamentale per le sue risorse di scrittore e di critico, ma anche per certo suo persistente limite tradizionalistico e bernesco – ad una prospettiva letteraria e critica piú vigorosa, piú nutrita di esperienze europee e di nuovi interessi culturali ed empiristico-filosofici, che è alla base delle sue nuove polemiche (come quella del ’53 contro il Voltaire e in difesa della poesia italiana) e della sua massima impresa giornalistico-letteraria, la «Frusta letteraria», cui egli si accinse dopo essere ritornato in Italia nel 1760 dopo un lungo viaggio attraverso il Portogallo e la Spagna, descritto nelle sue Lettere familiari.

Ma la «Frusta letteraria» (iniziata a Venezia nel 1763 con la falsa indicazione di Rovereto) procurò al Baretti, con la violenza dei suoi attacchi giusti e ingiusti, tante e tali inimicizie (fra cui quella della corte di Napoli per il suo attacco agli scavi di Ercolano) che il governo di Venezia (sotto il pretesto del suo giudizio severo sul Bembo «patrizio veneziano») proibí la continuazione della rivista. E il Baretti, dopo aver tentato per qualche mese di farla continuare ad Ancona, nei cui pressi si era rifugiato sotto falso nome, decise di ritornare a Londra, dove, dal 1766 alla morte (5 maggio 1789), stabilmente visse – a parte un viaggio in Spagna nel ’68-69 e un ultimo viaggio in Italia nel ’70-71 – proseguendo piú liberamente il suo mestiere di scrittore e di maestro di lingua e di lettere, con varie opere in italiano, in francese e in inglese[266], ben inserito nell’ambiente letterario inglese che gli dette concrete prove di amicizia e di stima, come quando, nel 1769, egli venne processato per l’uccisione di un uomo che lo aveva provocato ed aggredito e alla sua assoluzione contribuirono le testimonianze di uomini come il Johnson, il Burke, il Garrick, il Goldsmith, e come quando riscosse pure appoggi e simpatie in occasione di alcune delle sue ultime e piú personalistiche polemiche, come quella con la signora Thrale-Piozzi, editrice di lettere del Johnson.

La violenta tendenza polemica e combattiva è certo uno dei caratteri peculiari del carattere del Baretti, uomo e scrittore, cosí come peculiari componenti della sua personalità e della sua attività letteraria sono un robusto buon senso, un innegabile coraggio anticonformistico, un gusto corposo e concreto che fanno facile spicco sulla piú generale e media prudenza e moderazione di tanti altri letterati italiani del suo tempo e – pur con tanta diversità di peso ideologico – lo avvicinano semmai alle forme piú audaci degli illuministi piú combattivi. Né del resto, nel suo miscuglio di istanze rinnovatrici, di aperture addirittura preromantiche, di risentimenti estrosi e bizzarri, di spirito di contraddizione e di vere remore conservatrici in sede morale e ideologica, manca un fondamentale raccordo del Baretti con la civiltà illuministica, con il suo utilitarismo civile, con la sua avversione per le frivole mode e per la letteratura oziosa «archeologica» e accademica, con la valorizzazione stessa dello scrittore borghese che vive dell’opera della sua penna e si sente doverosamente impegnato in una battaglia letteraria nei suoi nessi culturali, morali e civili.

A tale piú chiara e matura posizione di battaglia per un rinnovamento della letteratura il Baretti giunse piuttosto tardi, dopo un lungo e piú giovanile periodo in cui egli si applicò accanitamente allo studio della «buona» lingua e dei «buoni» autori e ad un esercizio abbondante di rime burlesche e satiriche soprattutto in stile «bernesco» (di cui pubblicò una scelta nel 1750 col titolo di Piacevoli poesie, ristampate e ampliate nel 1764 e ancora successivamente ampliate, ma poi non pubblicate) in cui si può cogliere l’aspetto piú fastidiosamente letterario e «bizzarro» del Baretti, anche se in quel materiale non mancano mosse piú vivaci di satira e di impegno e amarezza morale[267] ed elementi di linguaggio piú risentito, fra riprese della vasta esperienza di scrittori italiani da Dante al Berni, al Pulci, agli eroicomici di fine Seicento e primo Settecento e piú personali risposte a proprie esigenze di polemica e di attrito con la realtà.

Ma certo il legame con il periodo maturo del Baretti può meglio ritrovarsi – entro questa fase piú preparatoria – nelle prime prose polemiche (quella ricordata contro lo Schiavo), nella prefazione alle tragedie del Corneille (del 1747-1748), e poi – passato a Londra – nella Dissertation upon the Italian poetry in which are interspersed some remarks on mr. Voltaire’s «Essay on the epic poets» (1753) e nella History of the Italian tongue (1757), in cui meglio si avvertono insieme la progressiva presa di coscienza critica circa gli ideali poetici del Baretti e il maturarsi del suo gusto di prosatore sarcastico, corposo, incline alla caricatura e alla satira e ad effetti sempre piú personali e nuovi di violento e gustoso uso del vasto materiale linguistico cosí fortemente accumulato ed assimilato nei suoi studi giovanili. A questa progressiva maturazione del critico e dello scrittore fu essenziale l’esperienza inglese, sia nel senso piú generale di esperienza di una vita intensa, attiva, libera, sia in quello piú particolare di esperienza di una cultura, letteratura e critica ispirata ad un illuminismo fortemente empiristico e concreto che nell’amico e «maestro» del Baretti, il Johnson, promuoveva un tipo di critica antipedantesca, antiregolistica, fondata sull’amore di una poesia fatta di «cose naturali, cose belle, cose grandi, cose molte», dette «con semplicità, con forza, con entusiasmo», come poi dirà in prima persona il Baretti nella «Frusta letteraria»[268], appoggiata a una letteratura antica e recente che al Baretti venne apparendo, per la sua sostanza morale filosofica e sentimentale, piú stimolante e interessante di quel tipo di poesia italiana che precedentemente aveva piú amato[269].

Da quell’esperienza in genere e dalla vicinanza al Johnson il Baretti ricavò una spinta e un appoggio fondamentale (senza con ciò scadere a semplice e pedissequo ripetitore di giudizi e principi del Johnson) alla sua maturata impostazione critica, alla sua piú generale impostazione culturale e morale, alla sua stessa prosa di scrittore che proprio al termine del primo soggiorno inglese dà il suo primo vero risultato letterario nelle Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (1762-1763), descriventi il suo viaggio di ritorno in patria dall’Inghilterra attraverso il Portogallo e la Spagna.

In queste Lettere potrà sí ritrovarsi la traccia, spesso pesante, della sua educazione piú retorica e bernesca (sia, da una parte, nella troppo costruita descrizione del terremoto di Lisbona, sia, dall’altra, in certe narrazioni di vicende curiose e di contrattempi del viaggio, intonate ad un brio troppo bernesco e non privo di una pedanteria «alla rovescia», alla fine assai accademica), ma essa viene centralmente superata da una spinta e da una forza descrittiva fresca e sciolta, nutrita di un vivo, umano interesse piú che per paesaggi[270] e per precise condizioni politiche e sociali, per la vita e i caratteri originali di persone umane, còlte, con forte gusto vitale, nel loro movimento, nel loro abbandono a moti di letizia, di spontaneità naturale, di grazia e gentilezza non artificiosa.

Sarà cosí la deliziosa presentazione di compagni di viaggio nella corriera inglese (gli uomini con i loro «sei occhi fitti in tre bei nasi di due giovinette e d’una vecchia lor zia... La vecchia era una di quelle cordiali matrone fatte all’antica, piena di semplicità e di letizia. La buona donna non fece altro in tutto il viaggio che stimolare le nipoti a cantare e a raccontar novelle a’ loro mascolini compagni; e le nipoti compiacquero molto la zia, usando gentilmente familiarità con noi, e ridendo e motteggiando con molto modesta franchezza»[271]); o sarà la scena vivace, fra lucida e trasognata, del ballo ad Elvas, di ragazze portoghesi e spagnole (al centro la bella Catalina) e di giovanotti malvestiti e prima dormiglioni e pigramente sdraiati in terra, e poi, scossi dal ritmo del «fandango» e della «zeghidiglia», scattati su a ballare con straordinaria energia e grazia[272]; o quella della festa, a Meascaras, cui partecipano «todos los muchachos y todas las muchachas» che gridano il loro nome, un evviva al re di Spagna, e fanno un salto per ricevere le monetine dispensate loro dal Baretti[273]. Pagine tutte animate da un brio e da una schietta simpatia vitale ed umana che pongono certo queste Lettere familiari sul piano piú alto della prosa di secondo Settecento[274].

Né questi risultati dello scrittore «in proprio», che si è provato felicemente in una prosa schietta e sapiente, alimentata dal possesso (spinto ai margini fino al virtuosismo, ma centralmente ben sicuro ed equilibrato) della lingua, nutrita di «cose» quotidiane e pur poetiche, mancano di avere un rapporto con l’impresa della «Frusta letteraria», sia come appoggio concreto e personale alla proposta delle possibilità di una nuova letteratura, sia come piú fresca humus della stessa prosa irruente, polemica, sarcastica del giornale letterario con cui il Baretti volle dare battaglia in Italia ai vari nemici, vecchi e nuovi, di una nuova letteratura con cui gli italiani potessero gareggiare – senza inutili borie e chiusure campanilistiche – con le letterature europee contemporanee[275]. E infatti la figura sbozzata e muscolosa di Aristarco Scannabue (il personaggio genialmente inventato come autore della «Frusta», personificazione accentuata, ma ben congeniale, del proprio autoritratto) campeggia nella rivista come concreto e sanguigno simbolo di un vecchio italiano «vegeto e robusto», amante della letteratura, ma non letterato accademico e «da tavolino», ed anzi soldato carico di esperienze di vita, accumulate attraverso viaggi e battaglie, dotato di sano, istintivo buon senso e giudizio, conoscitore della cultura e della letteratura europea, intollerante e intransigente di fronte al torpore, alla pigrizia intellettuale e morale, all’oziosa evasività, allo spirito pedantesco e imitatorio dei letterati italiani tradizionalisti e campanilistici, ignari delle svolte fondamentali e dei valori raggiunti dalle letterature moderne occidentali, o viceversa di quelli che si volgevano avventatamente alle mode esterofile perdendo di vista ogni rapporto con le condizioni del proprio paese e con la sua piú viva e grande tradizione, nemico accanito di ogni boria o infatuazione sia campanilistica sia astrattamente cosmopolitica.

Cosí Aristarco Scannabue si potrà scegliere come interlocutore ingenuo, primo oggetto delle sue iraconde sfuriate, quel Don Petronio Zamberlucco che da una parte legge quanto la letteratura italiana gli offre attualmente, dall’altra si dimostra sciocco ammiratore e sostenitore del primato o almeno della parità di quella e della cultura italiana rispetto a quelle straniere.

Perciò il primo obiettivo della «Frusta» è quello della «vigliacca Italia», dei suoi costumi arretrati o delle sue frivole mode francesizzanti, dei «vigliacchi patriotti» nemici delle «cose belle ed utili», in nome di un patriottismo capace di autocritica e affiatato con una nozione della cultura e della letteratura che, pur nelle remore religiose e conservatrici-moralistiche del Baretti, è tesa alla «sostanza», alla esperienza, al rinnovamento letterario-morale e al nesso di utilità e bellezza. Nozione che, rafforzata dall’esperienza inglese, porta il Baretti a combattere l’arretratezza accademica e pedantesca, e insieme la «licenza», l’immoralità, la frivolezza e l’astrattezza che egli credeva di cogliere nei novatori piú legati all’enciclopedismo francese e al suo «filosofismo», privo di concretezza e di autentico senso del bello e del concreto. Da qui le sue celebri battaglie, sia contro l’Arcadia e i suoi residui persistenti in un ozioso verseggiare senza sostanza, sia contro il pedantismo cruscante e l’antiquato boccaccismo di molta prosa moderna italiana, sia contro i dispregiatori delle ragioni della poesia e della buona lingua identificati polemicamente (e per polemica letteraria e ideologica insieme) negli scrittori del «Caffè», sia (fra ragioni moralistiche e ragioni letterarie) contro il Goldoni, accusato insieme di provincialismo, di debolezza morale, di sciatteria linguistica e stilistica.

Al centro di queste battaglie, variamente giuste o azzardate, variamente sostenute e criticamente dedotte o piú animate dall’istintivo gusto di contraddizione e di feroce caricatura del Baretti (nonché colorate a volte dai forti residui della sua educazione bernesca e di preoccupazioni spesso sin troppo letterarie e tradizionali, come l’avversione per i versi sciolti e senza rima), affiorano indubbiamente un forte istinto polemico antipedantesco e anticonvenzionale, una profonda antipatia per ogni conformismo tradizionalistico o di moda (sicché, anche quando il Baretti è in chiaro dissenso con i motivi piú progressivi del suo tempo, la sua posizione combattiva non manca di una sua novità di accento personale, di vigorosa novità di costume letterario e critico), un robusto – anche se spesso confuso e mal applicato – sentimento della poesia, che può cadere da un lato in rozzo contenutismo e dall’altro in valorizzazioni eccessive di aspetti tecnici della poesia (il caso ricordato della difesa della rima), ma che violentemente prefigura ed anticipa piú motivate e storiche nozioni della poesia, specie nella zona del romanticismo italiano «1816».

Sia che egli vagheggi la prosa autentica, antipedantesca (o cosí da lui accentuata) dell’amatissimo Cellini, sia che sostenga la libera e originale forza sentimentale-fantastica dell’Ariosto e dello Shakespeare, il Baretti sostiene – nei suoi modi critici piú violenti che minutamente ragionati – un senso della poesia e del giudizio critico insieme, che lo porta assai piú in avanti rispetto a piú prudenti nozioni di «buon gusto» ed «estro».

Basti ricordare in proposito il connesso rilievo della comprensione congeniale e, a suo modo, poetica, della poesia da parte di un critico e della nozione stessa di poesia geniale, scaturita dalle forze del sentimento e della ragione e non dall’osservanza delle «regole» e del «buon gusto», quale si può cogliere in un passo della «Frusta», in una lettera immaginaria ad «una signora inglese» circa le opinioni critiche dello Shaftesbury che, secondo il Baretti, ha errato quando ha detto che senza esser poeta, anzi senza aver estro poetico, si possa rettamente giudicare di poesia:

Il Muratori, uomo dottissimo, in quel suo libro Della perfetta poesia, la sbagliò in molti giudizi che diede dei nostri poeti: lodò molte cose fredde, puerili, piccole; biasimò alcune bellissime bellezze poetiche; e se ne lasciò passare dinanzi agli occhi alcune di quelle che rapiscono, che incantano, che infiammano un poeta naturale, e non ne fece conto nessuno. Due ottave l’Ariosto ardí porre in bocca ad Orlando un momento prima che il cervello gli desse la volta, le quali veramente dipingono il paladino tal quale dovev’essere in quel tristo punto, cioè agitato da furore, da gelosia, da pietà di se stesso e da altre contrarie passioni che lo dovevano condurre a mattezza un momento dopo. Il giudizio dell’Ariosto non credo avesse molta parte in quelle due meravigliose ottave. Fu la sua immaginazione, fu il suo trasportarsi con tutta l’anima nella stessa situazione d’Orlando, fu il suo poetico fuoco, fu un repentino entusiasmo che gli dettò quelle due ottave, anzi che gli dettò tutta quella descrizione d’Orlando che impazza gradatamente.[276]

Passo che – mentre documenta la forza trascinante della migliore prosa barettiana in una delle sue direzioni meno minacciate dal peso di certo suo virtuosismo bizzarro e piacevole, pur esso del resto fuso in forza sarcastico-polemica in tanta parte della eccellente prosa della «Frusta» – ben indica in una prospettiva storica (e dunque senza qui fermarsi a rilevare i nostri dissensi moderni da un simile giudizio critico) la premente forza della critica barettiana nel rapporto fra un vigoroso illuminismo empiristico e antiastratto e un preromanticismo che di fatto spinge verso le piú mature posizioni del romanticismo italiano.

Ma la punta piú stimolante della polemica barettiana – non importa qui dire con quanti limiti di ingiustizia ed esagerazione – contro il gusto illuministico, classicistico e razionalistico, e a favore di una poesia geniale e spontanea, è certo costituita da quel Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, uscito a Londra nel 1777, con cui il Baretti prendeva arditamente posizione non piú contro i residui arcadici e le mode effimere, ma contro una cultura forte e ben viva e contro il suo piú illustre rappresentante. Donde anche il valore di piú concreta ed unitaria forza scrittoria di questa operetta, capolavoro organico del Baretti polemista, critico, scrittore, espressione violenta e tesa del suo estro, dei suoi umori, delle sue intuizioni piú avanzate in direzione preromantica, tali da superare centralmente le piú gravi remore tradizionalistiche e sin pedantesche come gli aspetti di maggior consonanza con il clima medio illuministico-razionalistico, e tali da portarlo piú vicino a posizioni che dal seno stesso dell’illuminismo si spingevano appunto in direzione preromantica (e si pensi a Diderot per il quale la poesia vera ha sempre qualcosa di «enorme et de barbare et de sauvage» o al giovane Goethe entusiasta di Shakespeare: «und ich rufe Natur! Natur! Nichts so Natur als Schäkespears Menschen»[277]).

Di fronte al giudizio del Voltaire sull’opera di Shakespeare come un «enorme fumier» con qualche sparsa gemma – giudizio pronunciato in occasione della versione francese delle tragedie shakesperiane da parte di Le Tourneur e motivato, rispetto ai primi entusiasmi voltairiani per il grande poeta inglese, da ragioni di dispetto personalistico e da piú profonde ragioni di assestamento del suo gusto in forma classicistico-razionalistica – il Baretti reagí violentemente, prima dimostrando insistentemente l’ignoranza della lingua inglese da parte del Voltaire – e quindi la sua incapacità a comprendere e valutare Shakespeare suffragata anche dall’esame minuto di un brano dell’Amleto tradotto dal grande illuminista francese – e poi, con tanto maggiore interesse per noi, passando ad affermare l’intraducibilità di Shakespeare nelle lingue neolatine e insieme denunciando la propria nuova intuizione della grande poesia shakespeariana e della sua creatività libera e «selvaggia», non bisognosa di conoscenza delle lingue classiche e dei canoni aristotelici, ripugnante alla traduzione nel troppo regolare e prudente francese classicistico e razionalistico[278], sostenuta nel suo creatore da doti piú essenziali al poeta:

Une profonde connaissance de la nature humaine, un de ces génies, si rares partout, qu’on appelle génies d’invention, et par dessus cela une imagination toute de feu.[279]

Da questa polemica il Baretti sale poi alle affermazioni piú generali e fondamentali. Una di queste riguarda la intraducibilità della lingua poetica e addirittura della lingua in genere perché ogni opera poetica (e persino, paradossalmente, le semplici quattro parole: «le roi de France») per esser compresa e tradotta presuppone una complessa conoscenza, non solamente libresca, della lingua nazionale di quella, del paese, degli uomini, dei costumi, della storia in cui quella lingua è fiorita e quell’espressione poetica ha trovato nascita e consistenza.

Un’altra è quella che denuncia l’assurdità e l’inutilità delle regole aristoteliche o pseudoaristoteliche delle tre unità drammatiche (una volta che la verosimiglianza che queste permetterebbero è violata fondamentalmente dalla chiara illusione teatrale accettata preliminarmente dallo spettatore), al posto delle quali il Baretti postula – con il suo concreto «buon senso» e la sua spinta preromantica – la unità e verisimiglianza dei caratteri nei personaggi coerenti, della situazione ed azione svolta nelle vicende e nei personaggi e nella loro lingua nazionale e concreta.

E, nelle violente e serrate perorazioni e dimostrazioni di tali punti, il Baretti – pur con i mezzi inadeguati della sua cultura e con l’aiuto innegabile dell’empirismo critico johnsoniano – mostra un senso vigoroso della unità organica dei caratteri e delle azioni, non bisognosa di regole ed anzi da queste artificiosamente limitata e coartata.

Ché alla fine ben piú dell’«autorità» delle regole aristoteliche (che del resto il filosofo greco aveva dedotto dai concreti esempi drammatici del suo tempo e che avrebbero potuto essere anche diverse se egli si fosse trovato di fronte tipi di diversa poesia) conta per il Baretti l’esperienza concreta dei concreti prodotti poetici che smentisce ogni pedantesca e astratta precettistica:

Qu’Aristote dise ce qu’il veut, j’oppose à son autorité l’experience de Shakespeare, de Lope de Vega et des plusieurs autres, qui nous ont fait voir le contraire. Nous refuserons-nous à l’experience parce que Aristote a dit, ou n’a pas dit, ce qu’il ne savait pas?[280]

Intuizioni che si raccordano con altri particolari rilievi e confronti fra la possente coerenza organica e terribilità sublime di figure shakespeariane, poeticamente «belle» perché fortemente individuate ed organiche anche se razionalmente assurde e mostruose (il caso di Calibano nella Tempesta) e le pallide e astratte figure delle tragedie voltairiane, frutto di uno sforzo raziocinante e non di una libera intuizione poetica, anche quando il «poète philosophe» cercò di gareggiare con Shakespeare introducendo nelle sue tragedie ombre e fantasmi, ma riportandole in un contesto di decoro e verisimiglianza classicistico-razionalistica che ne minava alla base quella spinta libera e irrazionale della fantasia spregiudicata e autoregolantesi.

Sicché anche da questa troppo rapida esposizione si può ben ricavare la conclusione del valore assai alto e nuovo del Discours barettiano come punta avanzata di un gusto in formazione, ibrido e composito nella sua origine – fra riprese tradizionali e ingorgo di motivi illuministici di carattere piú empiristico (con l’appoggio della lezione johnsoniana e in consonanza con posizioni fra Diderot e Lessing) rivolti contro l’illuminismo classicistico-razionalistico di tipo voltairiano – ma indubbiamente efficacissimo entro i nuovi pronunciamenti della sensibilità preromantica e aperto assai vigorosamente verso le posizioni dei romantici italiani «1816» che di fatto a Baretti assai spesso si rivolsero come ad uno dei loro precursori e anticipatori[281].

10. Le traduzioni preromantiche e l’«Ossian» del Cesarotti

All’intreccio di intuizioni e posizioni critiche che si svolgono sulla base dell’illuminismo e del sensismo verso accentuazioni di carattere preromantico, e alle confuse spinte di inquieta sensibilità già denunciate dalla farraginosa e confusa poesia di un Varano, si aggiungono, con varia forza, ma con generale incidenza sul gusto del secondo Settecento, le sempre piú numerose traduzioni italiane di testi stranieri – soprattutto inglesi e tedeschi – già appartenenti alla vasta zona della sensibilità preromantica europea.

Sia che si tratti di versioni dirette dagli originali o che invece si tratti di versioni di precedenti traduzioni francesi (al centro quelle di Le Tourneur), esse vanno considerate come un momento estremamente importante nella creazione di una nuova tendenza del gusto e del sentimento che di fatto supera la pura e semplice componente sensistico-sentimentalistica dell’illuminismo e che – pur nella generale moderazione della situazione letteraria italiana – introduce in questa una tensione nuova i cui frutti piú originali matureranno piú tardi nell’opera dell’Alfieri e – con tante nuove componenti culturali, storiche e letterarie – in quella del Foscolo o del Leopardi e nelle varie forme del romanticismo di primo Ottocento.

Non che queste traduzioni corrispondano, nella stessa scelta dei testi, ad una decisa e preliminare tendenza: ché esse si giustificano anzitutto in una piú generale e generica curiosità e avidità della cultura illuministica tesa ad una indiscriminata scoperta e introduzione – attraverso il tradurre, il «far proprio» in lingua letteraria italiana – di nuove opere europee, all’arricchimento della nostra letteratura con le offerte piú diverse delle letterature straniere moderne.

Sicché anche negli stessi modi del tradurre i testi piú chiaramente preromantici e portatori di una nuova sensibilità sarebbe facile controllare una situazione di difficoltà, di imbarazzo, di squilibrio dei letterati-traduttori quanto piú essi si trovavano alle prese con temi, immagini, forme di linguaggio male accordabili con la loro formazione di fondo legata alla tradizione italiana e alle piú vicine premesse arcadiche e classicistiche.

Difficoltà tanto maggiore quando questi traduttori, scartando la prosa, in cui piú facile era la versione «fedele» o addirittura letterale, ambivano all’operazione piú complicata di rendere gli originali nelle forme di poesia. Come può ben verificarsi nel caso di un testo fondamentale della nuova sensibilità preromantica inglese – The Complaint: or Night Thoughts di Edward Young – che fu, nei primi decenni del secondo Settecento, tradotto piú volte in italiano, in prosa e in poesia, sulla scia della versione francese del Le Tourneur e nell’attrazione che un simile testo esercitava – con il suo fondo tetro e malinconico, con l’ossessiva presenza della morte e della tomba, con la sua atmosfera pessimistica e notturna, con la sua eccitata esaltazione delle passioni e del cuore – su letterati comunque aperti alla «novità» e alla sollecitazione della loro sensibilità piú compromessa e limitata, in forza di una nuova Stimmung sentimentale piú coerente e compatta, trascinante e affascinante quanto piú sconvolgeva le loro posizioni piú equilibrate e la loro educazione letteraria piú composta e prudente, legata alla lezione dell’ordine e della misura dei classici.

Ebbene, mentre nelle versioni in prosa (quella piú pedissequa dell’Alberti, pubblicata nel 1770, e piú tardi, nel 1786, quella tanto piú libera e matura del Loschi[282]) piú facilmente il testo originale rifluiva nella versione italiana, ma meno incideva nel vivo della lingua poetica, meno contribuiva a promuovere un rinnovamento della letteratura nella sua espressione piú lirica e «nobile», nelle versioni in poesia (come quella di Girolamo Bottoni, del 1771-1775) la mediazione del testo originale si rivelava tanto piú difficile, in quanto esso era piú esposto a riduzioni, riassorbimenti in un gusto classicistico e musicale-melodrammatico, a smussamenti della sua eccitata immaginosità in forme tradizionali di paragoni, similitudini ben distese e di aggraziata sensibilità piú volta al languido che all’intenso.

Eppure è proprio sulla via difficile e compromessa delle versioni poetiche (non solo da Young, ma da Klopstock, da Gray, Hervey, Haller, ecc.) che l’opera di mediazione e di introduzione effettiva di nuovi temi e moduli sentimentali-poetici della poesia del Nord – accolta prima per la piú generale attrazione verso il nuovo e verso l’esotico e poi, a poco a poco, ricercata per una maturata tendenza del gusto e del sentimento – agisce piú concretamente dentro la lingua poetica e dentro i procedimenti espressivi, spingendo lentamente la nostra poesia a sviluppi piú sicuri e partecipati.

E si noti ancora che, alla fine, proprio con simili operazioni difficili, ma svarianti fra veri e propri «tradimenti» e svuotamenti degli originali e adattamenti «italiani» piú abili ed ispirati – e lo si vedrà soprattutto nel caso preminente della versione cesarottiana dell’Ossian –, la nuova lezione dei testi preromantici stranieri poteva venire assimilata dalla nostra letteratura e piú direttamente poteva agire nella formazione di una tendenza poetica preromantica moderata, ma pur consistente e tale da portare al di là della situazione del gusto della precedente tradizione settecentesca.

In lingua poetica – e quasi sempre per mezzo dell’endecasillabo sciolto adeguato ora al nuovo movimento della sensibilità dolente ed elegiaca – meglio si consolidava l’acquisto di nuovi temi e di nuove tensioni sentimentali-espressive. Si pensi cosí – pur negli evidenti residui di un gusto piú languido e raddolcito – all’efficacia di motivi elegiaci, funerei e notturni, come questo della versione younghiana ad opera del Bottoni:

Amabile Narcissa io... sí... ti veggio

pallida, triste, e la tua voce io sento

che mi ricerca il cor, che all’aure chete

in flebil mormorio tai note scioglie:

cupa notte è per me. Di notte eterna

il vago fior degli anni miei, le mie

piú felici speranze or sono in preda.[283]

O a quello di un paesaggio orrido nella versione della Eternità di Haller, da parte del Pagani-Cesa:

E allor che un nuovo nulla avrà la terra

assorta inabissata, allor che solo

vuoto spazio sarà l’ampio universo,

allor che i nuovi cieli in cui diverse

dalle presenti brilleran le stelle,

essi pure i lor corsi avran compiuti...

Cupe foreste, ove di luce un raggio

non penetrò giammai fra i spessi rami,

ove serba ogni selva in sé dipinta

la notte della tomba; annose balze

ove raminghi infra le balze e i dumi

le tristi melodie stansi alternando

i solitari augelli...

O ancora a quello di un idillio elegiaco che colora nuovamente di patetica malinconia scene o paesaggi altre volte atteggiati in forme piú apertamente cantabili e miniaturistiche nelle zone arcadiche e rococò, quale può risultare da passi come questo delle Tombe di Hervey nella traduzione della Roberti-Franco:

Era l’Autunno, alma stagion soave

che al riposo ne invita, e sovra ogni altra

nell’anime sensibili riversa

dolce melanconia, dolci pensieri.

O come questi della versione degli Idilli di Gessner (sulla cui piú particolare importanza, in direzione di un preromanticismo meglio accordato con istanze neoclassiche e recuperi arcadici, riparleremo a proposito del Bertola) da parte della Caminer Turra:

Già di que’ monti opachi in sulle vette

lucida sorge la notturna Luna...

Pallida e cheta Luna,

che testimonia sei de’ miei sospiri

e voi placide piante...

Quanto orrore

occupa l’anima mia! De’ pini alteri

i tronchi rosseggianti, delle querce

i nudi ceppi sorgono dal fitto

della macchia romita, e opaca volta

formano sul mio capo. O annose piante,

dei vostri foschi rami, orror, tristezza

scendon sul capo mio.

O come questo della celebre Elegia su di un cimitero campestre del Gray nella versione del Cesarotti:

Voce d’augello annunziator d’albori,

auretta del mattin che incenso olezza,

queruli lai di rondinella amante,

tonar di squilla, o rintronar di corno

non gli alzeran del loro letto umile.[284]

E proprio a Melchiorre Cesarotti si deve la traduzione di un testo che rimarrà fondamentale nella formazione del gusto preromantico italiano: quella delle Poesie di Ossian (falsificazione del Macpherson presentata come traduzione moderna di testi autentici di un immaginario bardo caledonio del III secolo dopo Cristo) che appunto egli attuò – prima sulla traduzione letterale italiana di un amico inglese, il Sackville, poi direttamente sul testo inglese – pubblicandola a Padova nel ’63, per poi riprenderla e completarla in una seconda ampliata edizione del ’72-73.

Il Cesarotti era nato nel 1730 a Padova, dove egli trascorse quasi interamente (a parte un soggiorno a Venezia, fra il ’61 e il ’68, importante per le conoscenze e gli stimoli ricevuti in quell’ambito letterario, e un breve viaggio a Roma, nell’85, per esser ricevuto, con grandi onori, in Arcadia) la sua lunga vita, insegnante di retorica nel seminario in cui egli aveva studiato, poi professore di greco e di ebraico nell’università. Vita soprattutto di letterato e di insegnante, non incapace però – nell’epoca della Repubblica veneta – di partecipare ad istanze anche civili e politiche, sia come membro del comitato di Istruzione pubblica della Municipalità di Padova, sia come scrittore di notevoli saggi (il Saggio sopra le instituzioni scolastiche private e pubbliche, l’Istruzione di un cittadino a’ suoi fratelli meno istruiti, Il patriottismo illuminato, omaggio d’un cittadino alla patria, tutti del ’97) ispirati a sincere convinzioni democratiche e ad un fondamentale spirito di tolleranza. Dopo la breve parentesi austriaca, il Cesarotti ottenne onori (il titolo di cavaliere e commendatore della Corona di ferro) e protezione dal governo napoleonico che egli ripagò con un fiacco e adulatorio poemetto, La pronea, e occupò gli ultimi anni nella continuazione della sua vasta e complessa attività letteraria, nel piacevole ricambio fra i soggiorni nella sua villa di Selvazzano, tutta adornata di statue e piccoli edifici di gusto preromantico, e i rapporti intellettuali e amichevoli, in Padova, con i suoi giovani e numerosi allievi e, attraverso la corrispondenza epistolare, con letterati italiani e stranieri, sino alla morte che lo colse nel 1808.

L’opera vastissima del Cesarotti (raccolta nelle Opere in quaranta volumi, uscite a Pisa e Firenze fra il 1800 e il 1813) mostrerebbe ad un esame particolareggiato la ricchezza di interessi di questa personalità vivacissima e attenta, non grande, ma certo dotata di disposizioni e capacità intellettuali e letterarie che le permisero di raggiungere almeno due alti e importanti risultati nei campi della questione della lingua – soprattutto con il Saggio sulla filosofia delle lingue – e nel campo del gusto e dell’attività letteraria in cui – come già accennavo – la sua originale versione dell’Ossian si impose come il testo piú importante nell’avviamento e nello sviluppo della tendenza preromantica in Italia.

Né quei due risultati sono dissociabili fra di loro e nei confronti degli interessi ed interventi minori del Cesarotti, che, pure in un certo eclettismo dovuto alla sua stessa formazione fra eredità arcadica ed erudita, educazione classicistica e filologica nel seminario padovano (la scuola del Forcellini, Facciolati, Volpi), stimoli vichiani (ad opera dello Stellini), forte eredità del Conti attraverso l’amicizia con il Toaldo (seguace ed editore del Conti), apertura alla letteratura francese contemporanea e soprattutto all’opera del Voltaire, si organizzano intorno ad un forte senso della poesia e della lingua e ad una prospettiva di prudente, ma sicura modernità, avvivata da una sostanziale fiducia illuministica nei poteri della ragione e del giudizio critico, ma insieme piú aperta (in forza anche dei ricordati stimoli vichiani) a una ricerca della poesia geniale, naturale, mossa da autentica passione, da ritrovare – fuori di ogni pregiudizio tradizionale e regolistico, ma non senza criteri di ragionevolezza, di verisimiglianza e di decoro – sia nella letteratura classica, sia in quella moderna, sia (e fu il caso essenziale dell’incontro con l’Ossian, da lui creduto opera veramente autentica e primitiva) in epoche culturalmente barbariche, ma ricche di spirito poetico.

Non mancano certo difficoltà e compromessi fra il suo gusto piú libero e certe piú chiuse istanze illuministico-razionalistiche, che lo portarono a volte a non comprendere la natura storica e la storica giustificazione di aspetti della poesia troppo giudicati alla luce di piú colte ed educate esigenze moderne. Come avviene soprattutto nel caso della traduzione dell’Iliade di cui egli dette due versioni: una letterale e una poetica, e in quest’ultima finí, con correzioni e cambiamenti, per ridurre la poesia omerica in forme troppo settecentesche, cercando di darle – per renderla piú accessibile ai propri contemporanei – un carattere di piú elevata moralità e un’organizzazione piú unitaria rilevata anche nel titolo cambiato in La morte di Ettore, soggetto principale del poema, e insieme spia di un’accentuazione di gusto preromantico e ossianesco attratto dal patetico della vicenda eroico-sfortunata dell’eroe vinto.

Ma, ripeto, pur fra difficoltà e incertezze, il Cesarotti giungeva pure a delineare nel breve Saggio sulla filosofia del gusto un ideale assai vivo e nuovo della libertà e originalità della poesia e insieme della necessaria spregiudicatezza della critica che deve esser capace di comprendere e penetrare la poesia di ogni tempo e di ogni nazione. Come spiega una bella pagina di quel saggio dedicato al ritratto del critico «ideale»:

Non ad altri adunque concede la nostra filosofia il diritto del voto nel tribunal letterario fuorché a coloro che partecipano delle qualità degli autori stessi, e a cui niuno manca degli organi che formano il sensorio del gusto, dico, orecchia armonizzata, fantasia desta, cuore presto a rispondere con fremito istantaneo alle minime vibrazioni del sentimento, prontezza a trasportarsi nella situazion dell’autore, celerità nel cogliere i cenni occulti e i lampi fuggitivi dell’espressione; a quelli inoltre che aggiungono a questi doni naturali tutti i presidj d’una ben intesa disciplina, vale a dire scienza profonda dell’uomo, perizia filosofica della lingua, conoscenza squisitissima dei rapporti fra le modificazioni dell’anima, e le tinte dello stile che le dipingono, finalmente uno spirito lontano ugualmente dalla servitú e dall’audacia, superiore ai miserabili pregiudizi del secolo, della nazion, della scuola, che concittadino di tutti i popoli intende tutti i linguaggi del bello, lo raffigura senza equivoco, lo ravvisa in qualunque spoglia, né lo adora stupidamente sotto una forma, ma gli rende omaggio in tutti gli aspetti che ne rappresentano acconciamente l’immagine.[285]

E allo stesso modo, e con maggiore originalità, il Cesarotti giungeva a impostare nella tanto dibattuta discussione sulla lingua una linea robusta di motivazione e proposta della libertà, creatività, indefinita capacità di sviluppo delle lingue, del loro necessario arricchimento[286], in relazione allo sviluppo dello spirito[287], delle cognizioni, della società: sviluppo che si concreta nelle opere dei nuovi scrittori e che non può essere mai arrestato e fissato in forme di «purità» sterile e pedantesca, cosí come d’altra parte non può neppure essere condotto sino al punto di far perdere ad una lingua certi suoi caratteri essenziali, certa sua fondamentale coerenza con la tradizione consolidata nella letteratura e nell’uso medio di una nazione[288].

La «temperata e giudiziosa libertà» che il Saggio sulla filosofia delle lingue propugna in polemica con il «rigorismo» puristico e con il «libertinaggio» sfrenato è in realtà la via piú matura della meditazione settecentesca sulla lingua e al centro sostiene un principio fecondo di libertà, creatività e individualità della lingua che, appoggiato alla vocazione illuministica, alla spregiudicatezza e all’antipedantismo, alla sistemazione filosofica generale, si profila in direzione preromantica tanto battendo contro ogni intera concezione di «parola-cifra» e tanto puntando sull’originalità, storicità e individualità del linguaggio soprattutto in rapporto al linguaggio poetico, a quell’aspetto «retorico» della lingua che il Cesarotti, con un certo eclettismo di fondo, considerava come la parte della lingua che piú colpisce l’immaginazione rispetto alla parte «grammaticale» piú nudamente logica e somministrante i puri «segni» delle idee.

Perciò il Cesarotti piú tardi poté ribattere le accuse a lui rivolte dal Galeani Napione, nel già ricordato libro Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, di aver incoraggiato l’imbarbarimento della lingua italiana, con una Lettera al conte Napione (1800) da cui si può estrarre, come ben esemplare per i maturi ideali linguistici e letterari del Cesarotti, questa pagina eloquente e fervida in cui egli spiega il senso centrale della sua teoria e proposta linguistica:

Italiani, voleva io dire, che aspirate al titolo d’illustri scrittori (giacché non ho inteso mai di parlar al volgo), non v’è eloquenza senza stile, né stil senza lingua; ma se volete maneggiarla da maestri, studiatela prima da filosofi, disponetevi a conciliare il ragionamento col gusto e ambedue coll’uso.... conoscete l’indole della lingua in quel che fa e in quel che può, specchiatevi nelle opere dei grandi autori, senza farvi servi d’alcuno, e nell’appropriarvene le maniere piú scelte, investitevi dello spirito che gli animò. Fatti già per tal modo possessori tranquilli delle ricchezze e dell’indole della vostra lingua coltivate saggiamente il commercio colle straniere, notatene i caratteri, i pregi, le ricchezze relative, le differenze e le affinità colla vostra, e troverete forse in esse di che supplire a qualche mancanza domestica, di che aggiungere all’idioma nazionale qualche tinta pellegrina che dia rilievo alla sua bellezza senza alterarne le forme: allora provveduti d’un corredo inesausto di segni, di colori, di tornj, ben distribuiti e graduati nelle loro classi, colla facoltà abituale di paragonare e di scegliere, colla moltiplicità degli esempi, allora dico sappiate pensare e sentire, e la figura del concetto verrà a stamparsi nell’espressione, che sarà conveniente, vivace, italiana e vostra: voi non sarete piú schiavi né dei dizionari né dei grammatici, non sarete né antichisti né neologisti, né francesisti né cruscanti, né imitatori servili né affettatori di stravaganze; sarete voi; voglio dire italiani moderni che fanno uso con sicurezza naturale d’una lingua libera e viva, e la improntano delle marche caratteristiche del proprio individual sentimento.[289]

A queste punte piú alte del suo pensiero teorico – che ha un fine principalmente pragmatico in relazione alla piú forte volontà cesarottiana di intervenire nel concreto sviluppo della letteratura contemporanea e di proporre una «poetica» – il Cesarotti giungeva sulla spinta di tutta la sua esperienza, fra illuminismo e preromanticismo[290], di lettore, di critico, di scrittore-traduttore, in cui tanto decisiva era stata la sua esperienza di banditore e traduttore originale dell’Ossian.

Infatti al centro dell’attività del Cesarotti, stimolo essenziale delle sue piú nuove intuizioni sulla originalità e libertà della poesia e sulla creatività del linguaggio poetico, è certo la memorabile vicenda del suo incontro con l’Ossian, e della sua traduzione poetica di quel testo in cui egli trovava entusiasticamente la realizzazione di una poesia «de nature et de sentiment» superiore a quella «de réflexion et d’esprit qui semble être le partage des modernes» e che insieme poteva far avvertire i difetti dei grandi poeti classici fino allo stesso Omero, dato che – come egli dice nella lettera al Macpherson del 1763 –:

L’Ecosse nous a montré un Homère, qui ne sommeille, ni ne babille, qui n’est jamais ni grossier ni traînant, toujours grand, toujours simple, rapide, précis, égal et varié.[291]

Parole in cui si mescolano chiaramente esigenze di origine classicistico-illuministica (verificate nell’Ossian tanto piú facilmente data la natura di falsificazione e di abile mescolanza primitivo-moderna del testo del Macpherson) e le esigenze di genialità, di libertà, di sentimento che, sulla base piú aperta di sensibilità di un illuminismo tanto arricchito dagli stimoli rousseauiani, vengono a muoversi verso un piú deciso gusto preromantico e a motivare le nuove simpatie del Cesarotti per tutti i maggiori nuovi poeti preromantici stranieri[292].

Sicuro della grandezza e novità della poesia ossianesca, il Cesarotti dedicò il meglio delle sue risorse letterarie e della sua disposizione poetica – incapace per altro di superare la piú piatta mediocrità nei suoi componimenti poetici originali – alla versione e alla mediazione di quel testo, per lui essenziale, al pubblico dei letterati italiani.

Del carattere arduo di tale impresa e insieme della sua importanza nel rinnovamento della poesia e della lingua poetica italiana egli ebbe profonda coscienza e la dichiarazione da lui fatta in proposito nel Discorso preliminare è quanto mai significativa anche ad avviare un piú preciso discorso – altrove da me fatto – sulla perizia e insieme sulle difficoltà e sui limiti stessi di una simile impresa:

Di un cosí grande originale ebbi l’arditezza di fare un dono all’Italia. Senza un esempio che mi servisse di scorta, con una lingua feconda sí, ma isterilita dalla tirannide grammaticale, a guisa di atleta mediocre costretto a lottare con un gigante, a fine di non restarne oppresso, dovetti ricorrere ad uno schermo particolare, ed inventare scorci ed atteggiamenti di nuovo genere... Se mai traduttore meritò questa equità... par certo che debba meritarla chi si mette a lottare con un originale della tempra di Ossian... Le sue virtú, e i suoi difetti sono ugualmente intrattabili, ed egli resiste per ogni lato alla forza e alla desterità di chi vi si accosta. Io non avea per istrumento della mia fatica che una lingua felice a dir vero, armoniosa, pieghevole forse piú di qualunque altra, ma assai lontana (dica pur altri checché si voglia) dall’aver ricevuto tutta la fecondità, e tutte le attitudini di cui è capace, e per colpa de’ suoi adoratori, eccessivamente pusillanime.[293]

E sempre nel Discorso il Cesarotti mostra bene di aver coscienza dell’ammorbidimento che egli faceva del testo per mediarlo al gusto italiano e dell’utilità della sua opera per un arricchimento della poesia italiana:

Io so bene che alcune di queste locuzioni non sarebbero sofferte in una poesia che fosse originariamente italiana, ma oso altresí lusingarmi che abbia a trovarsene piú d’una che possa forse aggiungere qualche tinta non infelice al colorito della nostra favella poetica, e qualche nuovo atteggiamento al suo stile. Questo è il capo per cui specialmente può rendersi utile una traduzione di questo genere, e questo è l’oggetto ch’io mi sono principalmente proposto.[294]

Certo, come sopra dicevo, il Cesarotti intervenne fortemente sul testo originale con correzioni, tagli, aggiunte, smussamenti, addolcimenti e viceversa rilievi piú enfatici, non solo in ragione di sue esigenze invincibili di gusto (teso a maggiore regolarità, verisimiglianza e organicità), ma alla luce del suo impegno di rendere assimilabile il nuovo testo poetico alla coscienza letteraria italiana contemporanea salvandone la novità essenziale, ma riducendone gli aspetti piú urtanti e sconcertanti.

In conclusione – malgrado stonature e riduzioni eccessive, specie in certe parti piú canzonettistiche e melodrammatiche[295] – la mediazione cesarottiana risultò efficacissima e suggestiva e le Poesie di Ossian, cosí come si concretarono in lingua poetica italiana, vennero a costituire il testo preromantico italiano piú importante e capace di avviare e sollecitare una nuova direzione di poetica e, in essa, un nuovo sentimento e persino una nuova disposizione spirituale ed esistenziale, in cui confluivano le sollecitazioni degli altri testi preromantici stranieri tradotti in questi decenni fino alla decisiva presenza del Werther e alla rilettura, in chiave piú direttamente preromantica, delle opere rousseauiane.

Proprio perché mediato con sincera animazione poetica, in accordo con alcune essenziali esigenze letterarie italiane e in un prevalente discorso metrico-poetico (l’endecasillabo sciolto) nobile e duttile, abilissimo e trascinante (i «ben architettati versi del Cesarotti» di cui parlava l’Alfieri[296]), l’Ossian poteva tanto piú profondamente (e senza iniziali dissensi artistici) immettere nel vivo della letteratura in svolgimento, nella tensione sentimentale-espressiva del tempo una immane massa di temi, problemi, atteggiamenti sentimentali, moduli poetici che rimasero essenziali nella formazione di tanti scrittori di fine Settecento e, ripeto, soprattutto in quella dei grandi poeti Alfieri, Foscolo e Leopardi fino al punto che – specie pensando al Leopardi[297] – riesce difficile ad un lettore ben affiatato con la poesia leopardiana distinguere nella lettura diretta dell’Ossian cesarottiano la suggestione propria di passi di quel testo da quella derivante dallo sviluppo fattone dal Leopardi e dall’eco piú profonda di quello sviluppo.

Al centro di tale massa di motivi nuovi c’è un nuovo sentimento doloroso della natura e dell’uomo, un tono di malinconia struggente e spesso particolarmente immotivato, ma pur legato a una generale sensibilità dolente, a un senso della caducità dell’uomo, delle cose, del tempo, dello stesso universo, cui si riferiscono internamente – come moduli tutt’altro che casuali – le frequenti forme di dolorosa esclamazione e, piú, dell’apostrofe e dell’interrogativo – senza risposta – che dalle esigenze particolari delle vicende singole di poemetti (sempre atteggiati in direzione tragico-elegiaca, in trama di sventura, di rievocazione dolente di tempi felici perduti, di eroismo frustrato e sconfitto) si trasferisce spesso piú direttamente nelle parlate rivolte da personaggi umani ad entità della natura – soprattutto gli astri – e pare allora tanto piú esprimere l’angosciosa situazione di un tempo di crisi, di una esistenziale e drammatica richiesta (senza risposta) sul perché della vita dell’uomo e dell’universo, sulla vera condizione degli astri e della natura, coinvolta nella stessa angoscia degli uomini e rappresentata in una tensione dolente in cui le stesse parziali visioni idilliche vivono in dinamico contrasto con le piú rilevate visioni cupe, notturne, orride.

Cosí lo spettacolo della natura diventa fonte di emozioni profonde ed eccitanti (non piú pittoresche e amabili come ad esempio poteva avvenire nel Solitario bosco ombroso del Rolli anche di un paesaggio oscuro e solitario), stimolo di pensosa malinconia o di orrore allibito.

Si pensi (in contrasto con gli elementi piú consueti del paesaggio poetico dell’epoca arcadica e illuministica) a una descrizione di natura in tensione come quella che qui riporto, in cui si inserisce agevolmente una immagine spettrale e soprannaturale ripresa da una mitologia nordica demoniaca e malinconica e una semplice immagine di realtà («la felce inaridita») singolarizza l’orrore della foresta sotto la tempesta:

Tempestosa notte,

notte atra: rotolavano le quercie

dalle montagne; il mar infin dal fondo

rimescolato dal vento mugghiava

terribilmente, e l’onde accavallandosi

le nostre rupi ricopriano; il cielo

mostravaci la felce inaridita

col suo frequente balenar; Fercuto

vidi lo Spirto della notte; ei stava

muto sopra la spiaggia; errava al vento

la sua vesta di nebbia; io ne distinsi

le lagrime; ei sembrava uom d’anni grave

e carco di pensier.[298]

O si pensi a questo paesaggio malinconico sotto una luce appannata e malata, assolutamente inedito nella precedente descrittiva poetica italiana della natura:

Ei poscia in Ata

splendette ancor, ma d’una torba luce

come d’autunno il Sol qualora ei move

nella sua veste squallida di nebbia

a visitar di Lara i foschi rivi.

Goccia d’infetto umor l’appassita erba

e, benché luminoso, il campo è mesto.[299]

A questa rappresentazione della natura – in cui a volte basta l’uso insolito di un aggettivo, un accordo di suoni e di immagini rallentato e allungato per provocare un’onda sentimentale-poetica malinconica e suggestiva –

come tarlate, vacillanti

quercie, che il vento occultamente atterra[300]

– si associa frequentemente e coerentemente l’immagine e la risonanza della morte, o direttamente collegata a quella di fosche immagini di entità naturali, belle e terribili –

Sole del ciel quanto è terribil mai

la tua beltà, quando vapor sanguigni

sgorghi sul suol, quando la morte oscura

sta ne’ tuoi crini raggruppata e attorta[301]

– o posta come mèta trascinante delle stesse vicende e dei duelli eroici, indirizzati essenzialmente, nella loro stessa descrizione, al presentimento e alla preparazione della morte, o consolidata nella ossessiva, frequentissima figurazione della tomba quasi sempre immaginata nel suo solitario e nudo squallore, priva di onore sepolcrale e di compianto affettuoso:

Son quattro pietre la memoria sola

che di te resta, e un arbuscel già privo

dell’onor delle foglie, e la lungh’erba

che fischia incontro ’l vento addita al guardo

del cacciator del gran Morad la tomba.

Tu se’ umile, o Morad; tu non hai madre

che ti compianga, o giovinetta sposa,

che d’amorose lagrime t’asperga...[302]

Il sentimento della morte e della caducità domina nelle Poesie di Ossian insieme all’impostazione prevalentemente elegiaca delle vicende rievocate con la forza struggente della nostalgia e della «rimembranza»: parola-tema, oggetto di variazioni che ne esaltano ora il carattere «acerbo» e «amaro», ora quello di una sua singolare dolcezza che «invoglia al pianto», ora l’intreccio piú preciso di queste sue componenti dolci e tristi:

la rimembranza di passate gioie

che a un tempo all’alma è dilettosa e triste.[303]

Da qui il forte prevalere epico o familiare, ma sempre gravemente pessimistico, del tema dell’ubi sunt:

Ove son ora, o duci,

i padri nostri, ove gli antichi eroi?

Tutti già tramontar, siccome stelle,

che brillaro, e non sono...[304]

Da qui l’insistenza sulle immagini struggenti di figure giovanili e vitali, recise immaturamente dalla morte, di cui qui riporto inizi e avvii di movimenti e di passi in una raccorciata scelta che fa ben sentire quanto simili immagini potessero poi inserirsi nella profonda tensione poetica di un Alfieri, di un Foscolo e soprattutto di un Leopardi:

Raggio di gioia risplendea sul volto...

... brillai qual raggio,

e qual raggio passai...

... e tu dovrai

cader nel fior di giovinezza estinto...

... perché mai devi

cader nel fresco giovenil tuo fiore?...

... ah tu cadesti,

speme di questo cor, cadesti...

... cadesti...

... ah tu cadesti

lasciando il campo disadorno e ignudo...

Non passerem qual sogno...

sparve il mio sogno, e la diletta immago...

... Ove se’ ita

nel fior di tua beltà, figlia di Nua,

vaga donzella da la nera chioma?

... Dove se’ ito,

figlio dell’amor mio?...

Non piú sul prato

le lor’orme vedrò, non piú sul monte

udrò l’usata voce...

tu non risorgi piú; tu della festa

a parte non verrai...

... già l’erba inaridita

lo coprirà...

nel fior di sua beltade

pria che in tutto sia spento...

... a questi colli ignoto

sarai per sempre...[305]

Da qui, come già dicevo, la centralità delle apostrofi «sublimi» al sole, alla luna, alle stelle sulla loro durata o caducità, sulla sorte dell’uomo e dell’universo:

Oh tu che luminoso erri e rotondo

come lo scudo de’ miei padri, o Sole,

donde sono i tuoi raggi? e da che fonte

trai l’immensa tua luce? Esci tu fuora

in tua bellezza maestosa, e gli astri

fuggon dal cielo: al tuo apparir la Luna

nell’onda occidental ratto s’asconde

pallida e fredda: tu pel ciel deserto

solo ti movi. E chi potria seguirti

nel corso tuo? Crollan le quercie annose

dalle montagne, le montagne istesse

sceman cogli anni, l’Ocean s’abbassa,

e sorge alternamente; in ciel si perde

la bianca Luna: ma tu sol, tu sei

sempre lo stesso, e ti rallegri altero

nello splendor d’interminabil corsi...

Ma tu forse, chi sa? sei pur com’io

sol per un tempo, ed avran fine, o Sole,

anche i tuoi dí: tu dormirai già spento

nelle tue nubi senza udir la voce

del mattin che ti chiama. Oh dunque esulta

nella tua forza giovenile: oscura

ed ingrata è l’età, simile a fioco

raggio di Luna, allor che splende incerto

tra sparse nubi, e che la nebbia siede

su la collina: aura del Nord gelata

soffia per la pianura, e trema a mezzo

del suo viaggio il peregrin smarrito.[306]

Certo nel Cesarotti – come già accennavo – c’era una coscienza limitata della piú fertile novità delle posizioni implicite nella sua magistrale versione-mediazione, e cosí quando egli lesse l’Ortis foscoliano poté scrivere significativamente al suo giovane amico ed allievo, il Barbieri: «Foscolo mi spedí la sua storia che è una specie di romanzo intitolato Le ultime lettere di Jacopo Ortis. Egli ha ben ragione di dire che lo scrisse col suo sangue. Io mi guarderò bene dal fartelo leggere: perché è fatto per attaccare una malattia d’atrabile sentimentale da terminare nel tragico. Io lo ammiro e lo compiango»[307].

Egli si ritraeva spaventato dalla lettura di un libro che pur tanto doveva al suo Ossian, ma che andava molto al di là della posizione piú letteraria del Cesarotti e poteva invece piú raccordarsi – in unione di letteratura e di vita – all’unico grande poeta del preromanticismo italiano, l’Alfieri.

Ciò che pure non toglie all’Ossian cesarottiano un’importanza eccezionale di apertura e di sostegno – proprio quanto piú esso era sapientemente e originalmente «italianizzato» e consolidato in linguaggio e discorso metrico compiuto e definito – alle esperienze letterarie e poetiche del preromanticismo italiano e della stessa grande poesia del Foscolo e del Leopardi.

11. Il neoclassicismo nella letteratura del tardo Settecento

Mentre le versioni dei testi stranieri stimolano il precisarsi delle tendenze preromantiche in Italia, viene intanto affiorando nel panorama complesso della nuova letteratura di secondo Settecento un’altra tendenza di gusto, quella neoclassica, fortemente appoggiata alla meditazione estetica winckelmanniana.

Nel 1764 usciva a Dresda la Geschichte der Kunst des Alterturms[308] di Johannes Joachim Winckelmann (nato a Stendal in Prussia nel 1717 e morto tragicamente a Trieste nel 1768), opera decisiva (insieme a tanti altri scritti del Winckelmann) per quella svolta del gusto nelle arti figurative e nella storia dell’arte, che prende il nome di neoclassicismo e che condiziona fortemente – anche se con esiti artistici per lo piú mediocri e frigidi – lo sviluppo della civiltà artistica del tardo Settecento e del primo Ottocento in tutta l’Europa, combattendo sia i residui di tipo barocco, sia il rococò di cui pure a volte riassorbe elementi di «grazia» entro la sua predominante prospettiva di un’arte altamente decorosa e linearmente grandiosa, ispirata alla perfezione dei modelli classici e specialmente greci, al sogno fra archeologico e moderno (specie nelle esigenze di funzionalità della architettura) di un rinnovamento della bellezza classica nel mondo moderno e dunque anche con una componente di appassionata nostalgia per tempi perfetti e perduti che non manca di consonanze con gli slanci nostalgici del preromanticismo per terre e condizioni lontane ed esotiche. Alimentato dalla fervida attività di scavi archeologici del tempo e da un forte sviluppo dell’attività antiquaria, il classicismo di metà Settecento trova nell’opera teorico-storica del Winckelmann (attivo in Roma già nel 1755) un’eccezionale presa di coscienza, chiarendolo in una decisa prospettiva estetico-pragmatica, in una religione dell’antichità come tempo perfetto di una bellezza e di una civiltà superiore a quella di ogni altra epoca e che i moderni devono imitare e rinnovare[309], promovendo cosí una contemporanea educazione dei sentimenti nel senso eroico e saggio, virile e composto, stoico e plutarchiano dell’antica civiltà, incentrata nella forza e nella figura suprema dell’«uomo». Ché soprattutto nel Winckelmann (e ne sono prova in particolare le sue lettere piene di riferimenti agli «eterni esempi dell’antichità,» di virtú private e civili, dell’«amicizia eroica», e insieme alle antiche statue che «infiammano» la sua anima e la innalzano e la salvano, con la loro intensa perfezione, dal sentimento doloroso della «brevissima vita», dalla sorte caduca dell’uomo[310]) il sogno neoclassico è giustificato da un’intensa spinta sentimentale e morale, anche se tutto ciò si svolge prevalentemente in un appassionato estetismo[311], non privo di morbide componenti idillico-elegiache, fra tracce ben visibili di edonismo rococò e di preromanticismo gessneriano.

Al centro della teoria pragmatica del Winckelmann – guardata qui soprattutto per la sua forza di incidenza sugli sviluppi del gusto e della stessa letteratura – c’è una fondamentale tensione alla figura dell’uomo e alla sua bellezza «sublime» e libera da ogni superfluo ornamento – donde l’amore neoclassico per il nudo – in cui si riflette la luce della bellezza divina quanto piú quella figura sia armonica, proporzionata, «nobilmente semplice» e «tranquillamente grande», quanto piú essa sia «naturale», ma di una naturalezza bella e ideale.

Perciò i canoni fondamentali del neoclassicismo sostenuto dal Winckelmann saranno la edle Einfalt und stille Grösse, la nobile semplicità e la tranquilla grandezza – ottenuta anche a costo di «allontanarsi dalla verità piuttosto che dalla bellezza»[312] –, e tutto dovrà contribuire (sulla base di un’unione estetico-morale di «bello» e «buono») a raggiungere quella linea perfetta, quei gesti assoluti, quelle espressioni di serenità, quella «bellezza ideale» che il Winckelmann trovava pienamente raggiunta nei capolavori greci: «Infine la generale e principale caratteristica dei capolavori greci è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nelle posizioni che nell’espressione. Come la profondità del mare, che resta sempre immobile per quanto agitata ne sia la superficie, l’espressione delle figure greche, per quanto agitata da passioni, mostra sempre un’anima grande e posata»[313].

Ideali (come quelli inerenti di «grazia sublime» e di «grazia piacevole») compendiati piú sensibilmente nella descrizione che il Winckelmann fa della suprema e paradigmatica statua dell’Apollo del Belvedere.[314]

Descrizione ben significativa per il sogno estetico ed estetizzante del Winckelmann, per il sostanziale scambio fra arte ellenistica e vera arte classica (tanto piú tardi Canova vedendo a Londra i fregi del Partenone mostrerà di capire questo scambio e questo inganno), per le tracce morbide di certo gusto ancora rococò permanenti nelle concrete scelte di Winckelmann, e significativa per la generale condizione del gusto neoclassico pur nel calcolo delle sue varianti fra versioni piú raffinate e morbide della «bellezza ideale» e versioni piú severe ed eroico-grandiose, che troveranno attuazione nei quadri classico-repubblicani di David sotto la spinta di un neoclassicismo piú decisamente plutarchiano ed eroico-morale innestato sulle nuove idee rivoluzionario-repubblicane[315] e poi imperiali-napoleoniche.

Mentre gli ideali neoclassici del Winckelmann e di altri teorici come il Mengs, il Sulzer (e ancora il D’Azara, il Fea, il Webb, il Reynolds) si riflettono nell’attività storico-erudita applicata alla storia delle arti figurative di cui è maggior rappresentante Luigi Lanzi (Treia nelle Marche 1739-Firenze 1810[316]), con la sua Storia pittorica dell’Italia dal risorgimento delle belle lettere fin presso al fine del XVII secolo, pubblicata a Bassano nel 1795-1796 (e ripubblicata corretta nel 1809), dominata dalla preminenza dell’arte greca e di Raffaello (continuato dall’opera dei Carracci e del Correggio) ma in una versione della «bellezza ideale» piú raffinata di grazia squisita e piacevole; è soprattutto nella vasta e originale produzione di Francesco Milizia (1725-1798)[317] che si può cogliere il maggiore e piú originale risultato del neoclassicismo settecentesco nell’ambito delle idee estetiche e del gusto e insieme in quello della stessa letteratura tardo-settecentesca in cui la prosa del Milizia ha un suo notevole posto per il vigore polemico, l’acutezza pungente delle osservazioni, in cui si associano l’impeto e la decisione di una chiara coscienza illuministica e la densità di una sensibilità (fra sensismo e preromanticismo) aperta alle inquietudini e al senso della complessità umana.

Perciò questo campione della «bellezza ideale» porta nel suo fondamentale indirizzo neoclassico una passione lucida e violenta, un gusto di grandezza – ma anche di utilità civile – che lo distinguono dai piú frigidi aspetti del neoclassicismo archeologico e da quelli piú aggraziati e morbidi del neoclassicismo ellenizzante e lo portano ad accentuare gli aspetti di «espressività» e di «caratteristica» delle opere d’arte e a puntare, ancor piú che sui Greci, sui Romani, per l’espressività delle loro statue e per la forza compatta e robusta dei loro maestosi edifici di cui sente insieme l’appello di suggestione grandiosa e piranesiana, nella loro attuale condizione di «superbe» rovine.

Tendenze che – sulla base di una fondamentale visione illuministica – si dispiegano progressivamente nelle varie opere del Milizia: dalle Vite de’ piú celebri architetti d’ogni nazione e d’ogni tempo (pubblicate nel 1768 e ristampate ampliate nel 1781 col titolo di Memorie degli architetti antichi e moderni), piú chiaramente legate all’idea illuministica di «progresso», ai Principii di architettura civile (1781) – in cui si associano neoclassicismo e funzionalismo estetico-civile con forte accentuazione illuministica nella destinazione[318] della nuova architettura ed urbanistica ad un popolo libero, «naturale» e illuminato dalla «ragione», da parte dell’architetto, non puro artista, ma «filosofo» e «buon cittadino» –, al vivacissimo opuscolo Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno secondo i principii di Sulzer e di Mengs (pure del 1781), all’operetta Roma, delle belle arti del disegno (1787) che esalta l’antica arte romana esteticamente armonica e pura, ma insieme robusta e civilmente funzionale, fino al Dizionario delle belle arti del disegno (1797) che, pur riprendendo molto materiale dalla Enciclopedia metodica del Panckoucke, in realtà non manca di originalità nella forte accentuazione di energia del «sublime-semplice» neoclassico e nella preminenza della figura umana:

Uomo – dice il Milizia sotto l’omonima voce del Dizionario – è la cosa piú preziosa per l’uomo. Egli si è posto fino sull’Olimpo... Non è limitarsi il ristringersi alla imitazione dell’uomo; è dare all’arte l’oggetto il piú bello, è offrirle lo scopo dove può giungere, è presentare la palma piú gloriosa che piú soccorre.[319]

Né a caso – a chiarire il tessuto morale e civile di questo interessantissimo teorico e critico del neoclassicismo – il Milizia si dedicò alla fine della sua vita ad un trattato sulla Economia pubblica, a cui era spinto sia dalla sua educazione genovesiana sia dalla stessa sua concezione dell’architettura ed urbanistica cosí strettamente collegata con riflessioni e posizioni circa l’economia come scienza fondamentale nella vita associata e pubblica: quella vita pubblica a cui il Milizia guardava in un incontro (piú forte in lui, ma non senza consonanze con tanti altri scrittori e lirici neoclassici) fra gli ideali illuministici e l’essenziale nodo neoclassico di «bello» e di «buono», di perfezione artistica e di perfezione morale:

Ecco lo scopo finale, il grande scopo delle belle arti del disegno. Senza di quest’oggetto il Parnaso non sarebbe che vanità e seduzione. Le belle arti col presentare il perfetto ci han da rendere perfetti.[320]

Mentre la diffusione degli ideali neoclassici di origine winckelmanniana trova – come vedremo – la sua piú alta traduzione poetica nel tardo sviluppo neoclassico della poesia del Parini, essa pur largamente – a parte quel caso eccezionale – incide sulle tendenze del gusto e della poetica per riflettersi insieme sulle piú dirette espressioni della letteratura e specie della lirica, in contrasto (ma poi anche in particolari accordi individuali) con le tendenze preromantiche.

Sarà anzitutto da considerare da tal punto di vista la vasta polemica che vari scrittori conducono sul problema del «gusto presente», o rispondendo direttamente al quesito posto dal concorso bandito dalla Accademia Virgiliana di Mantova nel 1781 («qual sia presentemente il gusto delle belle lettere in Italia e come possa restituirsi se in parte depravato»), o piú tardi ancora ad esso sostanzialmente ricollegandosi.

Già il fatto stesso di quel concorso e di quel quesito indica la situazione di imbarazzo e di crisi in cui molti letterati italiani si trovavano di fronte alla crescente invasione delle versioni preromantiche e al gusto di origine «oltremontana», nonché di fronte alle spinte del «filosofismo enciclopedico» e del praticismo di origine illuministica con l’inerente problema del linguaggio letterario sottoposto all’alterazione del «neologismo» straniero e deviato dalla sua funzione di bellezza estetica e dalla sua continuità tradizionale-nazionale. Sicché nelle risposte, variamente moderate o rigide, dei letterati che parteciparono alla discussione e al concorso, quelle che piú si attengono ad una posizione classicistica, rafforzata dalla nuova lezione neoclassica, possono configurarsi entro una specie di lotta su due fronti: contro una letteratura troppo utilitaristica e divulgatrice e contro il sentimentalismo e lo sforzo di sensibilità e di colori tetri e malinconici del preromanticismo.

Cosí – a parte la risposta piú preromanticamente orientata, anche se in forma moderatissima, del Pindemonte cui accenneremo piú tardi – anche in posizioni moderate, come quella di Matteo Borsa, si può ben cogliere questa duplice lotta siglata da significativi riferimenti all’aborrito Seicento come polo antitetico di una poetica di tradizione italiana-classica:

«Insomma,» dice il Borsa[321], «il Seicento fu gonfio per isforzo di fantasia, e per affettazione di ingegno; e il secolo presente lo è egualmente, non meno per isforzo di filosofismo, e di ragione, che per una affettazione indicibile di sensibilità e di morale». E se chiare differenze van poste poi circa la lotta contro il «filosofismo» fra chi, come l’Arteaga, piú prudentemente voleva salvare l’intervento della «ragione» in letteratura, smussando cosí l’attacco al «filosofismo», e chi, come Andrea Rubbi, piú fanaticamente combatteva, in forme di conservatrice xenofobia, ogni possibile rapporto con il filosofismo considerato pura importazione francese[322], comune era la lotta contro l’invasione delle versioni preromantiche e nelle loro diverse posizioni pure affioravano chiari aspetti della poetica neoclassica. Ché mentre l’Arteaga propugnava un didascalismo poetico alto e mitico, il Rubbi piú accanitamente difendeva l’assoluta preminenza della «bellezza» in letteratura, combattendo insieme lo stesso senso illuministico-classicistico dell’utile dulci e la preromantica fiducia nei nuovi contenuti sentimentali e malinconici.

Attacco alla nuova tendenza preromantica che diviene poi centrale (pur non mancando di punte contro il «filosofismo», «matematico» e «francese») nella polemica di un rigido conservatore e purista quale fu il roveretano Clementino Vannetti (1754-1795), specie nei suoi Dialoghi dell’Eremita[323] che costituiscono il documento piú esplicito di una condanna totale, di una satira e ridicolizzazione di ogni forma del gusto sentimentale-preromantico: younghismo, klopstockismo, wertherismo, ossianismo, sia per il loro stile-non stile, per il loro disordine e «furore», sia per i loro soggetti sforzati e morbosi. A questi modi e a quelli tratti dalla poesia «orientale-biblica» e dai misteri della religione (con chiaro riferimento alla poesia del Varano o a quella del Monti delle Visioni giovanili) il Vannetti opponeva, in una sua Epistola in versi, i soggetti romani e greci e l’imitazione della «bella natura»: in accordo cosí con la piú forte spinta del gusto neoclassico, il cui sviluppo può controllarsi anche nella prosecuzione della discussione sul «gusto presente» in piú tardi scritti come il Saggio metafisico sopra l’entusiasmo nelle belle arti di Agostino Paradisi, che corregge la formula bettinelliana dell’entusiasmo definendolo «quel piacere che gusta l’anima nell’associare alle idee della bellezza gli attributi della perfezione»[324]; o come quello di Ignazio Martignoni (Del gusto in ogni maniera di amene lettere ed arti del 1793) che contrappone ancora al «fatal contagio» delle letterature nordiche l’antidoto della imitazione della «bella natura» e dell’assiduo studio degli «ottimi esemplari» classici.

Entro queste direttive di gusto la lirica di tipo classicistico si fa sempre piú chiaramente «neoclassica», anche quando parte dal modello classicistico-rococò del Savioli, specie in quell’ambiente emiliano che costituisce una delle componenti piú efficaci di una generale «scuola lombarda» opposta decisamente al persistere arretrato di una melodia facile e arcadica localizzata soprattutto nel Meridione e chiamata dai neoclassici «facilismo meridionale»[325].

Cosí nelle stesse poesie, piú ricalcate sul modello savioliano, del modenese Luigi Cerretti (1738-1808[326]) si può avvertire l’affiorare di una maggiore distensione neoclassica in corrispondenza con ideali neoclassici di saggezza etico-artistica, di accordi di «buono» e di «bello» che superano di fatto il gusto edonistico e rococò del modello

(Me pur d’agi e di gloria

non fêr grandi avi erede;

ma schietto cor, ma candidi

costumi e intatta fede...)[327]

e, sulla via di questa tematica neoclassica di purezza interiore e di bellezza pudica ed eletta, lo stesso ritmo perde il suo passo piú vivace e brioso, le immagini si intonano ad una figuratività piú lieve e tanto meno colorita.

E se nell’attività piú varia e irrequieta del Cerretti – che tentò anche novelle di tipo preromantico e componimenti teatrali e che nella stessa direzione neoclassica tentò spesso piú confusi e velleitari esercizi di grandiosità grave e solenne – la ricerca della «nobile semplicità» e della «tranquilla grandezza» rimane piú debole e meno sicura, piú intimamente gli ideali neoclassici etico-artistici animano l’attività poetica di Agostino Paradisi e, ancor meglio, quella di Francesco Cassoli.

Il primo (nato a Vignola nel 1736 e morto nel 1783 a Reggio dove prevalentemente visse, letterato e studioso di scienze economiche e storiche e per alcuni anni professore di economia civile nell’università di Modena) si caratterizza per un piú chiaro raccordo fra una saggezza illuministica, da lui cosí profondamente partecipata nella sua attività di studioso e di uomo civile, e la spinta del gusto neoclassico ad una nuova e perfetta misura etico-estetica, rafforzata dallo studio esemplare dei classici, e in ispecie di Orazio, e tradotta in forme di ritmo, di linguaggio, di immagini pure e «caste», sottratte alla semplice discorsività prosastica e alla semplice versificazione di astratti ragionamenti[328] e insieme alla brillante figuratività rococò.

Come può vedersi da un passo della sua poesia A Minerva in cui chiari ideali illuministici trovano una efficace soluzione neoclassica che aggiunge, alla equilibrata forza di quelli, la sua misura etico-estetica, la sua parca immaginosità, il suo ritmo pacato, il suo linguaggio sobrio e depurato attraverso la lezione dei classici:

O sapienza, o de’ mortali amica

diva, che pochi nel tuo tempio accogli!

Io veggo sí quella tua stanza aprica

sublime in vetta de’ sublimi scogli.

Felice chi vi giunse! ivi non freme

Gradivo atroce fra le spade e i dardi

sul grave cocchio, che tardato geme

fra i membri infranti e i laceri stendardi.

Non ivi di facondia contumace

al reo sillogizzar paventa il dritto:

ivi di liti ignaro il foro tace

e vacui nomi son pena e delitto.

Non ivi, macra per diurne ambasce,

turba frequente e cupida s’aduna,

cui lunga speme e inutil aura pasce,

supplice e curva ad adorar fortuna.

Né superstizion crudele e sorda

invola ai padri i figli amati e cari,

ai mariti le spose, e i dritti scorda,

o svena ostie innocenti agli empi altari;

ned ivi l’are di sanguigno scempio

tingonsi a l’ulular del popol denso:

del pacifico nume ogni alma è tempio;

virtú, sola ministra, offre l’incenso.

Lenta varcando ognor di lume in lume

ragion, cui virtú segue ed accompagna,

né di tutto saper essa presume,

né con stupor tutto ignorar si lagna.

Accesa a lei del ver la face brilla,

fulgida come lampa in negra notte,

limpida come l’onda che zampilla

fra sasso e sasso da l’alpine grotte.

Su l’arche gravi d’or Cremete esulti,

ceni Apicio le cene oltre l’aurora,

Criton superbo a ignobil plebe insulti

e coi numi del suol faccia dimora;

io te, Minerva, seguo: ne’ miei voti

io te desio mia speme unica e sola;

sacri a te fien miei giorni, al volgo ignoti,

ignoti a lei che su la ruota vola.[329]

Tanto meglio il reggiano Francesco Cassoli (1749-1812) sviluppa la sua tenue, ma sincera poesia al di là della base savioliana e in una versione molto coerente di un orazianesimo, comune particolarmente a quei lirici emiliani, ma da lui svolto in un tono pacato ed intimo di saggezza raccolta e persuasa, di culto sincero della poesia, eliminando di Orazio quel «sale» e quel «brillante» che erano stati prediletti dai classicisti piú edonistici e rococò.

Nato a Reggio Emilia ed ivi vissuto (salvo alcuni lunghi soggiorni a Milano, dove fu amico del Parini e del Passeroni e poi fece parte del corpo legislativo della Repubblica Italiana), il Cassoli è certo il piú interessante di questi piccoli lirici neoclassici della «scuola lombarda», quello che con maggior fedeltà, e personale ispirazione, visse e tradusse poeticamente (non senza un riassorbimento molto riuscito di piú tenui aperture al sentimentalismo preromantico) una persuasa idealità di saggezza e di virtú confortata coerentemente dalla ispirazione alla perfezione morale ed artistica dei classici (specie Virgilio ed Orazio, di cui fu notevole traduttore[330]), sentita insieme nella sua lontananza e nel suo essenziale tramite per ogni nuova esperienza poetica.

Si rileggano questi versi da un componimento diretto all’amico Fantuzzi:

io, le noiose ore e il timor del peggio

ad ingannar, tocco talor mia lira

che virtú bella inspira,

o con Flacco e Maron Tivol passeggio

Troia, l’Eliso, e lieta

nel respirar quell’aura io son poeta[331]

e si avvertirà in essi la voce modesta e sincera di questo nobile sogno poetico svolto in un ritmo pensoso e rallentato cosí lontano ormai da quello savioliano.

Linguaggio, forme metriche, miti e immagini vengono scelti ed usati in vista di una poesia piú meditativa e smorzata, pausata e distesa in forme piú lineari e rallentate, meno preziose e brillanti, adatte ai sogni e alle aspirazioni di animi raccolti nella contemplazione e nell’esercizio del «bello e buono», di una quiete romita, fra lievemente malinconica e consolata da sentimenti ricercati nei classici e vissuti in un ideale rinnovamento etico-estetico, che spenge i piú urgenti motivi utilitaristici e pragmatici della poetica piú chiaramente illuministica non senza però appoggiare una piú mediata ed intima funzione civilizzatrice ed educatrice della poesia, mentre – in forme tanto meno sensuose e compendiose di sensazioni vive – non manca di portare in evidenza, nella sua luce alquanto smorzata, elementi della «bella» e «pura» realtà sottilmente filtrati attraverso il rinnovamento di immagini attinte ai perfetti modelli classici.

Sarà cosí l’immagine amata della lucerna elogiata dal Cassoli come strumento e simbolo della sua vita raccolta in meditazione, studio, poesia:

Non l’aureo sol, che altero

il dí portando in fronte

s’alza su l’emisfero,

e in piano immenso e in monte

imperioso appare

e si fa specchio il mare;

non ei, benché tesori

sparga di luce e mille

oggetti a me colori,

non s’offre a mie pupille

sí lieto e sí giocondo

l’allegrator del mondo,

come l’esil fiammella

che lingueggiando more

da te, mia fida ancella,

lucerna, e dolce piove

del cor nel piú secreto

il suo chiaror quieto.[332]

O sarà l’immagine-tema della solitudine (nell’omonimo componimento) cui il poeta collega insieme il suo elogio di una modesta e sobria felicità interiore e alcuni lineari e pallidi paesaggi di estrazione virgiliana:

Felice l’uom che a sé bastando e sciolto

da frivoli desir, da vani uffici,

spesso alla turba involasi, raccolto

d’oscurità tranquilla in luoghi amici!

Là nol molesta con romor procace

falsa sovente e sempre mai leggera

loquacità, né avvien ch’arte mendace

di vender lodi orecchio e cor gli fèra.

Là fra i diletti non s’affaccia a lui

sazietà che a sé medesma è peso,

né legge il grava di velare altrui

l’augusto ver da cui l’orgoglio è offeso.

Né del potente urta ne’ guardi alteri,

né fraudi ha intorno di rapace gioco,

o di sordo livor disegni neri

o petti ardenti a non concesso foco.

Ben, dalle colpe lungi e dal timore,

l’alma de’ morti, che ne’ libri è viva,

attento svolge, e del saper l’amore

le vigili lucerne a lui ravviva;

[…]

Talor alto fumar le ville intorno

e i pastor vede ricondur la greggia,

che per l’aperto pian col breve corno

l’ardir rivale in provocar festeggia;

mentre sul lontanissimo orizzonte,

che confonde col ciel l’azzurro lembo,

spoglia il cadente sol de’ rai la fronte

o alle cangianti nubi indora il grembo...

Cosí, quando maggior dai monti l’ombra

cade, e il piè lento all’abitato ei move,

dell’alte idee soavemente ingombra

s’accende l’alma a generose prove;

e del dover l’immago ha ognor sul ciglio

fra i brevi sonni, fra la parca mensa,

ed il favor dell’opra o del consiglio

all’indigente suo simil dispensa;

mentre il folle vulgar, di vòto in vòto

seco traendo della noia il duolo,

erra inutil vivente, a tutti noto

fuor che a se stesso, e in mezzo a mille solo.[333]

Né si dimentichi infine la consistenza e durata dello sviluppo ancor piú tardo di questa tendenza della lirica neoclassica intorno al prevalere di temi «casti» e «nobilmente semplici», di sentimenti misurati e gentili, a cui il ritmo e le immagini coerentemente si adeguano in forme distaccate e pausate, lievemente luminose piú che fortemente colorite e brillanti, e di cui può essere esempio un passo come questo tratto dal componimento di Giovanni Paradisi (1760-1826, figlio di Agostino, scienziato e politico del periodo napoleonico) A Lesbia per le nozze del Marchese Forghieri:

Tu, quando l’alba del carro lucido

abbia versato fragranze e porpore,

corri al giardino e svelli

i fior piú belli – che dischiude il sol;

poscia, succinta e di vel candido

ombrata, i fulgidi sguardi e il crin nitido,

va dell’amico ai lari,

e i casti altari – ne cospargi e il suol.

E se lo sposo t’avvieni a scorgere

tra servi e ancelle che all’opre sudano

della splendida festa,

dolce e modesta, – gli dirai per me:

che ben vorrei fregiar di numeri

dircei l’eletto connubio, e memore

di quell’allor che solo

contra uno stuolo – su l’Iseo mieté,

cantar d’ogni inclita sua prova e spargere

di lodi il mite senno, ond’ei gl’impeti

del mobil volgo ammorza

pria che la forza – opri col duro fren.[334]

Se già un Cerretti sporadicamente tentava toni grandiosi, negli ultimi decenni del secolo piú chiaramente si profila anche una tendenza a realizzare gli ideali neoclassici in forme piú grandiose e vaticinanti, ambiziose di una bellezza meno lineare e «nobilmente semplice».

Tendenza lirica che meglio si precisa nell’ambiente di Parma, già cosí vivo in zona illuministica (grazie all’opera del Du Tillot e alla presenza del Condillac), ed ora divenuto uno degli ambienti neoclassici piú fervidi, sia nel rinnovamento edilizio neoclassico della «nuova Atene», sia nella esemplare classicità tipografica del Bodoni, sia nell’educazione classica dello Studio con insegnanti come il grecista Pagnini o il Paciaudi.

La ricerca di un neoclassicismo grandioso e piú eclettico si fondava anche sull’eredità frugoniana ed infatti allievi ed esaltatori del Frugoni furono i due scrittori che meglio rappresentano tale tendenza: Carlo Gastone della Torre di Rezzonico e Angelo Mazza. Il primo – nato a Como nel 1742, ma poi vissuto prevalentemente a Parma fino al 1785, quando fece lunghi viaggi in Francia, Inghilterra e Germania, per poi passare a Roma e a Napoli dove morí nel 1796 – partiva all’inizio del suo lungo e vario esercizio poetico da piú generiche ed eclettiche riprese frugoniane e da una piú incisiva fedeltà alle odicine savioliane classicistico-rococò (specie nelle sue numerose poesie per nozze). Ma presto egli fu attratto dagli ideali neoclassici del Winckelmann di cui tentò persino una vera e propria trascrizione in versi delle celebri pagine sull’Apollo del Belvedere in quel poemetto incompiuto, Agatodemone, che, insieme ad altri poemetti encomiastici in lode della nuova Parma neoclassica, ben indica il passaggio del Rezzonico ad un piú preciso gusto neoclassico e «greco»[335], volto a travestire classicamente la vita contemporanea, nella direzione di una solennità grandiosa.

Ed è appunto in questa versione piú grandiosa, eroico-celebrativa, mitico-didascalica che il neoclassicismo del Rezzonico – confermato, nella sua base neoclassica piú generale e nella sua versione piú solenne, anche in scritti direttamente dedicati alle arti figurative[336] – si configura sia piú direttamente nei componimenti celebrativi d’intonazione eroica, sia negli stessi poemetti didascalici e scientifico-filosofici (L’origine delle idee, Il sistema dei cieli) che, mentre si ricollegano alla poetica illuministica e sensistica (non senza il richiamo ai tentativi piú divulgativi del Frugoni), spingono in realtà le istanze di una poesia filosofica verso una concezione piú neoclassica di poesia didascalica alta e rivelatrice di verità difficili, avvolta in un’aura contemplativa e solenne, compiaciuta della propria analogia con la poesia degli antichi vati fondatori di civiltà, rispetto alla quale risultano inferiori l’impegno descrittivo e l’intento di divulgazione poetica, piú tipici della poesia didascalica del periodo illuministico.

Concezione e aspirazione che campeggiano, a ben vedere, nello stesso Ragionamento sulla volgar poesia dalla fine del passato secolo ai giorni nostri[337], documento sí di un’adesione decisa al condillachismo, ma in una versione che valorizza al massimo – contro il barocco e la musicalità metastasiana-arcadica sopravvivente nell’aborrito «facilismo» meridionale[338] – la buona volontà del Chiabrera e del Testi, i tentativi «alti» di Filicaia e Guidi, la lezione esemplare del Gravina quanto ad una poesia «custode di arcana scienza», e dunque in una direzione di neoclassicismo grandioso e mitico-didascalico, che trova piú diretta espressione in componimenti epico-lirici, in odi e canzoni celebrative, che – tanto al di là di piú giovanili riprese del sonettismo grandioso del Frugoni – portano in luce gli esempi piú tipici di questa velleità grandiosa specie in forma di rievocazione mitico-storica a forte rilievo[339] che poterono attrarre l’attenzione del Foscolo nei Sepolcri.

Cosí, raccogliendo alcuni dei lacerti piú significativi di una poesia incapace di vera organicità, ma scossa da punte piú intense anche nell’esercizio di una lirica religiosa d’intonazione epico-lirica[340], si potranno ricordare sequenze di versi assai probanti per questa tendenza neoclassica piú enfatica e ambiziosa:

Col nuovo gregge andrai

di Maratona a spaziar sul lito,

e ne’ silenzi della notte udrai

squillo di trombe e di destrier nitrito,

ch’ivi pugnano ancor l’ombre sdegnose

de’ Persi arcieri, e degli astati Achei.

Un cippo a’ spenti Eroi la patria pose,

l’aligera Vittoria alzò trofei...[341]

...al solo Fato

cesse, e fra l’ombre degli eroi mischiossi...[342]

Dal Ciel principio abbian le Muse e chiari

per vanto di pietade oltre la pira

vivan gli eroi...[343]

L’altro rappresentante di questa tensione ad una lirica alta ed ardita, messaggera di verità «arcane», fondata su principi neoclassici, ma sdegnosa di una semplice bellezza lineare e composta, è l’altro «vate» parmense, Angelo Mazza, nato nel 1741, allievo a Reggio dello Spallanzani e a Padova del Cesarotti, e poi vissuto sempre a Parma, dove fu professore di greco allo Studio (perdé la cattedra durante il periodo repubblicano e napoleonico per le sue idee conservatrici e spiritualistiche) e morí nel 1817.

Personalità confusa e irrequieta (fra aspirazioni a nuovi ordini civili e religiosità spiritualistica), il Mazza traeva dalla sua formazione frugoniana una eclettica disponibilità a varie forme di esercizio poetico e insieme un piú congeniale gusto celebrativo e vaticinante che si rinforzò nella piú decisa adesione alle idee neoclassiche, da lui risentite soprattutto intorno al tema dell’«armonia», della «bellezza armonica ideale», animatrice della vita e di tutte le arti, capace di «disacerbare» le affannose cure dei mortali[344] e insieme di sollevare i loro animi, attraverso una concitazione «sublime», ad una sfera superiore di perfezione e di ordine, su di una direzione che poté interessare il Foscolo, a vari livelli della sua attività e specie nelle Grazie.

Per questa via – su cui incideva anche la lettura e traduzione di poeti inglesi come Dryden e Akenside[345] – il Mazza superava le direzioni piú marginali del suo esercizio poetico (la direzione del classicismo edonistico e rococò del Savioli in numerose odicine erotico-nuziali[346] o quella di componimenti satirici «piacevoli») e si concentrava in un’attività di «vate», di cantore di «suggetti morali e metafisici» che egli sentiva come particolarmente suoi[347] e riferiva alla originaria e graviniana idea del poeta teologo e legislatore, esemplarmente realizzato nella felice età greca e nel mitico Orfeo:

Uomini fe’ di belve

che in uman volto erravano

il vate che col suon trasse le selve:

prese dolcezza i ferrei

petti e la gioia social gli aprí.[348]

Ne nacquero soprattutto i numerosi componimenti incentrati sul tema dell’armonia (inni, odi, poemetti, come quello sul «bello armonico» o quello intitolato la Grotta platonica) che spiccano per il loro incontro frammentario ed ibrido – ché nel Mazza prevale un impeto grandioso e velleitario mal capace di intere costruzioni organiche – fra una spinta vogliosa e inquieta di visioni turbate e solenni, di cosmica grandiosità messianica tradotta in scatti e immagini isolatamente suggestivi («i voti spazii de lo scuro oblio», «i vani interminati aerei campi», «l’ampiezza interminata di cerulei mari») e piú distese figurazioni mitiche-allegoriche volte a tradurre il sentimento dell’armonia e la sua efficacia nella vita dolorosa e tormentosa dell’uomo:

Eufrosine che ha sempre il gaudio in fronte,

il sorriso sul labro, in cor la pace;[349]

o la melodia che spira nell’anima

aura sottil d’armonico concento

che nel sen del dolor desta la gioia

e giustifica all’uom l’opra di Dio;[350]

o questa figura di Pallade che presso

com’era d’un padule, in sul cannoso

margin s’adagia e al gomito s’appoggia.

D’un zeffiretto leggerissim’ala

increspa a caso il liscio pian dell’acqua,

che, mentre quel sospira infra le canne,

con dolcissimo fremito sussurra.[351]

Cosí questo poeta mancato, ma non privo di una sua iniziale tensione poetica, segna – entro le linee di un neoclassicismo che si sviluppa e si complica con interpretazioni diverse e, se non eterogenee, rischiose agli occhi dei neoclassici piú fedeli all’eleganza e alla purezza formale – un significativo momento di tale complesso svolgimento e di una crisi in lui non risolta e documentata nel suo stesso linguaggio poetico[352]. E mostra, d’altra parte, come nell’ultimo Settecento la poetica neoclassica potesse raccogliere anche impulsi poetici che nel suo seno potevano apparire piú azzardati e irrequieti, insoddisfatti della semplice perfezione formale e pure incapaci di vivere fuori di quella poetica, prima che, con ben diversa forza di poesia e con ben diverso impegno nella storia viva del proprio tempo (e ben al di là dell’esperienza importante, ma piú laterale e letteraria del Monti), il Foscolo venisse ad attuare la sua originalissima sintesi di romanticismo neoclassico.

Di una versione assai ibrida e rumorosa delle tendenze neoclassiche, tese al grandioso e all’eroico e al recupero della poesia classica anche nelle forme metriche, è infine rappresentante – per una parte vistosa della sua vasta produzione poetica assai volubile e composita entro accettazioni piuttosto superficiali di modi e mode del gusto contemporaneo – quel Giovanni Fantoni (Fivizzano 1755-1807) che, dopo esperienze di canzonettismo galante e di retorici esperimenti preromantici nella direzione «notturna» e younghiana in una moda spinta fino al ridicolo o in quella idillico-elegiaca gessneriana, si volse soprattutto nelle Odi alla ricerca di una poesia celebrativa e parenetica appoggiata all’esempio di Orazio, di cui fu notevole traduttore, e ad una velleità di rinnovamento della poesia italiana sia per un impegno storico-politico, sia per il linguaggio enfaticamente classicistico, insaporito dal frequente inserimento in esso di nomi stranieri moderni, sia per l’uso di versi «barbari» in realtà assai goffi e approssimativi.

Non che il suo interesse ideologico-politico, che dal riformismo illuministico lo portò ad una posizione repubblicana e democratica «italiana» e «indipendentistica» che gli procurò persecuzioni e carcere, fosse insincero e insincera fosse la sua aspirazione ad una forma poetica piú classico-moderna. Ma la sua ispirazione era confusa e vaga e la sua prospettiva di vate sdegnoso e libero si realizzava in una retorica molto convenzionale e priva di modulazioni piú eleganti e tranquille o di movimenti piú frammentariamente impetuosi di altri lirici neoclassici settecenteschi. E la stessa vicinanza tematica con passi delle Odi pariniane, come questo finale dell’ode Al merito, fa tanto piú avvertire la sproporzione fra le velleità e le possibilità del Fantoni:

Né spargo i versi di mentita frode,

né schiavo rendo il libero pensiero:

sacra a me stesso e all’immutabil vero

è la mia lode.

Me non seduce l’amistà, non preme

bisogno audace, né venal timore;

stolta non punge d’insolente onore

avida speme.

Libero nacqui: non cangiò la cuna

i primi affetti: a non servire avvezzi,

sprezzan gli avari capricciosi vezzi

della fortuna.[353]

Non dovrà trascurarsi – sul lungo filone delle traduzioni che costituisce, ai vari livelli di gusto e di poetica, un appoggio fondamentale all’attività originale della poesia settecentesca – quanto alla poesia neoclassica viene dallo stimolo del nuovo impegno nella versione di classici, specie greci, e addirittura dal diretto contributo di linguaggio poetico, e sin di esempi a lor modo realizzati in nuova poesia, entro quelle versioni. Si pensi almeno (dei traduttori neoclassici, e dei poeti-traduttori come Luigi Lamberti, nella zona fra Monti e Foscolo, si tratterà nel successivo volume di questa Storia) al caso rilevantissimo di quell’eccellente traduttore neoclassico che fu il pistoiese Luca Antonio Pagnini (1737-1814, frate carmelitano, vissuto soprattutto a Parma), autore – a parte piú deboli poesie personali – di importanti versioni da poeti latini e greci e da Pope: notevoli soprattutto quelle in endecasillabi sciolti della catulliano-callimachea Chioma di Berenice, dei «bucolici» (Teocrito, Mosco e Bione), delle poesie di Callimaco, delle Pastorals di Pope (uscite a Pistoia col titolo Le quattro stagioni, nel 1791).

Mentre un confronto con precedenti versioni di uguali componimenti in epoca di primo Settecento mostrerebbe chiaramente lo spostamento del «tradurre» del Pagnini in zona neoclassica per la sua ricerca, spesso assai ben realizzata, di «nobile semplicità», di ariosa e pacata musicalità (di fronte a rilievi piú coloriti e «leggiadri» dei traduttori arcadici o a quelli sensorialmente piú compendiosi di traduttori classicistico-sensistici), un lettore provveduto non può non avvertire come nei versi del Pagnini la resa dei testi classici si realizzi in un discorso poetico fluido e raffinato, sereno e sottilmente nostalgico (nella ripresa e nel sospiro di un mondo classico, simbolo concreto di perfezione e serenità), che appare già avviato al tipo di discorso poetico che il Foscolo realizzerà – soprattutto nelle Grazie – in grande e originale poesia. Come possono mostrare anche questi brevi frammenti di una poesia-traduzione il cui autore fu proprio dal Foscolo altamente elogiato come «benemerito piú ch’altri mai della poesia greca»[354]:

dove aereo

stuol di palombi si ripara al covo...

ploran gli affanni di Ciprigna i fiumi,

gemon sulle montagne Adone i fonti..,

selva opaca

ove il pin de’ gran venti al soffio canta...

o rosignuoi ploranti in dense frasche...[355]

O questi altri, in cui il Pagnini cerca un ritmo ed una linea che adeguino e rilevino piú minutamente e continuamente le suggestioni piú riposte del testo (il catulliano Epitalamio di Peleo e Teti) ricreandovi sopra, senza travestimento e «rimbiondimento», una propria accentuazione figurativo-musicale:

Che le Nereidi, fieri volti, usciro

dal bianco golfo, il gran mostro ammiranti.

In quel dí, né mai piú, vide occhio umano

ninfe marine con le membra ignude

fuor de’ candidi gorghi infino al petto.[356]

12. La letteratura preromantica fra moda, estremismo e sintesi preromantico-neoclassica

Nell’urto e nell’incontro fra tendenze neoclassiche e preromantiche l’affermazione e diffusione delle seconde vengono sempre piú rafforzandosi negli ultimi decenni del secolo e si manifestano spesso anche in forma di moda (piú che di adesione e di scelta consapevole) nelle stesse raccolte poetiche motivate da «occasioni» (monacazioni, nascite, morti e nozze illustri) persino quando proprio l’«occasione» meno sembrava prestarsi all’offerta di componimenti di tono lugubre o almeno «malinconico».

E cosí in un volumetto di versi per nozze (Applausi poetici per le ben augurate nozze della nobil donzella Camilla Parensi con il N.H. il signor conte Raffaele Manzi, patrizio lucchese, Lucca 1792) potremo trovare – come esempio di caso limite entro una simile raccolta nuziale – un «componimento malinconico» del conte Antonio Cerati[357] (1750-1816), che mescola all’occasione lieta il luttuoso tono del suo animo malinconico e sembra compiacersi di tale mescolanza nuova e addirittura stravagante:

In tanto lutto, in dolor tanto

cerco invan liete idee, carmi d’amore,

stillano gli occhi affettuoso pianto,

palpita e langue intenerito il core,

né vuole l’agitata fantasia

che color foschi di malinconia...

Le raccolte poetiche si riempiono di liriche e poemetti che trattano, con varia abilità letteraria, gli argomenti sepolcrali, notturni, rovinistici, idillico-elegiaci tratti direttamente o indirettamente dall’Ossian, dalle Notti dello Young, dagli Idilli di Gessner, dal Werther, cercando un nuovo tipo di bello, «il bello sepolcrale» (come si intitola un poemetto del Rubbi), o un nuovo tipo di paesaggio notturno e funereo, come nel caso di un componimento di Ubertino Landi, Il museo della morte (catalogo di «orrori poetici» ben significativo di un gusto divenuto moda letteraria e sentimentale), in cui alcuni versi sembrano direttamente ispirarsi all’incisione che apre la traduzione francese (del Le Tourneur) delle Notti, con il suo tetro effetto di una lampada che illumina il tenebroso sepolcro di Narcissa:

Spira e tremore e lutto

pallido lume e tardo,

che balena da lunge,

non toglie no, ma aggiunge,

non scema ivi, ma accresce

a l’ombre il fosco, ed esce

da quel tetro fulgore

piú che conforto, orrore.[358]

E all’attrazione dell’orrido e del selvaggio si piegano cosí anche scrittori di preciso gusto classicistico e neoclassico come impreziosimento – assai edulcorato e riassorbito in forme piú medio-settecentesche di una nuova forma di «piacere»[359] – di componimenti mossi centralmente in altra direzione di gusto.

Ma accanto a simili forme di moda e di uso ornamentale di temi e immagini di tipo preromantico – che di fatto ne stemperano la novità e il valore in una voracità di assimilazione e di utilizzazione letteraria di tipo frugoniano, di riassorbimento eclettico di ogni novità offerta dalle mode piú diverse – non mancano esempi contrari di adesione estremistica alle indicazioni contenute nelle versioni preromantiche e a quell’incontro di descrizione di paesaggi sconvolti e in tensione e di drammatica espressione di scomposti e disperati atteggiamenti psicologici che predomina in una specie di poetica del deforme e del brutto, seguíta in forme esasperate e antiarmoniche, piú periferiche rispetto alle linee di mediazione e di armonizzazione che troveremo in piú sicure e sensibili prospettive di scrittori di ispirazione preromantica, ma bisognosi di una sigla formale colta e stilisticamente accurata.

Fra gli esempi di estremismo preromantico in forma piú costante e personalmente partecipata, sarà da ricordare quella specie di poète maudit dell’epoca, quel «Solitario delle Alpi» (pseudonimo del ligure Ambrogio Viale 1770-1805) che nei suoi Canti del Solitario delle Alpi, nei suoi Versi e Rime (volumi pubblicati a Genova nel 1792, a Torino nel 1793 e ancora a Genova nel 1794) esprime violentemente, e con rozzo rifiuto di ogni armonia e cura stilistica, un confuso impeto di disperata e vittimistica infelicità personale accordata con la rappresentazione di paesaggi orridi, desertici, solitari, con cupe visioni cimiteriali e spettrali e allegorie pessimistiche e ossessive.

Come in questa visione del Nulla e delle ombre dei morti (con suggestioni delle versioni younghiane e ossianesche e del visionarismo del Varano):

Leva il Nulla la fronte scolorita,

e sogguardando torbido e sparuto

sull’orlo sta di sua casa romita,

e con la man lugubremente muto,

dell’ossa mie, che dal suo grembo usciro,

chiede accennando l’ultimo tributo...

Ombre dei morti, i concavi occhi in giro

tinte di cerchio di color di piombo...[360]

o come in questa descrizione di uno squallido paesaggio sentito in accordo con il dolore che «strazia» l’anima:

Qui d’irte balze, e solitari tufi

fra il tetro orrore, e il lamentar funesto

de’ pellicani, e lungo-urlanti gufi,

io, che del Mondo i lusinghieri incanti,

i fantasmi leggiadri odio e detesto,

a voi l’arpa consacro e i tristi canti

che dall’una gemendo all’altra aurora

sfogar liberamente almen potrei

il dolor che mi strazia e mi divora.[361]

Mentre esempio di un piú momentaneo estremismo preromantico è una parte dell’attività del siracusano Tommaso Gargallo (1760-1842), passato poi al piú strenuo classicismo, ma che soprattutto in una novella in prosa e in versi, Engimo e Lucilla[362] (narra di un amore infelice e ai limiti dell’incesto – almeno tale creduto dall’uomo – fra due giovani e culminato nel suicidio dell’innamorato), spinge all’eccesso – sia nella parte in prosa sia, e piú, in quella in versi – l’uso e la resa febbrile e scomposta del materiale piú orrido e tetro derivato dalle versioni preromantiche nell’immaginazione di paesaggi angosciosi («l’acqua gocciar da cavi tufi», e «un lungo ululo di upupe e gufi», «un volgere di fiumi taciturno») e sin nella esasperazione grottesca di particolari scene di ferocia brutale:

e già v’immerge il dente, ed ancor vivo

guizza il cor, si convelle, e sotto i denti

sgorga il sangue dal grifo a doppio rivo.[363]

Né fra gli esempi del gusto preromantico saranno da trascurare le Elegie funebri che Salomone Fiorentino (1743-1815) – dopo un’attività di sonettista frugoniano e di scrittore di poemetti encomiastico-didascalici – scrisse indirizzando una ripresa di toni petrarcheschi e danteschi ad una piú tormentata enfasi sentimentale sia nella drammatizzazione novellistica di una vicenda di suicidio (Per il suicidio di Neera), sia nel compianto appassionato della moglie morta:

Ahi sposa! ahi sposa! un vol d’ombra fugace

fu il breve trapassar de’ tuoi verdi anni

e un vol fu la mia gioia e la mia pace!

... Qual resta il fior, se una nemica aurora

trattien sul grembo l’umida rugiada,

che il curvo stelo e l’arse foglie irrora

tale io restai, poiché l’adunca spada

di morte a me ti tolse, e lunge spinse

te per ignota interminabil strada...[364]

E tanto meno potranno trascurarsi gli avvii di una poesia preromantica – che poté colpire come anticipo di romanticismo «1816» il Di Breme e il Manzoni – offerti dall’opera vasta e prolungata entro il vero e proprio romanticismo, con tragedie, poemi e novelle (di argomento medievale), di Diodata Saluzzo Roero (Torino 1774-1840), sulla via della romanza romantica e su quella di componimenti piú complessi a fondo storico-nostalgico come la celebre poesia Le rovine, che fu considerata appunto dal Di Breme e dal Manzoni essenziale esempio della «nuova poesia» o almeno (nel piú cauto omaggio manzoniano[365]) «del nuovo modo della poesia»:

... Salve, o sacra rovina; io seguo,

e schiudonsi innanzi al lento e traviato passo

le doppie torri; io meditando siedomi

sul duro sasso.

Oh! come brune l’alte cime incurvansi

de’ larghi muri, ove penètra appena

di luna un raggio, che la dubbia e pallida

luce qui mena.

Perché ferrate le finestre altissime,

ed è merlata la superba torre?

No, non qui ’l prode la lorica armigera

solea deporre.

Qui forse, mentre un molle riso ingenuo

la verginella in dolce sogno apria,

al bel raggio di luna, occulta e perfida,

l’oste venia.

Forse da quelle alte finestre videsi

entrar talvolta del castello avverso

il reo signor, all’empie smanie vindici

d’ira converso.

Forse qui stretto il suo pugnal, lentissimo

moveva il passo fra tacenti squadre,

e ai fanciullini sul materno talamo

svenava il padre...[366]

Ma se la tematica rovinistico-nostalgica è qui decisamente preromantica e il tono d’insieme, il sospiro e la melanconia del passato, sono pur chiaramente preromantici, non può tuttavia non avvertirsi nella cura stilistica e nella stessa cadenza della saffica il frutto di un’attenzione a forme neoclassiche, che allontanano decisamente la Saluzzo dagli esperimenti piú estremistici prima ricordati.

Al centro infatti della zona tardo-settecentesca la sensibilità preromantica troverà molteplici modi di accordo con la lezione e i modi stilistici neoclassici, variamente moderando o contemperando con quelle le sue spinte piú eversive e sfuggendo alle forme piú grezze e contenutistiche dei piú marginali esperimenti estremistici in sintesi non facili, di cui l’esempio piú felice e delicato resterà la poesia pindemontiana. Ma prima di parlare dell’esperienza del Pindemonte occorrerà almeno rifarsi piú direttamente ai casi pur ben notevoli di Alessandro Verri e di Aurelio Bertola.

Già vedemmo come nel giovane Alessandro collaboratore del «Caffè» si potesse avvertire una tensione di sensibilità e un paradossale gusto di contrasto fra cuore e ragione, fra errori utili e frigida saggezza calcolatrice che, pur inquadrandosi entro le spinte stesse della complessa civiltà illuministica e sensistica, poteva permettere un cauto rilievo di spunti sviluppabili in un piú chiaro predominio del sentimento in direzione preromantica.

Ed infatti chi consideri poi lo sviluppo piú tardo di Alessandro Verri – ben calcolando l’incidenza dell’ambiente romano in cui faticosamente ma stabilmente, in seguito alla sua passione per la marchesa Lepri di Boccapadule, egli si inserí – non può non accorgersi che il lento prevalere in lui di aspetti conservatori e cattolici (rispetto al suo giovanile entusiasmo illuministico) è parallelo al passaggio dalla impetuosa polemica contro i pedanti e i tradizionalisti in lingua e in letteratura ad una posizione di classicista intonata agli appelli del grandioso neoclassico winckelmanniano. Posizione però che, mentre si distingue dalla tensione neoclassica alla «nobile semplicità» – ché anzi nel Verri si accentuò una tensione al grandioso, all’enfatico, a un gusto cupo e tormentoso della grandezza dei classici e delle rovine romane –, non mancò di alimentarsi di chiari elementi del gusto preromantico, anch’esso non tanto nelle versioni piú idillico-elegiache, quanto in quella piú cupa e pessimistica specie nelle sue scaturigini younghiane.

In questa seconda direzione il Verri si avvicinò con simpatia al grande teatro shakespeariano di cui tradusse alcune tragedie e da cui ricavò la spinta ad alcuni suoi propri «tentativi drammatici» (e cosí significativamente li intitolò pubblicandoli a Roma nel 1779) come la Pantea e la Congiura di Milano[367] e soprattutto si mosse sulla piú importante via della sua attività letteraria accogliendo le spinte preromantiche ad un romanzo piú meditativo-lirico che veramente narrativo, adattandolo con le esigenze accennate di un neoclassicismo grandioso e cupo.

Nacquero su questa via i romanzi La vita di Erostrato, Le avventure di Saffo poetessa di Mitilene (pubblicato il secondo nel 1782 e il primo molto piú tardi nel 1815) e le famosissime Notti romane al sepolcro degli Scipioni di cui furono pubblicate le prime due parti (la prima nel 1792, la seconda nel 1804, mentre la terza rimase inedita ed è stata pubblicata solo recentissimamente[368]).

Se letterariamente meno interessante appare il piú tardo romanzo La vita di Erostrato (piú vicino a certi temi delle Notti romane, come l’antipatia per i conquistatori egoistici e alla fine folli e dannosi piú del mitico incendiario, non senza allusioni alle vicende sanguinose delle guerre napoleoniche), assai notevole è invece il primo romanzo Le avventure di Saffo, che segna il piú forte avvio del gusto preromantico-neoclassico del Verri e che (sulla base di un personaggio sensibilissimo tormentato e frustrato nelle sue aspirazioni di amore e felicità e condotto al suicidio, punizione della sua stessa incredulità ed empietà[369]) delinea tutta una vicenda di infelicità soprattutto risolta in un accordo di meditazioni ed esclamazioni pessimistiche[370] ed elegiache con un paesaggio archeologico-preromantico, che da avvii piú idillico-elegiaci – ma quasi sempre in funzione di contrasto con l’animo tempestoso della protagonista[371] – tende a configurarsi in forme piú cariche di colore fosco e di suggestione misteriosa e allibita. Vicenda e forme cui è adibito uno stile estremamente composito, fra la pesante e monotona sonorità di una costruzione classicheggiante-aulica e i piú vivi moduli di una sensibilità inquieta e febbrile, non senza ricorsi al gusto frizzante del giovanile stile antipedantesco e paradossale, in un impasto singolare e assai diverso dalle forme stilistiche piú fluide e nitide di un Bertola o di un Pindemonte.

Ma il testo piú maturo e significativo della nuova tendenza verriana preromantico-neoclassica è certo costituito dalle Notti romane che, dopo un primo tentativo in stile piú scherzoso ed ironico – l’Antiquario fanatico ora pubblicato nella citata edizione del Negri – vennero lentamente svolgendosi in un’opera complessa e massiccia, in una specie di «romanzo-visione-saggio» dal ritmo lento, monotono, spesso opprimente, in cui si traduce – con fatica e sforzo, ma non senza una suggestione generale di cupa e grave atmosfera narrativa, rappresentativa e meditativa – l’irta ed inamena tensione riflessivo-poetica del Verri, la sua volontà di creare in prosa poetica una poderosa rappresentazione nostalgica e polemica dell’antica civiltà romana nel suo fascino possente e nella sua crudeltà e violenza di fondo che egli criticava alla luce di una versione cattolica e conservatrice della sua originaria antipatia illuministica per la violenza e per civiltà, come quella romana, fondate su di essa[372], e a cui piú velleitariamente opponeva, con un crescente riferimento alla situazione contemporanea prerivoluzionaria e rivoluzionaria, la gloria di una Roma papale fondata sulla forza pacifica della fede cattolica (e fatta riconoscere nella sua superiorità proprio per bocca di un rappresentante della saggezza antica, Cicerone), nel suo lungo Ragionamento sul pontificato romano.

Quella volontà e tensione ideologico-artistica (con il suo valore di elemento di crisi della civiltà illuministica) era certo alla base della genesi e dello svolgimento della monumentale opera delle Notti, e a tutta la visione tarda del Verri – con il suo pessimismo sui limiti delle capacità umane, con il suo funereo senso della caducità di persone e costruzioni umane – si ricollegano i toni e le linee di quella. Ma nel suo concreto attuarsi ciò che prevale artisticamente – ed entro chiari limiti di pesantezza, opacità, enfasi – è proprio l’accordo piú evidenziato, sontuoso, lugubre, grandioso e struggente fra i paesaggi, spaziali e temporali, le visioni rievocate fra nostalgia ed orrore di un passato solenne e monumentale, presente ancora con le sue livide e allucinanti rovine, le persone-ombre che affollano le visioni e i colloqui, le vicende piú narrative e sempre infelici, delusive, luttuose e gravemente patetiche: come quelle piú memorabili della storia del parricida e della sua crudele esecuzione o della storia della vestale.

Cosí la «cornice» piú estrema di rovine e di campagna desolata – che circonda il sotterraneo mondo del sepolcro degli Scipioni e i colloqui e le visioni di ombre e vicende che vi si svolgono – si atteggia nelle forme di un paesaggio malinconico e squallidamente grandioso in cui si esprime la poesia delle rovine, un senso quasi piranesiano[373] di esse e insieme una fondamentale disposizione del promeneur solitario e meditativo a passare dalla contemplazione del paesaggio a quella sconvolgente e affascinante dei secoli passati, del tempo consunto, e da questa ancora al pensiero della morte e della sua assoluta alterità rispetto alla vita[374].

Ma non solo la cornice e le piú dirette visioni di paesaggio «rovinistico» (come nella seconda parte delle Notti la visita che le ombre compiono alle «ruine della magnificenza romana») traducono l’impeto preromantico-neoclassico del Verri, sibbene – con varia forza e con varia diluizione dispersiva – tutte le direzioni visionistiche, narrative e meditative dell’opera convergono entro questa tensione irrequieta e dolente cui collaborano le spinte congiunte del gusto preromantico e del gusto neoclassico, nella loro piú contigua accezione di grandiosità, di «sublime», di tetra suggestione, nella loro maggiore vicinanza nell’enfasi del linguaggio, cosí lontano dalla chiarezza e razionalità del linguaggio cui avevano aspirato gli illuministi e, fra di essi, lo stesso giovane Verri.

Con ciò non si sancirà un valore di risultato poetico da cui le Notti sono assai lontane, ma si indicherà la loro rappresentatività e la indubbia ricchezza di fermenti e di spunti, di moduli espressivi – fra enfasi sentimentale e vera e propria retorica accademica e scaltrita – che le Notti offrivano ai loro lettori contemporanei e agli scrittori di primo Ottocento, staccandosi, per densità aggrumata di motivi e schemi espressivi e scenografici, cosí dagli opposti canoni di un preromanticismo puramente contenutistico e di un neoclassicismo tutto volto alla contemplazione di immagini limpide e «nobilmente semplici», come anche dalle altre direzioni di piú delicata e moderata sintesi preromantico-neoclassica.

Un caso esemplare di piú versatile accoglienza di motivi preromantici e neoclassici sulla base di una sensibilità alacre, disponibile e delicata, aliena dai sentimenti e dai toni troppo forti e marcati, e di un gusto raffinato e aggraziato, letterarariamente educatissimo e leggermente epicureo, è quello di Aurelio De’ Giorgi Bertola, riminese (1753-1798), monaco olivetano poco convinto della sua professione religiosa che (dopo un primo tentativo rientrato, quando, giovanissimo, era fuggito in Ungheria per tentare la carriera militare) egli poté abbandonare solo nell’83, rimanendo semplice abate, e proseguendo invece la sua attività di insegnante a Napoli come professore di storia e geografia all’Accademia di Marina, poi – dopo un soggiorno a Vienna per i suoi interessi di studioso della letteratura tedesca, sviluppati ancora nel suo successivo viaggio in Svizzera e in Germania nell’87 – a Pavia come lettore di storia universale fino al ’93, quando, per la sua gracilissima salute, dové abbandonare l’insegnamento e ritirarsi nella sua città natale dove morí nel 1798, dopo aver partecipato alla nuova vita democratica della Repubblica Cispadana e Cisalpina con cariche amministrative e con un saggio politico-pedagogigo, Idee di un repubblicano ai suoi concittadini che lo avevano richiesto di un piano di pubblica istruzione[375] (1797).

La sua morte fu segnata dal Foscolo nell’Ortis e precisamente nella lettera del 5 marzo da Rimini, dove Jacopo si era recato «a rivedere ansiosamente» il Bertola, a cui anni prima, nel 1795, lo stesso Foscolo aveva dedicato un’odicina, La campagna (1795), nella quale il Bertola era chiamato «cantor di morbidi / prati, di dolci rivi», «piú ingenuo amico» della Natura, «del tenero Gessner felice alunno» nonché «tosco Anacreonte»[376], in una somma di indicazioni per noi assai interessanti sia per la significativa parte che il Bertola ebbe nella formazione foscoliana, sia per l’angolazione in cui il Foscolo considerava il gentile poeta idillico-elegiaco, preromantico e neoclassico, mediatore nella sua opera di Gessner e di Anacreonte.

In effetti, se il Bertola ha una chiara base di cultura e di idealità illuministiche[377] – rivelata direttamente nei suoi scritti storici, le Lezioni di storia del 1782 e i tre libri Della filosofia della storia, del 1787, in cui, riprendendo idee montesquieuiane circa la teoria dell’influenza del clima ed estendendola all’idea di una piú generale influenza della natura, con chiari echi rousseauiani, dimostra la sua impostazione illuministica nel ritenere il Medioevo come «barbarica notte» –, egli appare soprattutto intonato ad un cauto accordo fra la spinta rousseauiana verso la natura, la sua bontà e la sua bellezza, e un piú letterario amore per spettacoli naturali e atteggiamenti sentimentali ispirati ad una «grazia» tenera e idillico-elegiaca che poteva insieme usufruire della lezione neoclassica (con forti tracce rococò e arcadiche) e di quella preromantica sia nella diretta conoscenza dei classici e neoclassici settecenteschi, sia in quella, assai vasta, dei nuovi testi preromantici, sia nella mediazione classico-preromantica rappresentata dagli Idyllen dello svizzero Gessner.

Cosí la sua amabile saggezza illuministico-preromantica, sempre incentrata nella fiducia nella natura benefica, saggia, madre di spontaneità e di ingenuità, può manifestarsi piú direttamente – ma entro il segno garbato e nitido di uno scrittore educato dai classici – nelle notevoli Favole che accarezzano con particolare simpatia esseri ed entità naturali semplici e delicati, e svolgono in una simile temperie motivi di bonaria moralità e di galante ironia. E il contatto stesso con le nuove correnti preromantiche straniere si viene precisando in una scelta sempre piú precisa (e confortata dalle prese di posizione di poetica rilevabili entro gli scritti critici e saggistici del Bertola) di un preromanticismo moderato e idillico-elegiaco sorretto, nella sua stessa centrale tendenza sensibilistica e pittorico-sentimentale, da un ben commisurato gusto neoclassico, esso stesso sottratto alle tentazioni del grandioso e sublime epico e tragico.

Certo in una prima fase della sua attività poetica il Bertola si era fatto tentare dalla piú vistosa moda della poesia notturna di origine younghiana e aveva scritto, come tanti altri letterati del tempo, dei componimenti «notturni»: le Notti clementine (1775), composte per la morte del papa Clemente XIV e non senza intenzioni cortigiane. Ma quelle stesse Notti denunciano già la tendenza del Bertola piú al patetico e all’elegiaco, al tenero e al musicale che non all’orrido e al drammatico, come può mostrare la stessa invocazione a Young («e dall’anglico ciel caliginoso / il patetico suon piangendo chiedo»[378]) e la chiara deviazione dello stesso motivo della morte e della notte dal loro carattere ossessivo ed eccitato (nel testo younghiano) verso immagini piú pacate, tenere, idillico-elegiache, che stemperano l’appello piú tetro delle pur usate parole («orrore», «lugubre») del linguaggio younghiano. Come in questi versi:

Tutto m’avvolgo nell’orror del monte

or che notte precipita giú bruna,

tu conscia del mio duol l’argentea fronte

sotto lugubre vel celasti o Luna...[379]

Cosicché il Bertola poteva ancora passare disinvoltamente a poesie erotiche di tipo savioliano, giuocando sui vari scacchieri delle maniere di secondo Settecento, ma già lentamente filtrando l’edonismo classicistico in forme insieme piú elette e neoclassiche e componendolo con forme piú preromantiche di sensibilità tenera e dolcemente malinconica, mentre in tal direzione recuperava quel piú tenero gusto di canto che egli tanto ammirava nel Metastasio, cui egli dedicò un saggio, Osservazioni sopra il Metastasio (1784), importante a chiarire l’amore bertoliano per un incontro di «limpidezza», «passione» e musicalità: incontro che presiede sia alla poetica applicata nelle poesie originali, sia nei saggi, come quello Sopra la grazia nelle lettere ed arti (il Bertola alimentò il suo gusto idillico-elegiaco di una sensibile attenzione alle arti figurative[380]) che, in una fitta e sottile trama di osservazioni acute e fini, punta su di una «grazia» «leggera, fresca, innocente», fatta di sentimento «furtivo» e di «furtiva» eleganza, di finezza, gentilezza, delicatezza, voluttà, lepidezza (per usare sue tipiche parole)[381].

Preromanticismo e neoclassicismo si fondono (insieme a residui arcadici e rococò) nei suoi ideali estetici, nella sua stessa prosa e nelle sue canzonette amorose o paesistiche, con un’arte delle sfumature sentimentali-pittoriche che tempera ogni eccesso sentimentale come ogni troppo rigida plasticità di figurazioni di tipo neoclassico e si risolve in un impasto assai efficace di tenerezza, di lieve pittoricità, di ritmo melodico smorzato. E si pensi almeno a questa parte della poesia Partendo da Posilipo:

Io di Vesevo sorgere

dalla montagna fuor

nell’ampio suo chiaror

Cinzia vedea;

e dall’alte vulcaniche

foci la fiamma uscir,

che il sommo orlo lambir

di lei parea;

e vidi in manto argenteo

i flutti tremolar;

e l’ali ivi tuffar

l’aura leggera.

Dall’arenoso margine,

dal sasso al mar vicin,

piú non vedrò il mattin,

non piú la sera.

Addio. Se iberno turbine

coll’arme d’Aquilon

dell’umile magion

flagella il piede,

gl’incisi sassi a frangere

non mova il suo furor:

lunga d’un grato cor

far deggion fede.

Addio. Se allor che d’Espero

l’amabil lume appar,

verran solcando il mar

gli eletti amici,

l’erma mia stanza guardino

dicendo: Or piú non v’è!

Come son brevi, oimè,

l’ore felici![382]

A sostegno della sua tenue vocazione idillico-elegiaca, patetico-pittorica, è certo fondamentale il suo incontro con la poesia del Gessner, cosí aggraziata e lontana dalle forme piú accese e dolorose del preromanticismo tedesco, cosí idillico-elegiaca e impreziosita da nitide figurazioni neoclassiche e da ritorni di sfumature rococò.

Sicché la stessa esplorazione che il Bertola tentò nella letteratura tedesca (prima nella Idea della poesia alemanna, del 1779, e poi nell’ampliata Idea della bella letteratura alemanna, del 1784) – e che ha un suo posto ben notevole nella apertura dei letterati italiani ad una zona straniera meno conosciuta – fu impostata soprattutto alla luce del paradigma gessneriano, cui si ricollega l’immagine generale di una Germania laboriosa, pacifica, sentimentale, civile e primitiva[383] e la preferenza per autori e caratteri di quella letteratura piú consoni all’esemplare gessneriano. Donde la costante preoccupazione bertoliana di distinguere la «malinconia che commuove» «dall’orrore che ributta», la nuova sicurezza del valore della «immaginativa in istato di passione» dal rifiuto di opere – come il goethiano tz von Berlichingen – in cui la libertà «ricusando ogni sorta di confini va degenerando nel mostruoso»[384].

Al culmine di quella letteratura è appunto il tenero e nitido Gessner a cui piú tardi – dopo averlo conosciuto di persona – il Bertola rivolgerà un Elogio (1789) che, mentre fa dell’amato poeta un uomo esemplare per una umanità civile che ha recuperato in sé le virtú dello stato di natura, ben può indicare – nella stessa prosa che lo sviluppa – un ritratto ideale della poesia conseguita con la tenera forza del sentimento e con l’arte di sfumature propria della pittura:

Lo stesso accoppiamento delle due arti sorelle procacciò a Gessner il conseguimento di un’altra incantatrice bellezza nelle poesie in riguardo alla espressione degli affetti. Tanta e tale è la precisione e la convenienza delle parole, il suono e la collocazione di queste, che ne presentano in un baleno e gli atteggiamenti e finanche il colore proprio di ciascuna passione, e fanno sempre intendere assai piú di quello che si legge. I tratti piú fini della espressione degli affetti son rilevati con una gradazione quasi furtiva, cosí che ne sentiamo la forza senza vederne l’artifizio: siffatta gradazione non potea essere disposta e guidata che da una mano pittorica padrona di aprir quelle vie, onde nell’atto che commuovesi il cuore, si va a colpir l’intelletto e a dilettare l’immaginazione.[385]

Su questa via il punto di piú efficace equilibrio del moderato preromanticismo del Bertola è rappresentato dalla sua opera piú notevole: quel Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni (1795), che è certo, per temi e moduli di prosa poetica, uno dei testi fondamentali dell’ultimo Settecento italiano, con il suo delicato descrittivismo patetico-pittorico, con la sua raffinata sensibilità, con il suo rabesco gracile e sfumato, capace di graduare – come in una nuova rettorica preromantica che ben domina gli impeti piú crudi del sentimento e pur si alimenta di sensazioni ed impulsi e prospettive nuove – i toni della sensibilità inquieta, dal «patetico che trae all’orrore» (un «patetico che trae all’orrore, spira tra queste alture e s’insinua profondamente nell’animo»[386]), alla forza della vista e dell’immaginazione vaga e capace di una sensazione di infinito («in quella ampiezza d’inaspettato orizzonte lo spirito sente non so che di grande e di libero che lo ravviva oltremodo e lo innalza»[387]; «e l’immaginazione godea di spaziare nel vortice de’ secoli...»[388]), al «sublime raccapriccio» (ma temperato in un piacere di quello: «godevamo raccapricciando»[389]), all’attrazione di un «bello morale» misurato sul tumulto tenero del cuore:

Intanto quell’incontro, quei rapporti inaspettati con esseri sensibili cosí cari, quel quadro morale di felicità, di innocenza, introdotto nel campo di un quadro fisico, grande austero e quasi terribile ci mettevano nel cuore un tumulto, il quale dopo alquante scosse piú gagliarde, vi lasciò entrare certe ondulazioni che ne disponevan dolcemente alla tenerezza.[390]

Gradazioni di toni sentimentali-pittorici (di un letterato che amava «pensieri nudriti dal tremolio delle foglie»[391]), che culmina nella esaltazione della «cupa, ma pur dolce malinconia», della «soave malinconia», in una direzione di blando e raffinato preromanticismo che si traduce concretamente nelle pagine e nel ritmo di quel delicato libro di viaggio e si può ricollegare, pur con minore forza di rappresentatività (e con maggiori tracce di edonismo sensistico-rococò) ad aspetti del maggiore scrittore di questa zona, fra preromanticismo e neoclassicismo, che è Ippolito Pindemonte, mentre riflessi delle nuove tendenze preromantiche e neoclassiche potran cogliersi sia in casi di prosatori viaggiatori (come quello già da noi ricordato dello Scrofani), sia in lirici ancor legati ad attardate riprese arcadiche. Sicché persino nella lirica anacreontica di un erede della melica arcadica fra Metastasio e Rolli (tanto che spesso la sua opera è stata senz’altro legata ad un’estrema vita d’Arcadia) quale fu Jacopo Vittorelli (Bassano 1749-1835) non può in realtà non avvertirsi il riflesso insieme di una nuova sensibilità e di una nuova attenzione di eleganza affiatata con l’affermarsi delle esigenze neoclassiche. In realtà non si tratta piú che di riflessi ad un livello tanto minore di quanto si può osservare nel caso di un Bertola, anche là dove questi si ricollega a forme canzonettistiche e a temi di lontana ascendenza arcadica. E tuttavia quando si guardi piú da vicino alle stesse famose anacreontiche per Irene e Dori[392] – scartando l’operosità di autore di fiacchi poemetti didascalici, satirici e burleschi[393] con cui il Vittorelli pur si inseriva entro direzioni della letteratura fra Arcadia e illuminismo, malgrado la sua posizione di rigido conservatore veneto e di oppositore alle idee illuministiche – si deve ammettere che il loro canto modesto e solo sporadicamente capace di impressioni e rese visivo-musicali difficilmente dimenticabili presuppone una maturazione di gusto assai al di là della semplice ripresa arcadica. Una maturazione adiuvata da un riassorbimento di lievi pronunciamenti piú immaginosi-suggestivi e di una tenerezza sentimentale che spunta a volte piú direttamente in alcune delle stesse canzonette intonate a motivi funerari illeggiadriti e privati del loro appello piú veramente preromantico

(Non t’accostare a l’urna

che il cener mio rinserra...),

ma che non manca di farsi avvertire nell’impasto melodico-visivo delle piú note anacreontiche, come quell’indimenticabile (soprattutto nella incantevole apertura) momento di grazia di questo piccolo poeta e insieme significativo prodotto di una sensibilità che, nella sua limpidezza estatica e musicale, ritorna alle forme melodico-visive dell’Arcadia e dei suoi piú facili languori, ma con l’aggiunta interna di una visività, di una musicalità maturata dalla sensibilità idillico-elegiaca preromantica e dalla nitidezza dell’esperienza neoclassica:

Guarda che bianca luna!

guarda che notte azzurra!

un’aura non sussurra,

non tremola uno stel.

L’usignuoletto solo

va da la siepe a l’orno,

e sospirando intorno

chiama la sua fedel.

Ella che il sente appena,

già vien di fronda in fronda,

e par che gli risponda:

Non piangere, son qui...[394]

13. Ippolito Pindemonte

La sintesi piú personalmente profilata fra predominante sensibilità preromantica e riflessi del gusto neoclassico è certo costituita dall’opera poetica di Ippolito Pindemonte, la cui personalità aristocratica, fine e naturalmente moderata, tende, entro l’arco assai lungo e vario delle sue esperienze culturali, dominate da un preminente amore per le lettere e per la poesia, a costruirsi una via di sviluppo medio e sicuro – pur nelle oscillazioni delle sue varie vicende artistiche –, adatto alla sua nativa tendenza di temperata novità e di conciliazione sapiente ed equilibrata fra gli eccessi delle piú divaricate tendenze del gusto contemporaneo: almeno finché nella vecchiaia (quando prevalsero in lui piú decise spinte conservatrici e una piú rimessa fiducia nel classicismo) la molla della sua curiosità e del suo interesse per moderate avventure letterarie, la sua capacità di mediare personalmente diverse condizioni del tempo letterario, non si infransero definitivamente.

La sua stessa vicenda biografica, priva di forti passioni e di grossi avvenimenti, ben sottolinea la natura di questo letterato vivo, senza accensioni eccessive, fra un gusto sincero della socievolezza e dell’amicizia, un saggio amore della conoscenza di paesi e costumi, e una volontà di interventi equilibrati e poco polemici nei problemi della letteratura del suo tempo, e un pronto, edonistico ricorso al conforto della solitudine e della personale meditazione. E cosí egli si aprí alle speranze della rivoluzione francese (come dimostra il poemetto La Francia, del 1790), come moderata riforma in un regime costituzionale, per poi rifugiarsi in un deluso scetticismo quando la rivoluzione si fece piú decisa colpendo, con il Terrore e le guerre repubblicane e napoleoniche, l’umanitarismo e il moderatismo del Pindemonte.

Nato a Verona il 13 novembre 1753, da nobile famiglia, a Verona prevalentemente visse (dopo gli studi fatti a Modena nel collegio dei nobili) alternando i soggiorni nella sua villa di Avesa con la frequentazione del cospicuo ambiente letterario e culturale veronese e con una lunga serie di viaggi, fra 1778 e 1790, a Roma, a Napoli, in Sicilia, e poi in Savoia, Svizzera, Francia (a Parigi fu amico di Alfieri e di Chénier), Inghilterra e Germania. A Verona morí il 18 novembre 1828.

Già nella sua prima manifestazione letteraria, le Stanze di Polidete Melpomenio (suo pseudonimo arcadico), o la Fata Morgana (1782), si può cogliere una prima forma della sua equilibrata mediazione di tendenze del gusto contemporaneo e insieme il profilarsi di una sua caratteristica tenue luminosità e musicalità. In quei casi il Pindemonte si muoveva ancora nell’ambito di una poesia didascalica e descrittiva[395] (c’è, nelle Stanze, la descrizione di un’esperienza scientifica, la rifrazione dell’iride, e nella Fata Morgana la spiegazione di quella illusione ottica) assai abilmente volta ad esiti piú fantasiosi e gustosi, insaporita da temi e moduli della sensibilità e del gusto preromantico sia nella indicazione delle contrastanti forme del «bello» e dell’«orrido» come effetti ugualmente della «Natura» («grande anche se giuoca»), sia in certe aperture al sentimento malinconico della caducità:

Tu ancor passeggi nell’uman cammino

il sentier delle rose: io già tra foschi

arbori muovo: i giorni miei piú vaghi,

o che mi parver tai, passaro...[396]

Sulla via indicata da questi versi e dalla loro sospirosità gentile e pacata il Pindemonte – mentre prendeva posizione nella «querelle» del Concorso di Mantova con un suo Discorso sul gusto presente delle belle lettere in Italia, intonato ad un saggio equilibrio preromantico-neoclassico, ma dominato a sua volta da prevalenti indicazioni di grazia preromantica e di temperata eppur sicura apertura ai testi stranieri – nella sua attività artistica raggiungeva il piú sensibile punto di un equilibrato preromanticismo nelle Prose e poesie campestri (scritte negli anni fra 1784-1788, nella propizia solitudine della villa di Avesa: le poesie furono pubblicate nell’88, le prose molto piú tardi nel 1817[397]), nelle quali il preromanticismo pindemontiano blando e moderato, ma sincero e sinceramente vissuto nella sua dimensione di sensibilità malinconica e gentilmente edonistica, si configura in forme assai originali, usufruendo insieme della lezione del côté preromantico piú idillico-elegiaco e del neoclassicismo piú affabile e gentilmente attento alla piccola e modesta realtà quotidiana (un po’ sul tono dell’Hermann und Dorothea del Goethe) – che presiederà poi alla scelta e alla direzione di gusto della tarda versione dell’Odissea – nonché di alleggeriti ricordi di prezioso gusto rococò[398].

Al centro delle Prose e poesie campestri sta il soave e sensibile mito-sentimento della «melanconia» che campeggia al centro del celebre omonimo componimento:

Melanconia,

ninfa gentile,

la vita mia

consegno a te.

I tuoi piaceri

chi tiene a vile,

ai piacer veri

nato non è.

La vaga assimilazione neoclassica della «melanconia» ad una ninfa (detta poi «pudica» e «tranquilla») protettrice e confortatrice di una vita senza pretese egotistiche viene inquadrata nella contemplazione soave di un paesaggio solitario, ma non orrido, coerentemente ispiratore di sentimenti dolci-malinconici, come è appunto la lieve allegoria della ninfa, còlta, piú che in atteggiamenti statuari neoclassici o nelle forme vivaci e sensuose di simili personificazioni del classicismo rococò[399], in una sua labile e suggestiva figuratività pronta a sciogliersi in un gesto, in uno sguardo, in un calore sentimentale tenue e blando, in una luminosità impalpabile:

O sotto un faggio

io ti ritrovi

al caldo raggio

di bianco ciel;

mentre il pensoso

occhio non movi

dal frettoloso

noto ruscel:

O che ti piaccia

di dolce Luna

l’argentea faccia

amoreggiar;

quando nel petto

la Notte bruna

stilla il diletto

del meditar...

... Oh come è bello

quel di viola

tuo manto, e quello

sparso tuo crin!...

A quel centrale simbolo del suo sentimento il Pindemonte consacrava, in quella stessa canzonetta – cui ben servono le strofette brevissime e nitide e pur rallentate, spazieggiate, aerate da un ritmo sentimentale e musicale piú assaporato ed intimo, da una architettura gracile, ma piú libera e rabescata –, «il grave / nuovo mio stil».

Il «nuovo stil grave», in quanto pensosa musica di accordi interiori e di accordi fra stati d’animo melanconici e «puri» e paesaggio tenue e delicatamente suggestivo, si appoggiava cosí a quella versione pindemontiana di un motivo centrale della nuova sensibilità preromantica, appunto una malinconia dolce, o una «leucocolia: che è come dire... una bianca tristezza»: come il Pindemonte dice in una pagina delle Prose campestri[400], aggiungendo, altrove, a motivazione di questa sua poetica, le condizioni particolari della sua sensibilità malinconica, ma nemica degli eccessi, e addirittura quelle della sua incerta salute, ma sempre chiarendo centralmente la direzione della malinconia «placida e dolce», riflessiva e sottilmente edonistica, madre di pensose estasi, di godimenti visivo-sentimentali inseparabili da quello stato malinconico e moralmente puro[401].

E, d’altra parte, questa stessa disposizione sentimentale-poetica – che nelle Poesie campestri piú si compone entro l’utilizzazione di forme e metri tradizionali (che pure il poeta moderatamente rimodella in architetture piú sinuose e in gracili rabeschi sensibili) e piú riprende alleggeriti moduli mitologico-classici e sfumature di colore rococò – si dimostra ancor piú capace, nelle Prose campestri, di fare affiorare, nella sua pacata moderatezza, punte piú nuove di sensibilità, di costruirle in una prosa educata, disciplinata, non dimentica della lezione dei classici e della stessa lezione della prosa illuministica (piú direttamente usufruita nella novella satirica Abaritte del 1790), ma ancor piú rinnovata dal movimento della nuova sensibilità, resa aderente alle sottili gradazioni del sentimento nel suo aprirsi a visioni tenere e suggestive, a godimenti raffinati (fra senso ed animo), a indagini sulla sorte dell’uomo, sul contrasto fra verità «geometriche» e scientifiche e piú sollecitanti illusioni estetico-sentimentali.

Si pensi a questa fresca e tenue meditazione-impressione sulla base di un edonismo gentilissimo e raffinato che tante volte avvertiamo, nella sua stimolante novità, anche entro le pagine piú correnti del vasto epistolario pindemontiano e persino, piú raramente, entro la prosa piú accademica dei suoi Elogi di letterati italiani (1825), in accordo con una acuta e sottile capacità di gusto critico, di spunti di lettura sensibile e di giudizio piú descrittivo che sintetico che fanno in qualche modo pensare ad una specie di Joubert italiano:

L’umor di lui tira cosí un poco al melanconico, e forse la non felice salute, in cui è, lo carica di colore alquanto; ma la sua melanconia scorre molto placida e dolce, e il presentimento di quel crudo male, che lo minaccia, gli rende piú care ancora quelle villerecce delizie, di cui teme che non potrà goder lungo tempo.[402]

O si rilegga questa dichiarazione cosí preromantica sulla «saggezza» del «cuore»:

Sí, questa è la bella sorte dell’uomo, che saper posso anche senza il libro de’ filosofi, anche senza quel libro che ogni filosofia superò, benché l’uno me la faccia sperare, e l’altro la mi prometta: bastami guardar nel mio cuore, ove trovo un principio non men naturale, che la ragione, ma piú forte, piú inalterabile, e piú sentito; trovo un desiderio non mai pago, e rinascente sempre, d’una che sempre cerco, e non trovo mai, vera e perfetta felicità.[403]

O, in una direzione che può far pensare a ben piú alte e complesse meditazioni del grandissimo Leopardi[404], ai brani in elogio della rimembranza e dei ricordi della prima età[405] o a quelli sulla superiorità dell’immaginazione rispetto alla nuda verità scientifica[406].

Al di là delle Prose e poesie campestri la lunga vicenda letteraria del Pindemonte – che si inoltra fra le nuove presenze di Monti e Foscolo, fra gli inizi del romanticismo e il pieno neoclassicismo romantico – mostrerebbe, ancora a lungo – pur nelle oscillazioni che si concluderanno a favore di un’ultima piú costante e stanca professione di fede neoclassica[407] – la linea conduttrice delle sue varie esperienze, costituita dal proseguimento del suo centrale moderato preromanticismo (condizione letteraria, ma anche sentimentale) e della sua disposizione ad equilibrare in esso spinte volta a volta piú neoclassiche o piú avanzate in direzione romantica. Cosí – dopo varie poesie legate all’occasione dei viaggi europei e a un aperto gusto del pittoresco paesistico contemplato dalla «estatica tacente alma pensosa»[408] e quindi con un’aggiunta di vaga ineffabilità e trasognamento spiritualistico-edonistico ben preromantico – il Pindemonte poteva tentare successivamente esperimenti di novelle in versi di piú chiaro carattere preromantico (la Teresa Contarini e Antonio Foscarini, la Lettera di una monaca a Federico IV, Sul ritorno del capitano Parry) o (nel 1804) di una tragedia, l’Arminio, di argomento ispirato alla poesia nordica e «bardita» dell’Ossian e di Klopstock. E pure anche in quegli esperimenti l’equilibrio pindemontiano, la cura attenta di una misura classica, riducono le spinte piú drammatiche, realistiche, «lacrimose», e al centro riaffiora la piú congeniale tensione idillico-elegiaca con le sue tinte piú scialbe ed autunnali, con la sua luminosità tenue e pallida, con le sue cadenze piú morbide, con i suoi ritmi come un po’ pigri e pensosi.

E viceversa ancora nelle Epistole in sciolti (scritte prevalentemente fra 1800 e 1803, e pubblicate a Verona nel 1805) la crescente ricerca di eleganza e di eletta discorsività neoclassica non mancherà, nelle zone piú sicure di questa silloge poetica, di conciliarsi agevolmente ed efficacemente con la malinconica vena prerornantica e riuscirà anzi a rinforzarne la risonanza piú suggestiva in una nuova forma di sintesi preromantico-neoclassica fino ad uno degli esiti piú persuasivi della poesia pindemontiana: il passo della bella epistola A Elisabetta Mosconi (1800) che delicatamente esalta le immagini di due fanciulle in un movimento poetico lieto e malinconico, luminoso e mesto, che non dové essere assente fra i ricordi sollecitanti del Foscolo nella composizione del brano della giovinezza nel velo delle Grazie e fra quelli del Leopardi nel passo di Nerina nelle Ricordanze:

Ambe di beltà fresca, ed ambe ornate

d’amabile virtú, dar però volle

all’alme loro il Ciel tempra diversa.

Pel sentier della vita il pie’ Clarina

move danzando: innanzi a lei stan sempre

alto su l’ale d’ôr lieti fantasmi,

e tutte innanzi a lei ridon le cose.

Piagge abitate, aperti campi, siti

cerca lucenti: o de’ piú ricchi prati

nel variopinto sen tesse ghirlande,

non di vïole pallide, o di foschi

giacinti, ma scegliendo i fior piú gai.

Giorno cosí d’oscure nubi avvolto

non sorge, che pur chiaro a lei non sembri.

Spera piú che non teme; e quando ascolta

chi dell’uman vïaggio i guai descrive,

le par che molto al vero aggiunga, e voglia,

quasi tragico autor, compunger l’alme.

Valli rinchiuse, opachi boschi e muti

cerca Lauretta: il Sol, che muore, attenta

guarda, e in mar chiude: ove con rauco sente

incessante rumor cadere un’onda,

fermasi, e l’invitato orecchio porge;

o il collo alquanto piega, e il guardo innalza

e nelle varie colorate nubi

l’estasi pasce, che le siede in volto.

Della femmina errante, in cui s’avviene,

la dolorosa storia ascolta e crede:

ode squillar sul monte il vigil corno

de’ cacciatori, e all’inseguita lepre

una lagrima dà. Ma quando splende

in notte estiva la ritonda Luna,

dalla finestra, onde mal può staccarsi,

e dell’occhio e del cor l’argenteo segue

tacito carro, e se medesma oblia.[409]

E se nei Sermoni (1819) può prevalere, sulla via della sua involuzione senile, una piú frigida e classicistica discorsività e una ricerca di humour non molto riuscito fra gozziano e pariniano, nell’epistola I Sepolcri (1807)con cui il Pindemonte rispondeva al carme foscoliano a lui diretto e cercava di sistemare motivi già tentati nel precedente poema I cimiteri, interrotto per l’intervenuta pubblicazione dei Sepolcri foscoliani – ancora il Pindemonte riusciva a portare lo sviluppo della sua originaria vena preromantica ad una nuova sintesi con le crescenti esigenze neoclassiche. E ancora una volta – con un piú stanco, estenuato impiego della sua pallida luminosità, delle sue gracili, ma sincere qualità sentimentali e poetiche, in un componimento sempre piú frammentario e cosí lontano dalla potente spinta organica del carme foscoliano – poteva far risuonare la voce della sua sensibilità idillico-elegiaca, del suo preromanticismo di fondo, specie nel finale spiritualistico e cattolico, in polemica con la posizione materialistico-idealistica del Foscolo:

Sparí per sempre

quel dolce tempo, che solea cortese

l’orecchio ella inchinare ai versi miei.

Suon di strumento uman non v’ha che possa

sovra gli estinti, cui sol fia che svegli

de’ volanti dal ciel divini araldi

nel giorno estremo la gran tromba d’oro.

Che sarà Elisa allor? Parte d’Elisa

un’erba, un fiore sarà forse, un fiore

che dell’Aurora a spegnersi vicina

l’ultime bagneran roscide stille.

Ma sotto a qual sembianza, e in quai contrade

dell’universo nuotino disgiunti

quegli atomi, ond’Elisa era composta,

riuniransi, e torneranno Elisa.

Chi seppe tesser pria dell’uom la tela,

ritesserla saprà: l’eterno Mastro

fece assai piú, quando le rozze fila

del suo nobil lavor dal nulla trasse;

e allor non fia per circolar di tanti

secoli e tanti indebolita punto,

né invecchiata la man del Mastro eterno.

Lode a lui, lode a lui sino a quel giorno.

L’esperienza preromantica del Pindemonte, con i suoi equilibrati e felici compromessi con le componenti neoclassiche del suo gusto, rimane certo la piú interessante e poeticamente notevole in una direzione timida e moderata, ma artisticamente piú praticabile rispetto a certe vie di velleità estremistiche documentate nella prima parte del precedente paragrafo.

Essa ben contraddistingue questa fase di esperienze piú incerte e come di crepuscolo aurorale, piú tenue e debole, del vero e proprio romanticismo, a cui – con tanta diversa forza di poesia e di ragioni personali e storiche – piú direttamente guiderà in Italia solo la rivoluzione preromantica dell’Alfieri, culmine ardente e tempestoso dell’ultimo Settecento, termine ideale della nostra delineazione del Settecento letterario italiano.

In questa andranno idealmente reinseriti al loro posto le tre monografie dedicate al Goldoni, al Parini, all’Alfieri. La prima nel clima di un illuminismo pratico e medio, la seconda al centro delle istanze illuministiche riformatrici e nel passaggio al neoclassicismo, la terza al culmine estremo – come sopra dicevo – dello sviluppo e della crisi dell’illuminismo, e dei parziali tentativi del preromanticismo.


1 Nato a Padova nel 1677, il Conti, abbandonata la carriera ecclesiastica, ampliò la sua formazione filosofico-scientifica e letteraria, già affiatata con le istanze piú avanzate dell’Arcadia e del razionalismo, nei suoi lunghissimi soggiorni all’estero: a Parigi, già nel ’13 in relazione col Malebranche, nel ’15 a Londra in relazione col Newton, poi nel Hannover per conoscervi il Leibniz, in Olanda, poi di nuovo in Inghilterra e, dal ’18 al ’26, a Parigi, attivamente partecipe al cenacolo della contessa di Caylus. Ritornato in Italia, visse a Padova fino alla morte, avvenuta nel 1749.

2 A ciò attende Giovanna Gronda a cui già dobbiamo, insieme a studi citati nella bibliografia, la meritoria edizione critica delle Versioni poetiche del Conti (Bari 1966).

3 Prose e poesie del sig. abate A. Conti, II, Venezia 1756, pp. 257 e 128.

4 Il coerente e generale piano storico-politico delle quattro tragedie è esposto dal Conti nella prefazione al Druso (in Le quattro tragedie composte dal sig. abate Antonio Conti, Firenze 1751, pp. 453-454): «Nel Giunio Bruto rappresento l’instituzione della Libertà e del Consolato; nel Cesare il tentativo di cangiar la Repubblica in Monarchia; nel Marco Bruto lo sforzo di restituire con la prima libertà la Repubblica, uccidendo il Tiranno. Infierirono poi le guerre civili, e piú per fortuna che per valore rimasto Augusto padrone ed arbitro dell’Impero, lo fondò su quelle savissime leggi, le quali diedero l’origine alla Giurisprudenza Romana. Estinti gli eredi del sangue di Augusto, gli succedette Tiberio malvagio Imperatore che regnò in una Corte ancora piú iniqua. Io la rappresento nel Druso...».

5 Cagnolini molto amati dalle dame in Inghilterra e in Francia. (N.d.A.)

6 Versioni poetiche, ed. cit., pp. 41-42. Il Riccio rapito fu tradotto assai efficacemente in questo stesso periodo da Andrea Bonducci, Firenze 1739.

7 Versioni poetiche, ed. cit., p. 31.

8 Avvivato da paragoni preziosi e raffinati come questo: «Egli non è da disperare, soggiuns’io, che il Cembalo de’ colori, e la musica degli occhi, che stabilisce e conferma piú che mai questa nuova fratellanza, non faccia un giorno fortuna con voi. Che volete voi dire, replicò la Marchesa, con questa vostra Musica e con questo vostro Cembalo di nuova invenzione? Volete voi forse con questo mettere in ridicolo la Filosofica similitudine, che m’avete fin’ora esposta? Il Ciel non voglia, rispos’io, che mi venga mai tentazione di mettere in ridicolo ciò che voi avete adottato in luogo de’ vostri globetti. Questo si è un Cembalo di nuova invenzione in verità, ma non per questo niente meno reale e vero, in cui al mover de’ tasti in luogo di udir de’ suoni, voi vedrete comparir colori e mezze tinte, che faran tra esse la medesima armonia, che fanno i suoni. Le sonate di Rameaux, o del Sassone, vedrete su questo Cembalo faranno il medesimo piacere agli occhi, ch’elle fanno udite ne’ cembali ordinarj agli orecchi. L’amore, la pietà, la baldanza o l’ira saran mosse ne’ nostri animi dalle consonanze di un pezzo di moerre e di scarlatto: questo meraviglioso strumento si sta ora facendo di là da’ monti, donde voi altre avrete d’ora innanzi le fettucce, le stoffe, e le vostre nastriere in musica. Il passeggiero piacer degli orecchi sarà fissato negli occhi, e si potranno continuamente goder tessuti in una tappezzeria i passaggi di Farinello» (Neutonianismo per le dame, Napoli, ma Milano 1737, p. 137).

9 E si ricordi come il termine di «martiri della ragione» passi poi nel giovanile trattato leopardiano sopra l’astronomia che tanto si alimentò dell’operetta algarottiana e ne riprese entusiasticamente le prospettive combattive nella volontà di «giovane riformatore» del Leopardi adolescente.

10 Neutonianismo per le dame cit., Dedica al Fontenelle.

11 Riporto dalla Dedica questo passo programmatico: «Lo stile, che io ô procurato di seguitare, è quale io ô creduto convenire al Dialogo netto, chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini e di sali. Ô schivato piú che ô potuto quegli intralciati e lunghi periodi col verbo in fine, nemici dei polmoni e del buon senso, che sono assai meno, che non si pensa, del genio della nostra lingua, e che non devono essere guari del genio di quelli, che vogliono essere intesi».

12 «Tra tutte le donne d’Italia fu trascelta Madonna Beatrice versatissima nella dottrina amorosa degli antichi scrittori, e nella scienza di pascer di vento i suoi cavalieri e di confortargli al maggior uopo con presenti di vecchie fettucce, e di fiori appassiti» (in Opere, Venezia 1791-1794, VI, p. 234).

13 Si pensi alla descrizione della Voluttà: «Tumidette ha le rosee labbra, e i denti bianchi, come l’avorio il piú schietto; piccola fronte, bruni gli occhi, e bruni ha i capelli, che lievemente odorati, parte le cadevano sulla manca spalla, e parte gli avea dietro raccolti in un bel nodo; linda senz’arte, sottile era il suo vestimento, che lasciava alquanto vedere della persona; e il suo cinto era quello stesso di Venere: non monili, non gemme; avea solamente nel dito un cammeo...» (Opere, ed. cit., VI, p. 226-227).

14 Il «cortigiano di Potsdam» – con una certa doppia morale di letterato – poteva sí servire il dispotismo illuminato di Federico II, ma non mancava di sentire piú in alto il sistema liberal-costituzionale inglese.

15 Altri saggi, svarianti su vari argomenti in discussione europea nell’epoca (e dunque piú importanti per l’opera di mediazione di problemi europei in Italia che per originale impostazione personale) sono il Saggio sopra la giornata di Zama (1749), il Saggio sopra il Gentilesimo (1754), il Saggio sopra quella quistione perché i grandi ingegni a certi tempi sorgano tutti ad un tratto e fioriscano insieme (1754), le Lettere sopra la scienza militare del Segretario fiorentino (1759), il Saggio sopra la quistione se le qualità varie de’ popoli originate siano dallo influsso del clima, ovveramente dalle virtú della legislazione (1762), il Saggio sopra il commercio (1763).

16 Particolarmente importanti le nove Lettere sulla traduzione dell’Eneide del Caro (piú recentemente valorizzate dallo studio di E. Bonora citato nella bibliografia) che, mentre discute sui doveri e la natura delle traduzioni poetiche, molto acutamente caratterizza lo stile del Caro in una direzione prebarocca e apre cosí uno stimolante spiraglio sulla zona cinquecentesca che ora si potrebbe definire, meglio che «prebarocca», «manieristica».

17 A parte i numerosi scritti particolari su artisti e questioni delle arti figurative, segnatamente importanti sono il saggio Sopra l’architettura (1756) in cui l’Algarotti svolge, con nuove prospettive, la tesi del funzionalismo architettonico ripresa dal suo maestro Lodoli, e il saggio Sopra la pittura (1762) che – sulla base dei trattatisti secenteschi come il Baldinucci e il Bellori – sviluppa una visione di eclettismo classicheggiante e insieme affronta il piú generale problema estetico della pittura come «imitazione ideale», aprendosi cosí verso istanze neoclassiche. Ai problemi delle arti figurative si riconnette in parte anche l’importante discussione sul melodramma (nel saggio Sopra l’opera in musica, 1762), sulla sua organicità basata sul libretto e sul primato di esso nei rapporti con le altre componenti dell’opera e rappresentazione teatrale: musica, canto, recitazione, danza, scenografia, tutte legate ad un centrale dovere di naturalezza disciplinata e di meraviglioso verosimile. Né si dimentichi una notevole valorizzazione dell’«opera buffa» dei musicisti italiani (anzitutto il Pergolesi con la Serva padrona), piú sicura conquista del «genio musicale» italiano e anticipazione di quella maggiore organicità e naturalezza della musica e del canto che l’Algarotti auspicava, in accordo con le già attuate conquiste di simili pregi da parte dei poeti del melodramma.

18 L’Algarotti sconfessò l’iniziativa del Bettinelli e si dissociò soprattutto dalla sua riduzione della Commedia dantesca, con un insieme di reale dissenso e di timore prudenziale che è pur parte della personalità algarottiana.

19 In Opere, ed. cit., I, p. 39.

20 In Opere, ed. cit., IV, p. 407.

21 In Opere, ed. cit., IX, p. 270 (in una lettera al Tartini del 1754).

22 In Opere, ed. cit., IV, specie alle pagine 123-126.

23 Su cui si veda il recente volume di M. Saccenti, Lucrezio in Toscana, Firenze 1966.

24 La traduzione del Marchetti era oltretutto importante agli occhi degli scrittori illuministici e dei didascalici di metà Settecento e del loro gusto classicistico-sensistico sia per la stessa materia e natura ideologica del testo tradotto, sia per lo sforzo del traduttore a riprendere l’impegno di resa evidente e sensuosa della descrizione di cose tutte sensoriali e materiali. Si pensi anche alla traduzione della Tebaide di Stazio (1729) ad opera di Cornelio Bentivoglio (1668-1732), che poté poi essere utilizzata, per i toni piú drammatico-epici del suo verso sciolto, dall’Alfieri del Polinice.

25 Non a caso il Frugoni nella sua disposizione all’«aggiornamento» ai gusti del tempo scriverà un poemetto, L’ombra di Pope, in cui l’ombra del poeta inglese è vista in cielo insieme a quella di Orazio («l’immenso di Venosa / cantor») e mentre essa è lodata soprattutto per aver percorso un «filosofico alpestre calle» «sparso de’ fiori di Elicona», a sua volta il Frugoni si fa da quello lodare per aver portato sul «tosco plettro» i «latini modi» e per aver tinto «dello splendor della favella» di Orazio il «novo stile» (cito dall’edizione del poemetto in Raccolta di poemi didascalici e di poemetti vari scritti nel secolo XVIII, Milano 1828, pp. 370-371).

26 Si pensi almeno, nella traduzione del Essay on man da parte di Anton Filippo Adami (cito dal Saggio sopra l’uomo, Napoli 1768), al brano sul «povero indiano» con il suo motivo polemico umanitario e l’adeguazione, nel traduttore italiano, della limpida e sensibile forma di un linguaggio «civile» e poetico:

Di là dai monti, al guardo ultimo segno,

si finge un Cielo, ed una terra ignota,

che dal furor d’un vincitor tiranno

lo porrà in salvo e gli sarà d’asilo;

quando che al mar si volge, ei si dipinge

in mente allora un’isola beata,

in cui di sé, del suo destin signore,

da un benefico nume avrà ristoro,

e discioglier vedrà le sue catene,

né di larve importune avrà spavento,

che vengano a turbargli i suoi riposi,

né in quei placidi lidi, e beni, e vita

vedrà piú in preda all’armi de’ cristiani,

quando da ingorda avidità sospinti

empion tutto di stragi, e di rapine

i mondi ignoti al navigante antico.

27 Il Roberti fu autore anche di poemetti satirici e critici come quello sulla Moda (1746) e quello sulla Commedia (1755), in cui egli prendeva posizione in favore del Goldoni, e di numerosi scritti in prosa di argomento teologico, filosofico, pedagogico, fra ortodossia e curiosità per problemi della nuova civiltà illuministica: come gli Opuscoli sopra il lusso, le Lettere sopra i negri, il trattato Dell’amore verso la patria e quello Dei doveri dei padroni verso i servitori.

28 Le perle, vv. 154-168, in Raccolta di poemi didascalici cit.

29 E si noti subito come il gruppo piú compatto di «didascalici» sia veronese e sia legato piú direttamente a concrete esperienze e preoccupazioni di scienza agraria: il Betti infatti fu autorevole socio dell’Accademia di agricoltura e commercio di Verona, e veronese – oltre agli altri didascalici ricordati nel testo – fu anche Antonio Tirabosco (1707-1773), autore del poema L’uccellagione. E si ricordi ancora, nell’ambiente letterario veronese, Gerolamo Pompei (1731-1788), autore, fra l’altro, di canzoni pastorali collegabili in parte ad una nuova giustificazione della tematica pastorale, alla luce di un gusto «campestre» rilanciato dall’attenzione signorile e letteraria, di simili scrittori, alla vita della campagna (nonché autore di una traduzione delle Vite di Plutarco – 1771 – assai notevole nella storia del plutarchismo settecentesco).

30 Come può risultare in questo brano un po’ opaco, ma coerente alla volontà di una resa adeguata dell’azione descritta e insaporita da brevi immagini e da chiare forme classicheggianti di linguaggio (Il baco da seta, II, vv. 853-868, in Raccolta di poemi georgici, Milano 1826, II):

Pur se improvviso il ciel fra spessi lampi

versi nembi di piogge, e ’l dolce gregge

nel desiar l’esca felice invecchi,

nerboruto villan con ambe mani

abbracci i tronchi, e al raddoppiar le scosse

s’odan fischiar le rugiadose chiome;

e accolte ne i moltifori canestri,

l’aria fendendo rapido, le scoti,

qual suol ne l’orto vaga villanella

poiché strappò dal suol verde lattuga:

pria nel limpido umor la bagna e terge,

poi in largo cesto la raccoglie unita,

e scotendo la man per retto calle

striscia ratto ondeggiando, e l’aer rompe,

e a terra vanno le minute stille...

31 La coltivazione del riso, IV, vv. 225-238 (edizione a cura di V. Mistruzzi, Milano 1929).

32 Della coltivazione de’ monti, I, str. 43, in Raccolta di poemi didascalici cit.

33 Cfr. G. Parini, Sulla «Coltivazione de’ monti» dell’abate Lorenzi, in Prose, a cura di E. Bellorini, vol. I, Bari 1913, pp. 147-149.

34 In Raccolta di apologhi scritti nel secolo XVIII, Milano 1827, p. 278.

35 Si ricordino queste ottave di critica della decadenza italiana a causa dei suoi bassi costumi (Il Cicerone, XV, str. 51-52. Cito dalla I ed. in 6 voll.: Il Cicerone poema di G.C. Passeroni, Milano 1755-1774):

Italia, riconosci omai te stessa,

al petto per un poco una man ponti:

la tua condotta esamina, ed in essa

ravvisa, Italia, de’ tuoi mali i fonti:

s’esser ti pare da’ disastri oppressa,

apri ben gli occhi, e fa’ ben bene i conti:

pensa a’ tempi presenti ed a’ preteriti,

e vedrai che hai piú ben che non ti meriti.

Pensa che fosti a le bell’arti intenta,

nate e cresciute già nel tuo bel seno;

pensa che fosti un dí paga e contenta

di ciò che produceva il tuo terreno.

Ora è l’antica tua virtute spenta,

o sol ne resta un languido baleno:

l’antica parsimonia è andata in bando,

e vai di giorno in giorno peggiorando.

36 Il Cicerone, XIII, str. 71-72.

37 Nelle Conversazioni, Padova 1778, dal v. 872 in poi. Per questo gusto ritrattistico Le conversazioni non dispiacquero al Leopardi, che ne riportò molti passi nella Crestomazia poetica.

38 È il caso centrale del sonetto Alla memoria (cito da C. Bondi, Opere edite e inedite, Venezia 1798-1801):

O tu, memoria, che i passati eventi

rapisci al tempo e da l’oblio difendi,

e al cupido pensier rinnovi e rendi

quante un tempo provò gioie e tormenti;

deh! tu ne gli anni miei primi e recenti

con sollecito vol ritorna e scendi,

e quei che incontrerai trascegli e prendi

di piú puro piacer pochi momenti.

Poi tutti insieme al mio piacer li aduna,

e di questo ristora estremo aiuto

l’alma, d’ogni altro ben fatta digiuna,

onde al misero cor, che il ben perduto

non ha di piú goder speranza alcuna,

resti il conforto almen di aver goduto.

39 Rapporto presente anche nei poemetti didascalici L’origine delle idee (1773) e Il sistema dei cieli (1775) del Rezzonico, a cui accenneremo nel profilo di questo scrittore svoltosi fra adesione alla poetica illuministico-sensistica e piú forte adesione alla poetica neoclassica.

40 A Parigi il Mascheroni si era recato fuggendo dall’Italia invasa dagli Austro-Russi, fedele alle nuove idee democratiche espresse in numerosi discorsi del periodo ’97-98. Come scienziato la sua fama è affidata soprattutto ad opere di geometria, come la Geometria del compasso, del 1797.

41 Invito a Lesbia Cidonia, vv. 77-85 (cito dall’edizione dell’Invito in Poeti minori del Settecento, a cura di A. Donati, II, Bari 1912).

42 Cfr. il mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento, nel volume miscellaneo Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, pp. 110-111 e p. 127, e anche altrove, circa il valore della amplissima scelta della poesia di secondo Settecento nella Crestomazia poetica nei confronti della stessa poesia leopardiana.

43 Fu medico e poi professore di fisica a Firenze e a Pisa. Come storiografo scrisse una Storia della Toscana sino al principato pubblicata postuma nel 1813-1814.

44 Si vedano soprattutto i passi del poemetto alle pp. 120-121 della sua edizione nella raccolta miscellanea Poemetti italiani, Torino 1797, X.

45 I palloni volanti. Epistola al Signore..., vv. 230-245, in Favole e novelle del dottore L. Pignotti, Bassano 1789.

46 Il Fiacchi fu professore di filosofia e di matematica nel Seminario e nelle Scuole Leopoldine di Firenze, fece parte della Crusca e fu editore soprattutto di Lorenzo de’ Medici e scrittore di saggi filologici (Necessità di consultare i testi a penna). Fra le sue opere van ricordati anche dei delicati Sonetti pastorali e un Lamento di Cecco di Varlungo in morte della Sandra che ben pertiene ai suoi gusti di giuoco linguistico e di esperto della poesia «rusticale», di attento continuatore di tipici filoni della letteratura fiorentina antica e recente (gli stessi sonetti pastorali si ricollegano soprattutto a quelli del Menzini).

47 Cito dalle «Favole» di Luigi Fiacchi coll’aggiunta dei «Sonetti pastorali» del medesimo autore, nuova edizione accresciuta e corretta, 2 voll., Firenze 1807.

48 Agli interessi teatrali accenneremo nel paragrafo dedicato al teatro. Quanto all’interesse per le arti figurative, esso si concretò piú direttamente in biografie-elogi del Pikler e della Kauffmann, e nelle Memorie per le belle arti (1785-1788).

49 Cfr. G. Leopardi, Poesie e prose, a cura di F. Flora, Milano 1940, I, p. 706.

50 Alla primavera, dagli Epigrammi, madrigali ed epitaffi del cav. G.G. De Rossi, Pisa 1818.

51 L’orologio d’amore, dagli Scherzi poetici e pittorici di G.G. De Rossi, Parma 1795.

52 Rimando in proposito al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento nel volume miscellaneo Leopardi e il Settecento cit., p. 112 e pp. 128-129.

53 Dopo gli studi nel Seminario di Montefiascone e la sua attività di professore in quel seminario e di letterato galante e di sacerdote molto spregiudicato in Roma, il Casti dové passare – per la licenziosità dei suoi versi – a Firenze e nel ’72 a Vienna, dove soggiornò a lungo, soprattutto come scrittore di melodrammi, finché – dopo i suoi viaggi in Russia, a Costantinopoli, in Italia – abbandonò definitivamente la capitale austriaca nel 1798 (divenuto sospetto di giacobinismo), e si stabilí a Parigi, dove ebbe parte attiva nel folto gruppo degli esuli italiani, fortemente critico nei confronti della politica opportunistica del Direttorio e di Napoleone.

54 Come egli dice nella anacreontica A Dori (si veda nelle Opere varie di G.B. Casti, tomo V, Poesie liriche, Parigi 1821).

55 E del resto, accanto alla ripresa di temi della novellistica italiana, nelle Novelle si precisano significative riprese di componimenti del Voltaire.

56 Il Casti aveva già impiegato la sestina in quattro apologhi di argomento anticortigiano, antitirannico, antidemagogico, antibellicista (L’asino, Le pecore, La lega dei forti, Il gatto e il topo).

57 Riporto in proposito tre sestine (canto XIV, str. 43-45). Cito dall’edizione di Lugano del 1821:

Qual parte il cittadin, qual prender puote

interesse il coltor, di pace amico,

alle altrui pretendenze oscure ignote,

a titol dubbio di retaggio antico,

sicché i popoli sieno in guerra spinti

per servir sempre o vincitori o vinti?

Né per altra ragion sparger dovranno

fiumi di sangue i sudditi infelici,

che per cangiar o non cangiar tiranno?

Che cal, se amici sieno o sien nemici

gl’inumani guerrier? Forse migliori

i difensori son degli aggressori?

L’uom fiero piú delle piú fiere belve

è di sua specie disonor, vergogna:

pugnan color nelle natie lor selve

in lor difesa e per la lor bisogna;

l’un contro l’altro s’armano in lor danno

gli uomini folli, e lo perché non sanno.

58 L’attacco al Gran Cucú e alla sua resurrezione (cfr. canto XXII, str. 135-137), oltreché agli allocchi (sacerdoti), è piú volte ripreso in netta chiave anticristiana e antimetafisica.

59 Si ricordino almeno questa sestina sullo sciocco orgoglio degli uomini (canto XIV, str. 60):

Ma tu, che di sí cieco orgoglio pieno

vanti mente sublime, alto talento

su quanto esiste, il tuo conosci almeno

stato di schiavitú, d’avvilimento,

mortale altiero, e su l’altrui dipoi

vanta la tua condizion, se puoi;

o quella sulla natura terribile che schiaccia ugualmente gli uomini piú potenti e gli insetti infimi (canto XXVI, str. 81):

Natura i passi suoi mai non arresta

liberi, irresistibili e sicuri;

regni egualmente e imperi urta e calpesta,

e le capanne e gli umili tuguri;

lo stesso son per li suoi vasti oggetti

gli orgogliosi monarchi e i vili insetti.

60 Che egli appassionatamente invoca nel finale del poema (canto XXVI, str. 100):

Vieni, o santa ragion, risplendi amico

raggio di verità; risplendi, e sgombra

e l’ignoranza e il pregiudizio antico,

che i cuori umani e gl’intelletti ingombra,

e virtú teco faccia a noi ritorno,

e fissi sulla terra il suo soggiorno.

61 Questa citazione è tratta dal vol. III delle Poesie dell’abate C.I. Frugoni fra gli Arcadi Comante Eginetico, 15 voll., Lucca 1779-1780.

62 In Poesie cit. vol. III.

63 Cosí in qualche lungo componimento, nel suo insieme mal leggibile, affioreranno movimenti e brevi immagini che meglio si accordano con il gusto classicistico e neoclassico. Sarà magari un singolo verso piú arioso e luminoso («e respirò le pure aure del cielo») o una breve sequenza di versi piú pacati e mesti («il crin già bianco, / la non piú fresca e non piú rosea guancia, / il men robusto fianco, il piè men fermo / mi fan tacendo ricordar, che forse / lunge non è l’inevitabil ora, / che me da te divida, e porti dove / per i gorghi Letèi niega il ritorno / l’inesorabil condottier de l’ombre», nel vol. X delle Poesie cit., pp. 27-28), o questa immaginetta neoclassica piú gracile e stentata e pur non spregevole («te seguiran le Grazie / e l’alma cortesia / e danzeran per via / levando in alto il piè», nel vol. VIII, p. 258), o questa lieve movenza di armonia nella descrizione («ma può le spiche numerar su i solchi, / può di notturno cielo ad una ad una / contar le stelle, e quanti fior nel grembo / di primavera aura gentil dischiude...», nel vol. I, p. 74), o questo lamento gentile sulla sorte umana («O nostra sventurata egra Natura, / che cadendo altrui sei lunga di pianto / cagione; e se piú tardi il fosco prendi / cammin di morte, l’altrui duro fato / lassa! sopravvivendo a pianger resti», nel vol. I, p. 67).

64 Nel vol. IV delle Poesie cit.

65 è, questa tarda, la fase in cui, pur protestando la sua fedeltà all’Arcadia, il Frugoni si dichiara sazio delle rime occasionali e «comandate», della propria «esterior vaghezza / di forme e di fantasmi» e del proprio «certo dono facile di cantar», ed entusiasta di un nuovo «difficil stile» teso a cantare «quell’egregie cose / che acconciamente trae poeta accorto / da le scienze» (Epistola al Bernieri, nel vol. I delle Poesie cit., p. 14).

66 In Poesie cit., vol. VIII.

67 A. Momigliano, Gusto neoclassico e poesia neoclassica (con lo pseudonimo di G. Flores), in «Leonardo», 1941, e poi in Cinque saggi, Firenze 1945.

68 Ho tenuto presente il testo degli Amori e delle Poesie varie pubblicato nel I volume dei Poeti minori del Settecento, a cura di A. Donati cit. Ma ho corretto qualche lieve svista con l’aiuto dell’edizione degli Amori uscita a Lucca nel 1765.

69 Il Foscolo del 1800 si ricordò di questi versi nel finale dell’ode alla Pallavicini, ancora tutta echeggiante di cadenze e modi savioliano-pariniani.

70 E si pensi ancora soprattutto all’offerta della strofa savioliana che rimarrà a lungo modulo metrico esemplare variamente usufruito dal Bertola e dalla lirica erotica di fine Settecento o – per altri argomenti – dal Parini di A Silvia, dal Monti della Prosopopea e del Signor di Montgolfier.

71

Diè un alto strido, gittò i fiori, e volta

a l’improvvisa mano che la cinse,

tutta in sé per la tema, onde fu colta,

la siciliana vergine si strinse.

Il nero dio la calda bocca involta

d’ispido pelo a ingordo bacio spinse,

e di stigia fuligin con la folta

barba l’eburnea gota e il sen le tinse.

Ella già in braccio al rapitor puntello

fea d’una mano al duro orribil mento,

de l’altra a gli occhi paurosi un velo.

Ma già il carro la porta; e intanto il cielo

ferian d’un romor cupo il rio flagello,

le ferree ruote e il femminil lamento.

Cito dal Saggio di rime del signor Giulio Cassiani ecc., date in luce da un discepolo amico delle Muse, Lucca 1770.

72 Cito dal volume I della già ricordata raccolta di Poeti minori del Settecento, a cura di A. Donati.

73 E sarà presente – insieme alle visioni montiane – alla cantica Appressamento della morte del giovane Leopardi, che del linguaggio varaniano – specie nel suo netto ed eccessivo contrasto fra valori e disvalori – risentirà a lungo, e serberà stima notevole per il Varano, come mostra la sproporzionata scelta dalle Visioni nella Crestomazia poetica (cfr. in proposito il mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento nel volume miscellaneo Leopardi e il Settecento cit.).

74 Si ricordi che la motivazione del celebre terremoto del 1755 è per il Varano la scarsa pietas religiosa della donna portoghese!

75 Opere poetiche, Parma 1789, II, p. 351.

76 Il Lamberti lasciò, come prova del suo interesse per Venezia, delle prolisse Memorie degli ultimi cinquant’anni della repubblica di Venezia, di cui recentemente M. Dazzi ha pubblicato una parte (A. Lamberti, Ceti e classi sociali nel ’700 a Venezia, Bologna 1959), in cui il nostalgico laudator temporis acti analizza le varie categorie nobiliari, cittadinesche e popolari, rivelandosi particolarmente acuto nei riguardi delle donne e dunque in accordo con la sua stessa attenzione di piccolo poeta della grazia femminile.

77 Cito dalle Poesie di A.M. Lamberti, 3 voll., Venezia 1817.

78 Per Napoli si ricordino Nicolò Lombardo autore della Ciucceide, Nicola Capasso traduttore di parte dell’Iliade in napoletano, Nunziante Pagano, Vincenzo Ciaffa, lo stesso sant’Alfonso de’ Liguori, autore di facili e aggraziati componimenti in vernacolo; per la Liguria soprattutto Stefano De Franchi (1714-1785); per Roma almeno Benedetto Micheli con i suoi poemi giocosi e i suoi componimenti teatrali e con le piú graziose poesie erotiche.

79 Ne riporto il deciso finale in cui il Calvo intima ai patrioti repubblicani la soppressione indispensabile degli aristocratici:

Fin ch’j avrí col sangh impur

ant ’l regno dl’ uguaglianssa,

chitè pura la speranssa,

podrè mai vive sicur.

Pendie tuit attaccà un trav

o tajeje almanc la testa:

basta un, un sol, ch’ a resta

tard o tòst av farà scciav.

«Fin che voi avrete quel sangue impuro nel regno della eguaglianza lasciate pure la speranza di poter mai vivere sicuri. Impiccateli tutti ad un trave o tagliate loro almeno la testa, basta uno, uno solo che resti, tardi o presto vi farà schiavi» (Riporto il testo e la traduzione di M. Fubini, in Lirici del Settecento, Milano-Napoli 1959, p. 1137).

80 La poesia dialettale è in Sicilia una delle vie piú praticate per una nuova partecipazione dell’isola alla letteratura. Infatti, il caso del Meli non è isolato e numerosi sono gli scrittori dialettali siciliani: dal Sarmento al Ronda (piú rozzi e popolari) ai piú colti e consapevoli, il catanese Carlo Felice Gambino, Giuseppe Fedele Vitale da Gangi, Venerando Gangi da Acireale, il catanese Domenico Tempio (1759-1821), efficace realistico e beffardo descrittore di costume (specie nei poemi Lu veru piaciri e la Caristia) e spregiudicato cantore di uno sfrenato erotismo.

81 Non si dimentichi di calcolare questa componente «nazionale» della sua poetica bucolico-georgica, che poteva anche aspirare a collaborare al rinnovamento e alle riforme della vita agricola e pastorizia della Sicilia – per cui, nel 1801, scriverà le Riflessioni sullo stato presente del regno di Sicilia intorno all’agricoltura e alla pastorizia –, alla difesa della dignità e utilità di contadini e pastori, a cui piú esplicitamente si ispirano Li munti Erei, Teocritu, La villa favurita.

82 Che poi ancor piú chiaramente sarà esaltata nell’ode La paci e nell’ode La cicala.

83 «Montagnette interrotte da vallate, / rocce vestite di muschio e di edera, / cadute di acque chiare inargentate, / rivoletti mormoranti e stagni muti; // rupi e petraie oscure dentro la macchia, / sterili giunchi e ginestre fiorite, / tronchi da lunga età mal ridotti, / grotte e gemitii d’acque già petrificati, // passeri solitari che piangete, / Eco, che ascolti tutto, e poi ripeti, / olmi abbracciati strettamente dalle viti, // vapori taciturni, ombre segrete, / ritiri tranquillissimi, accogliete / l’amico della pace e della quiete» (La Buccolica, Introduzioni, sonettu I. Cito testi e traduzioni da G. Meli, Opere, a cura di G. Santangelo, I, Milano 1965).

84 «Già cadevano grandi dai monti / le ombre, spruzzando sopra le campagne / la brina sottile; da ogni lato / si vedevano fumare in lontananza / le rustiche capanne; a branchi a branchi / tornavano le pecore agli ovili: / parte scendevano dai pendii, e parte, / sfilando dai macchioni e inerpicandosi / attorno alle concave vallate, / venivano allegre nelle aperte pianure» (La Buccolica, La primavera, Idiliu I, vv. 1-10).

85 «Questi silenzi, questa verdura, / queste montagne, queste vallate / l’ha creati la natura / per i cuori innamorati. // Il sussurro delle fronde, / il lamento del fiume, / l’aria, l’eco che risponde, / tutto spira sentimento» (La Buccolica, La primavera, Idiliu I, vv. 54-61).

86 «Come nello spaccare dell’albore, / in mezzo ai silenzi rugiadosi, / si fa sentire qualche rauca nota / che un’allodola azzarda sotto voce; / ma quando poi si veste l’orizzonte / di porpora, e poi d’oro, allegri tutti / tordi, merli, scriccioli e calandre, / e passeri e cardelle e capinere / rompono a tutta lena, e con i canti / vanno assordando l’aria e le pianure...» (La Buccolica, L’invernu, Idiliu VIII, vv. 206-215).

87 «Cadono le prime acque, / i venti fanno guerra, / l’odore della terra / grato si sente già; / verdeggiano le olive, / matura è l’uva: / Fille, bellezza fina, / ecco l’autunno è qua» (La Buccolica, L’autunnu, Ecloga V, vv. 73-81).

88 «Brio» e «non so che» sono i titoli di due odicine, Lu briu, Lu non-so-chi, ben significative per questa componente rococò della lirica meliana.

89 Nell’ode Lu neu (vv. 5-8), Il neo. «In codeste nevi ancora intatte / come siedi! come spicchi! / Ah! il cuore già mi sbatte, / fa la gola lappe lappe».

90 Nella canzonetta Li Piscaturi (vv. 57-72), I pescatori. «Andiamo alle nasse, / oh che piacere! / Andiamo a vedere, / che pesca c’è. // Vedremo sbattere, / vivi e vermigli, / scorfani e triglie / a bizzeffe. // Il mare invita, / il fresco alletta; / via, che s’aspetta? / via, che si fa? // Ragazze belle, / venite al mare, / le acque son chiare, / la barca è qua.»

91 Nell’ode Lu labbru (vv. 1-28), Il labbro. «Dimmi, dimmi, apetta piccina: / dove vai cosí mattino? / Non c’è cima che rosseggia / del monte a noi vicino; // trema ancora, ancora luce / la rugiada tra i prati; / abbi cura a non bagnarti / l’ale d’oro delicate! // I fioretti sonnacchiosi / ne’ verdi lor bottoni / stanno ancora stretti e chiusi / con le teste penzoloni. // Ma l’aletta si affatica! / Ma tu voli e fai cammino! / Dimmi, dimmi, apetta piccina: / dove vai cosí mattino? // Cerchi miele? E s’egli è questo, / chiudi l’ale e non straccarti; / te lo insegno un luogo fisso, / dove hai sempre che succhiare; // lo conosci il mio amore, / Nice mia dagli occhi belli? / In quei labbri c’è un sapore, / una dolcezza che mai finisce; // nel labbro colorito / del caro amato bene / c’è il miele piú squisito: / succhia, succhialo, che viene».

92 Nell’ode La cicala (vv. 1-6). «Cicaletta tu ti assidi / sopra un ramo la mattina; / una fronda ti metti / alla testa per cortina, / e là passi la giornata / a cantare sfaccendata.»

93 Esemplare in tal senso Lu cunvitu di li surci, con la scena mossa e divertita del trambusto improvviso ed estroso provocato dal suono della campana nel campanile in cui i sorci sono intenti a un lauto pasto.

94 Particolarmente importanti, anche per le polemiche suscitate, sono le opere storiografiche e critico-pragmatiche dedicate al melodramma da Stefano Arteaga (1747-1799), gesuita spagnolo italianizzatosi dopo la soppressione del suo Ordine, e autore – fra altre opere dedicate all’estetica o alla discussione col Tiraboschi e Andrés circa l’influenza della poesia araba sull’origine della poesia rimata in Occidente – delle Rivoluzioni del teatro musicale italiano dalla sua origine fin al presente (1783-1785), e, al teatro italiano in genere, da Pietro Napoli-Signorelli (ricordato per la sua opera di storiografo civile nella parte del Diaz sugli illuministi meridionali), che descrisse e analizzò lo svolgersi dell’arte e del gusto teatrale attraverso i secoli nella sua Storia critica de’ teatri antichi e moderni (I ed. 1777, II ed. ampliata 1787-1790), ispirata all’ideale classicistico-illuministico di un teatro razionalmente e moralmente istruttivo e piacevole per forza patetica e «raffinamento» di un’arte esemplificata nei tragici greci piú colti e inciviliti (Euripide), nei classici francesi del Seicento (soprattutto Racine) e nell’ammiratissimo classicista illuministico Voltaire.

95 Mentre nel periodo piú giovanile (negli anni passati nei collegi di Bologna e di Parma) il Bettinelli aveva soprattutto puntato sul problema del teatro come educazione dei giovani (fra istanze gesuitiche e spinte piú chiaramente illuministico-voltairiane espresse nella Lettre à l’Infant Philippe, con maggiore fiducia nelle possibilità di un nuovo teatro italiano), in anni piú tardi (nel Discorso sul teatro italiano premesso alle sue tragedie, che quella Lettre traduceva in italiano correggendola con note integrative, e poi in vari scritti come i Dialoghi d’amore fra ’93 e ’96) egli venne configurando in forme piú acri e critiche le sue posizioni sul melodramma e sulla tragedia italiana ed esprimendo piú duri dissensi circa le nuove forme del teatro lacrimoso e borghese, e la sua scontentezza anche di fronte al teatro tragico alfieriano, come vedremo nelle pagine direttamente dedicate al profilo bettinelliano. Ma tutta la storia dell’interesse teatrale del Bettinelli meriterebbe un accurato studio che traesse profitto anche da lettere e carte inedite giacenti nella Biblioteca di Mantova.

96 Si veda in proposito la parte dedicata alla critica settecentesca nel profilo della storia della critica metastasiana di S. Romagnoli nei Classici italiani nella storia della critica, da me diretti, II, Firenze 19642, pp. 43-88.

97 Nella introduzione ad un’edizione parigina delle opere del Metastasio (1755).

98 Intorno a lui e alla sua riforma si possono ricordare, fra gli altri librettisti, Giovanni Ambrogio Migliavacca e Marco Coltellini.

99 Il Calzabigi aveva anche satireggiato le feroci polemiche in Francia fra i sostenitori della musica francese (essi stessi divisi tra fautori del Rameau e fautori del Lulli) e quelli dell’opera «buffa» italiana, amata dagli enciclopedisti (polemiche riprese poi fra i sostenitori del Piccinni e quelli del Gluck), in un poema, tuttora inedito, la Lulliade, in cui il critico, dal suo punto di vista illuministico, satireggiava insieme la religione, la Chiesa, i costumi, le istituzioni sociali e la letteratura del suo tempo.

100 Nel teatro comico napoletano sarà anche da ricordare la singolare esperienza di autore-regista del fecondissimo scrittore di corte (al tempo di Carlo III di Borbone) Domenico Luigi Barone marchese di Liveri (1685-1757), famosissimo – sí da attrarre l’attenzione e l’imitazione del Goldoni nel Filosofo inglese – per le sue lunghissime e spettacolari commedie, artisticamente assai scadenti, ma non prive di interesse quanto ad una complicata tecnica teatrale e registica (il Barone era allestitore necessario delle sue singolari opere) che metteva in scena folle variopinte di personaggi, azioni «duplicate, triplicate e sin quadruplicate», e registicamente calcolate nel piú minuto effetto di un gesto e di una battuta (fece provare trentadue volte gli effetti di un «sospiro»!).

101 Satira che si compendia nella paradossale battuta di Tammaro (nella scena 1 dell’Atto I): «In casa mia / voglio che tutto sia grecismo; e voglio / che sino il can che ho meco, / dimeni la sua coda all’uso greco». Cito dalla Raccolta di melodrammi giocosi scritti nel secolo XVIII, Milano 1826.

102 Fra le scene piú movimentate e comiche è quella (scena 12 dell’Atto I) in cui Tammaro fa eseguire ai suoi allievi, poveri popolani della Basilicata, danze ginnico-filosofiche al ritmo di cori che cantano spropositate sentenze greche.

103 Questi due ultimi sono tuttora inediti, ma meritano la cura di una pubblicazione cui attualmente attende un mio allievo, Gabriele Muresu.

104 Dopo la piú aspra polemica con il Goldoni, fin verso il ’61, il Chiari fu indotto dal crescente successo di Carlo Gozzi a riconciliarsi con il Goldoni nella difesa contro il nuovo comune e fortunato avversario.

105 Che furono violentemente stroncate dal Baretti nella «Frusta letteraria», provocando un libello violentissimo del Buonafede, Il bue pedagogo.

106 Egli fu anche, in collaborazione con l’Altanesi, autore di pesanti Novelle morali ad uso dei fanciulli, e, in collaborazione con lo Zacchiroli e col Compagnoni, di una raccolta di Lettere capricciose e di Lettere piacevoli se piaceranno, altrettanto deboli e scialbe.

107 Notevole per equilibrio e per la finezza di giudizi sul prediletto Goldoni soprattutto il trattato Del moderno teatro comico e del suo restauratore Carlo Goldoni (Bassano 1794). L’altro saggio è il Trattato dell’arte drammatica del 1790.

108 Val la pena di riportare la lezioncina finale che il saggio conte di Stembergh rivolge ai nobili che avevano trattato villanamente l’imperatore presentatosi a loro come semplice ufficiale senza titoli nobiliari: «Ella [la presente avventura] vi insegna ad esser cauti per l’avvenire; dignitosi, ma non superbi; cortesi cogli eguali, docili con tutti e umani cogl’inferiori... Questi sono i segni distintivi e il carattere della nobiltà» (cito dalla Raccolta di commedie scritte nel secolo XVIII, Milano 1827, II, p. 225).

109 Cfr. C. Gozzi, Memorie inutili, a cura di D. Bulferetti, Torino 1928, vol. I, parte II, cap. XLVI, p. 131.

110 Inizialmente nell’Amore delle tre melarance il Gozzi aveva adottato la forma del «canovaccio» delle commedie dell’arte, scrivendone direttamente solo alcune scene (e a noi rimane solo l’«analisi riflessiva» scrittane piú tardi dal Gozzi). Poi capovolse il rapporto tra parte di canovaccio e parte interamente scritta, stendendo tutto il componimento e lasciando solo di alcune piccole parti l’indicazione precisa della trama affidata allo svolgimento dei comici.

111 È il caso di C. Miklasevskij nel suo libro, «La commedia dell’arte», ou le théâtre des comédiens italiens des XVIème, XVIIème, XVIIIème siècles, Paris 1927.

112 Nell’Augellino belverde l’attacco alla «snaturata» filosofia dell’amor proprio e dell’interesse utilitaristico come unica molla delle azioni umane si precisa nel centrale contrasto – in mezzo a molti altri personaggi vivacemente estrosi e grotteschi – fra i due giovani fratelli, Barbarina e Renzo, allievi della filosofia illuministico-materialistica, e divenuti cosí disumani e cinici, e l’ingenua Smeraldina, la madre adottiva, che, contrapponendo ad essi il suo sentimento schietto e genuino, la sua fede istintiva in valori di fedeltà e di affetti naturali spinti fino al sacrificio di ogni personale interesse, riesce a commuovere (si rilegga almeno la terza scena del III Atto) e convertire Barbarina, che alla fine è condotta a riconoscere falsa la filosofia in cui prima credeva:

Lasciami, Smeraldina; io piú non merto

soccorso da nessun. Piú, che degli altri,

merito l’odio tuo. Povera donna!

Tu pietosa alla morte mi togliesti,

tu m’allevasti, e in semplici parole

mi dipignesti amor, timor, dovere

d’una vita mortale; io t’ho derisa,

e negli studi miei stolti e fallaci,

quella ragion dal ciel moderatrice

d’umane passion, posta in noi tutti,

m’assuefeci a disprezzare ed empia,

impossente ridussi, onde in tumulto

posi le brame, insaziabil torma;

schiava d’esse divenni. Io ben conosco,

ma tardi, gli error miei...

(Atto IV, sc. 10; cito da C. Gozzi, Opere, a cura di G. Petronio, Milano 1962).

113 E si ricordi che il Gozzi considerava tale teatro «informe e stravagante» e ne usava come di un materiale di trame «strane e mostruose» per rifacimenti che poco tenevano conto dello spirito piú stimolante dei testi utilizzati.

114 C. Gozzi, La Marfisa bizzarra, a cura di C. Ortiz, Bari 1911, p. 324.

115 Ma certo almeno Goldoni e Chiari sono identificabili in Marco e Matteo del Pian di San Michele, e cosí è riconoscibile l’autore stesso in Dodone della Mazza.

116 La Marfisa bizzarra, canto XI, str. 23.

117 Si veda tutto l’episodio nella Marfisa bizzarra, canto XII, str. 16-31.

118 Ma le due prime parti (che narrano le vicende dell’autore fino al 1780) furono scritte prima e vennero pubblicate insieme ad una terza parte (relativa alla vita dell’autore dal 1780 al 1798) solo quando, sotto il governo democratico, il Gozzi poté avvalersi della nuova libertà di stampa per dare alla luce un libro che la censura del governo aristocratico non avrebbe autorizzato per le sue parti diffamatorie e scandalistiche.

119 V.C. Bombieri, Le due redazioni delle «Memorie inutili» di C.G., in «Giornale storico della letteratura italiana», CXLII, 1965, 438.

120 Memorie inutili, ed. cit., vol. I, parte I, cap. XI, pp. 78-86.

121 Memorie inutili, ed. cit., vol. II, parte III, cap. I, pp. 153-156.

122 Come quando il Gozzi assunse, nel 1746, l’impresa del Teatro Sant’Angelo, portandola avanti per due anni, in perdita, cercando di contribuire personalmente al successo di quel teatro con adattamenti suoi di opere teatrali straniere e con commedie sue (Il filosofo innamorato, Esopo in città, Esopo in corte), opere assai scadenti, come sono altri drammi scritti nel decennio successivo, quali l’Enrico Dandolo, il Marco Polo, ecc.

123 E il Gozzi non mancò di aver dolorosa coscienza del contrasto di questa attività «commissionata» con i suoi ideali di lenta ed assidua elaborazione stilistica, come può vedersi, ad esempio, nel sermone A S.E. Marco Foscarini: «Pattuir convenne / il mio cervello, ed operaio farlo / degli ingordi librai; di giorno in giorno / darne lor parte...» (nel vol. XI della edizione delle Opere a cura di A. Dalmistro, Padova 1818-1820). E cosí avvertí sempre, con dolente grazia autoironica, un destino di contrasti fra volontà e possibilità di realizzazione, come egli dice in una lettera del 10 settembre 1770 alla Dolfin Tron (vol. XVI delle Opere, ed. cit., pp. 72-73): «Ma posso io mai fare quel che vorrei? E non sono io nato per isvaporare tutto in desiderj senza effetto?».

124 Si ricordi almeno il rabbioso e argutamente malinconico Lamento del poeta Squacchera sopra la povertà (nel vol. XIV delle Opere, ed. cit,).

125 Sí che la Commedia si sarebbe dovuta piú giustamente intitolare Libro di Dante o Danteide.

126 Il «Mondo morale» fu pubblicato settimanalmente dal maggio del 1760.

127 Fu pubblicata dal 6 febbraio 1760 al 31 gennaio 1761, uscendo il mercoledí e il sabato di ogni settimana, presso l’editore Marcuzzi.

128 Fu pubblicato dall’editore Colombani dal 4 febbraio 1761 al 18 agosto 1762, prima bisettimanale, poi settimanale.

129 E rivolgendosi al pubblico, invitato a «spontaneamente somministrarmi di che impinguare la Gazzetta», il Gozzi sottolineava il particolare gusto di un giornale nato, volta a volta, in un’attiva collaborazione col pubblico veneziano, con le sue notizie, le sue curiosità, le sue esigenze.

130 Dal n. III del 13 febbraio 1760 (nell’edizione della «Gazzetta veneta», a cura di A. Zardo, Firenze 1915 e ristampata nel 1957 con nuova presentazione di F. Forti, p. 16).

131 Dal n. IV del 16 febbraio 1760, ed. cit., p. 21.

132 Dal n. XII del 15 marzo 1760, ed. cit., p. 56.

133 Suggestiva è specialmente l’apertura del passo con la descrizione della viuzza popolare piena di donne sedute sugli usci a lavorare, a ciarlare fra di loro e a contendere con una maestra che punisce i suoi piccoli allievi e provoca il loro coro di pianti e lamenti: «La calle del forno a San Polo è quale io la descriverò al presente. Larga, lunga, diritta, con molte casipole di qua e di là, abitate da certe donnicciuole, le quali tutto il verno stannovi dentro intanate, e quando la stagione comincia a migliorare, escono a guisa di lucertole, e portate fuori loro sedie impagliate, mettonle agli usci, e fatta sala della via, una fa calzette coi ferruzzi, un’altra dipana, quale annaspa, qual cuce: in somma tutte fanno il loro mestiere particolare e in ciò sono divise, ma parlano in comune dallo spuntare fino al tramontar del sole; e per giunta al cicaleccio, avvi anche una maestra di scolari, la quale non sapendo in qual altra dottrina ammaestrargli, tirando orecchi, dando ceffate e con le aperte palme cularelli percuotendo, insegna loro a stridere e a gridare quanto esce loro della gola; tanto che talvolta si ode un coro di fanciulli che piangono, di donne che rinfacciano la sua crudeltà alla maestra, e di maestra, la quale fa le sue difese, che né Sofocle, né Euripide non inventarono mai in tragedia coro a questo somigliante» (dal n. XXI, del 16 aprile 1760, ed. cit., p. 97).

134 Dal n. V del 20 febbraio 1760, ed. cit., p. 25.

135 Ibidem.

136 Si rilegga almeno questo, assai felice nella corrispondenza fra ritmo della prosa con i suoi periodi brevi e simmetrici, e la noia che si sprigiona da quella vita insulsa e vuota: «Alcippo vuole e disvuole. Quello che s’ha a fare, finché lo vede da lontano, dice: Lo farò. Il tempo s’accosta, gli caggiono le braccia, ed è un uomo di bambagia vedendosi appresso la fatica. Che s’ha a fare di lui? Pare uomo di rugiada. Le faccende l’annoiano; il leggere qualche buona cosa gli fa perdere il fiato. Mettiamolo a letto. Quivi passi la sua vita. Se una leggerissima faccenduzza fa, un momento gli sembra ore. Solo, se prendesi spasso, l’ore gli sembrano momenti. Tutto il tempo gli sfugge, non sa mai quello che n’abbia fatto; lascialo scorrere come acqua sotto al ponte. Alcippo, che hai tu fatto la mattina? Nol sa. Visse, né seppe se vivea. Stettesi dormendo quanto poté il piú tardi; vestissi adagio; parlò a chi primo gli andò davanti, né seppe di che; piú volte si aggirò per la stanza. Venne l’ora del pranzo. Passerà il dopo pranzo, come la mattina passò; e tutta la vita sua sarà uguale a questo giorno» (dal n. XXIX del 13 maggio 1761, in «L’ Osservatore veneto» a cura di E. Spagni, Firenze 1914, p. 125).

137 Calligrafismo che appoggiò un notevole favore per il Gozzi nel periodo della novecentesca «prosa d’arte».

138 Il caso della villanella Mattea nel n. XLVIII del 18 luglio 1761 (ed. cit., p. 202), che, con aggraziata sincerità, rileva fra l’altro la misera sorte delle contadine specie quando si sono sposate: «... infino a tanto che noi stiamo in casa del padre, ci vengono risparmiati una parte dei lavori, acciocché, apparendo un pochetto piú vistose e manco stentate, ritroviamo piú facilmente chi ci voglia. E perciò in quel tempo noi abbiamo un poco piú salde le carni, e siamo un poco meno incotte dal sole; aiutandoci noi medesime dal lato nostro col lavarci qualche volta la faccia, o con un fiorellino o due qui nel seno o alle tempie. Ma non sí tosto s’è detto quel benedetto , che ci ha legate; il giorno dietro delle nozze, la prima gentilezza, avanti che spunti il sole, è piantarci una zappa o una vanga in mano, e condurci con la nuova famiglia a dilombarci in un campo, dove noi altre povere sciocche, per parere d’assai davanti agli occhi de’ congiunti, ci disertiamo il codrione a lavorare; e non è passata una settimana, che diventiamo magre, nere come il carbone, e siamo tutte slogate, come una botte ch’abbia perduti i cerchi, e a cui si sieno sfasciate le doghe, le quali si rovesciano da tutti i lati quando abbiamo fatto il primo fanciullo; perché fra l’allattare, lo sfiatarsi ne’ campi di là ad otto dí, il mal governo, e la poca creanza de’ mariti, non possiamo mai piú rifare le carni, e per aggiunta quel vostro bel sole ci abbrustolisce le cuoia, che diventiam zingare».

139 «Come si ha a fabbricare la felicità? Con una bella, gagliarda e instancabile forza della fantasia», «Se avete desiderio di acquistare qualche agio e bene all’animo vostro la poesia è la manna del cielo».

140 Nel n. XI dell’11 marzo 1761, in «L’Osservatore veneto», ed. cit., pp. 48-49.

141 Come già R. Saccardo ed ora M. Berengo nella introduzione alla sua scelta dei Giornali veneziani del Settecento, Milano 1962 , pp. XL-XLII.

142 Come, ad esempio, nel Sermone iv al Màstraca, la satira delle damine al passeggio:

... Or veggo brevi

e presti passi: una, incordata i nervi,

va lenta e sopra sé; dimena l’altra

come anitrino gli ondeggianti lombi:

qual alza ardita il collo; un’altra un poco

da un lato il torce; e v’ha chi appoggia i polsi

su’ fianchi, e spinge i gombiti all’indietro,

e il ventaglio apre e chiude...

(seguo il testo datone nella raccolta di Scritti scelti del Gozzi, a cura di N. Mangini, Torino 1960).

143 Come nel Sermone al Mei:

... Io dopo mille e mille

perduti stenti, alfin m’adagio e dormo.

Chi vede a voto andarne ogni speranza,

disperi, e cerchi in sé la sua quïete.

Poscia ch’io sí fermai nel cor, la vita

m’è dolce sogno, e sogno è quant’io veggio.

I’ solea già d’ogni mio caso avverso

grave doglia sentir; vedea da lunge,

o vedergli volea, travagli e affanni.

Fra pensieri e ripari era la vita

sempre in burrasca, e mai non vedea porto.

Le cortine or calai; d’intorno a gli occhi,

di mezzogiorno, di mia man m’ho fatto

buio, tenebre e notte; e quanto veggio

venirmi avanti, è apparimenti ed ombre.

Or avvenga che vuol; dormendo dico:

«Ecco sogno novello». Ho detto, e passa.

144 In Opere, ed. cit., vol. XVI, p. 146.

145 Impegno realizzato in vari scritti pieni di buon senso e di acume: dal primo progetto di Riforma degli studi (1770) allo scritto Delle scuole di Venezia da porre invece di quelle de’ Gesuiti (1773), fino a quello Sopra il corso di studi che piú convenga all’Accademia della Zecca di Venezia (1775).

146 V. Alfieri, Vita scritta da esso, a cura di L. Fassò, Asti 1951, I, p. 53 (Epoca II, cap. VII).

147 U. Foscolo, Saggi di critica storico-letteraria tradotti dall’inglese, raccolti e ordinati da F.S. Orlandini e da E. Mayer, in Opere edite e postume, vol. I, Firenze 1850, p. 441.

148 Novellismo in gran parte, appunto, di origine boccaccesca e cinquecentesca, come già era avvenuto nel primo Settecento in novelle in prosa del Manfredi, dell’Argelati, del padre Bandiera (autore di un Gerotricamerone che trasferiva nei moduli novellistico-boccacceschi argomenti sacri!), e poi nella novella l’Agnoletta del Parini, e in quelle dello Scotti e di altri. Novelle educative e morali furono poi scritte dal Soresi, dal Soave, dal Padovani.

149 Si pensi al caso, da me scoperto, della traduzione italiana anonima del Socrate delirante del Wieland (per cui rimando al mio saggio Il Socrate delirante del Wieland e l’Ortis in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze 19672, pp. 211-238) e si ricordi, nella grossa bibliografia inerente ai rapporti fra l’Ortis, il Sesto tomo dell’io e i romanzi europei, il saggio di C.F. Goffis, Il Sesto tomo e la formazione letteraria del Foscolo, in Studi foscoliani, Firenze 1958.

150 Si pensi almeno alla traduzione del Werther pubblicata dal Grassi a Poschiavo nel 1781 e, piú ancora, a quella di Michelangelo Salom (Michelangelo Arcontini) uscita a Venezia nel 1788, ambedue attive nel wertherismo del Monti, del Foscolo e del Leopardi.

151 Fra gli autori di romanzi avventuroso-galanti si possono ricordare G.B. Verci (Istoria di Delj, ossia avventure curiose di un Turco pubblicate da uno scrittore imparziale), G.M. Foppa (L’innamorato, ossia Memorie del signor S.D., Memorie del Marchese d’Astorgo, Clersí), F. Gritti che, con la Mia istoria, ovvero memorie del signor Tommasino, scritte da lui medesimo. Opera narcotica del Dottor Pif-Puf, scrisse una complicata, intrecciatissima parodia dei romanzi avventuroso-galanti. Per il genere «allegorico» citiamo i due romanzi, d’incerta attribuzione, Viaggio nei luoghi piú riflessibili dell’Isola d’Amore e Naufragio felice allo scoglio del Disinganno ecc. Tra gli autori di romanzi storici, o di pastiches romanzeschi su personaggi storici, si ricordano G.R. Sanseverino (Storia della vita e tragica morte di Bianca Cappello ecc.), V.A. Formaleoni (Caterino Zeno, storia curiosa ecc.), B. Robbio di San Raffaele (Boezio in carcere), G.B. Fanucci (La Rossane) e, infine, già in area tra fine Settecento e primo Ottocento, G. Compagnoni (Le veglie del Tasso, Epicarmo, ossia lo Spartano). Scrissero invece, fra gli altri, romanzi religiosi, o di tipo religioso-avventuroso, C.G. Scotti (L’impostore del paradiso di Maometto) e G.B. Micheletti (Il monte di Aretea, a carattere pedagogico, e Lettere solitarie, romanzo epistolare a sfondo edificante).

152 Quale Gasparo Gozzi con il Mondo morale e il Regno degli Orsi o – nel genere novellistico – Ippolito Pindemonte con la novella Abaritte.

153 «Questo mondo parlatore, ed incontentabile mi assegni una pensione annuale di qualche migliaio di scudi da mantenermi decorosamente nella mia condizione, e poi dia legge a suo senno alla penna mia, e al mio pensiero, che tenterò ancora l’impossibile, a solo fine di contentarlo» (La francese in Italia o sia Memorie critiche di Madama N.N. scritte da lei medesima e pubblicate dall’abate Pietro Chiari, tomo I, Parma 1763, articolo I, p. 8).

154 Il caso del cantante Filippo Balatri di Pisa (1676-1756) che narrò, in modi assai grezzi, ma non senza ricchezza di tratti piú freschi e di un’aneddotica assai vivace, la propria vita nelle varie corti di Europa nei Frutti del mondo, pubblicati dal Vossler nel 1924 nella «Collezione settecentesca» diretta dal Di Giacomo.

155 Filippo Mazzei (Poggio a Caiano 1730-Pisa 1816), medico e «avventuriero onorato» attivo nella rivoluzione americana e francese, nella crisi del regno di Polonia, volle da vecchio, nel 1810, stendere le sue Memorie (pubblicate poi solo nel 1845-1846 dal Capponi, a Lugano, col titolo Memorie della vita e delle peregrinazioni del fiorentino Filippo Mazzei) in cui narrare la sua complessa vicenda biografica soprattutto in relazione ai suoi impegni e interessi politici che infatti costituiscono il centro d’interesse di quel libro artisticamente poco considerabile malgrado certa abbondante ritrattistica e aneddotica che serve ad illuminare personaggi variamente illustri come il marchese Domenico Caracciolo, il Galiani, il Tanucci, il David, il Casti, il Franklin, il Jefferson, il Mirabeau, ecc., ma piú attraverso la citazione di loro frasi ed aneddoti che non per opera della penetrazione e della resa scrittoria del Mazzei. Dell’interesse storico e politico del Mazzei sono ulteriore prova le sue lettere pubblicate da R. Ciampini (Un osservatore italiano della Rivoluzione francese. Lettere inedite di F.M. al re Stanislao, Firenze 1934, e Lettere di F.M. alla corte di Polonia, Bologna 1937) nonché le Recherches historiques et politiques sur les États Unis de l’Amérique septentrionale ecc., Colle-Paris 1788.

156 I Mémoires rimasero a lungo inediti e – dopo i parziali estratti che ne ha dato il Monnier nel 1874 – furono pubblicati (ad esclusione di un’ultima parte) a Milano da A. Casati in tre volumi: Memorie di giovinezza e di guerra (1740-1763), Milano 1936; Corti e paesi (1764-1766), Milano 1938; Dal dispotismo illuminato alla Rivoluzione (1767-1791), Milano 1942.

157 Si pensi all’incontro di megalomania esaltata e depressa, con incerto e maldestro intreccio di autoesaltazione e di autoironia, nel capitolo sui progetti di farsi re della Corsica (cfr. il capitolo IV, Quels étaient mes projets sur la Corse, del volume Corti e paesi cit., pp. 9-11).

158 Anche nella parte piú ricca di avventure e di materiali risorse di scene di vita galante e fastosa – quella sul soggiorno spagnolo – ,la resa scrittoria è mediocre ed esteriore e solo molto approssimativamente si potrà dare un certo rilievo alle pagine piú affollate di persone e di scene di vita nella descrizione degli «amusements de Cadix» (capitoli XLII-XLV del volume Corti e paesi cit., pp. 146-160), della vita opulenta di quella città di mare siglata da un’osservazione che non riesce a rendere se non convenzionalmente la formidabile impressione di vitalità e di animazione, di ricchezza che il Gorani vi ha provato: «Lorsque des flottes partaient pour l’Amérique ou qu’ils en arrivaient, Cadix acquérait une vie extraordinaire, car les marchands et commissionnaires de toutes les nations refluaient de toutes parts pour vendre et acheter. On ne savait alors comment se tourner dans les rues et les promenades, à cause de la foule qui les obstruait. Dans ces occasions on peut bien dire avec vérité que l’or et l’argent coulaient dans les maison, les magasins et les rues avec une abondance surprenante» (p. 151). Cosí come un motivo di per sé presente nella prospettiva rievocativa del Gorani (il fascino del ricordo della gioventú nella vecchiaia) si irrigidisce nelle formule assai convenzionali a sua disposizione: «Aussitôt que Doña Francisca eut fini de chanter et de pincer l’instrument avec toutes les grâces d’une déesse, on la pria de danser un fandango. Oh!, je ne puis penser à cet animé fandango, sans que quinze ou vingt ans ne s’ôtent du poids de ma vieillesse. Quelle âme pourrait résister à une danse si céleste?» (p. 115).

159 Cosí i ritratti del marchese di Pombal, del Kaunitz, di Mirabeau finiscono per diventare troppo facilmente grotteschi nel rilievo meschino e livellante delle loro debolezze e dei loro difetti presi a spiegazione di tutta la loro personalità.

160 Fra le molte opere dell’avventuriero-poligrafo saranno ancora da ricordare, per la sua versatile ambizione di scrittore e di uomo di cultura (nonché per le ragioni spesso interessate dei suoi scritti), un altro romanzo Aneddoti viniziani militari e amorosi del secolo XIV sotto i dogadi di Giovanni Bragadin e di Giovanni Dolfin; la Confutazione della storia del governo veneto di Amelot de la Houssaye (apologia del governo veneziano scritta anche nella speranza di essere riammesso in patria); la Storia delle rivoluzioni di Polonia; una traduzione incompiuta, in ottave, dell’Iliade; sette volumi di Opuscoli miscellanei; il libello Né amori né donne; un giornale di critica teatrale «Le messager de Thalie».

161 Cfr. l’edizione integrale pubblicata dalla casa Brockhaus, Wiesbaden-Paris 1960, I, pp. XIV-XV.

162 Cfr. Histoire, ed. cit., I, pp. XV-XVI («Pour ce qui regarde les femmes, j’ai toujours trouvé que celle que j’aimais sentait bon, et plus sa transpiration était forte plus elle me semblait suave»).

163 Histoire, ed. cit., I, p. XIII.

164 L’impresa piú affascinante per il vecchio scrittore era proprio quella di far rivivere nella narrazione i vari momenti del passato nella loro forza di «presente»: quel «presente» che era per lui (come dice a p. 92 del VII vol. dell’Histoire) l’unica cosa «reale» e godibile, opposta al vano rimpianto del passato e alle tenebre dell’avvenire in cui nulla è certo se non l’aborrita morte ultima linea rerum. Perciò la stessa molla del recupero del passato non provoca nello scrittore intenerimenti nostalgici, ma un totale impegno nella ricreazione di momenti di quello che fu il «presente» e che come tale egli vuole far rinascere nelle sue pagine.

165 Il Casanova nella prefazione all’Histoire giustifica la sua scelta del francese «parce que la langue française est plus répandue que la mienne». Egli vuole comunicare la sua esperienza a un pubblico piú vasto possibile e si preoccupa solo di esser chiaro e di interessare i lettori con le sue vicende narrate, ammettendo in partenza la sua scarsa cura stilistica e il carattere ibrido del suo francese (cfr. Histoire, ed. cit., I, p. XX).

166 Magari in brevissime riprese di un particolare divertente e bizzarro, come, durante un viaggio, questa brevissima ripresa di una folla di venditrici ambulanti che assalgono i viaggiatori e si battono fra di loro per vendere la loro povera merce: «Certaines nécessités nous firent descendre à Moulins, oú nous nous trouvâmes assaillis par dix-huit à vingt femmes, petites marchandes de couteaux, de ciseaux et de cent autres babioles d’acier... nous rîmes beaucoup des marchandes, qui par l’avidité de vendre se battirent positivement» (Histoire, ed. cit., IX, p. 135).

167 Si pensi alla narrazione dell’atroce supplizio di Damiens, attentatore alla vita di Luigi xv, che in realtà Casanova non segue (pur protestando orrore per la crudeltà del supplizio), occupato, come un suo degno compare, in complicati esercizi erotici compiuti su due donne attente, alla finestra, allo spettacolo nella Place de Grève (cfr. Histoire, ed. cit., V, pp. 55-56).

168 Anticipata, nel 1788, dalla Histoire de ma fuite des prisons de la republique de Venise qu’on appelle les Plombs.

169 Cfr. Histoire, ed. cit., I, tutto il cap. VIII.

170 Cfr. Histoire, ed. cit., IV, i capitoli I-VII.

171 Cfr. Histoire, ed. cit., I, pp. 248-251.

172 Cfr. Histoire, ed. cit., VII, pp. 247-249.

173 Cfr. Histoire, ed. cit., VI, tutto il capitolo X.

174 Né potrà certo cercarsi nel suo libertinismo nulla di simile a quanto può ricavarsi da un Sade in cui il «piacere perverso» si incontra con elementi pessimistici e accuse alla natura del tutto assenti nell’edonismo tanto piú semplice e, a suo modo, ingenuo del Casanova.

175 Histoire, ed. cit., II, p. 12.

176 Forma di governo cui Casanova rimase fedele di fronte alla rivoluzione francese da lui aspramente attaccata anche come fine di regimi piú adatti alla vita libertina e alle fortune di avventurieri come lui.

177 Erano state precedute da una Storia compendiosa della vita di Lorenzo Da Ponte, del 1807, e dopo la prima pubblicazione, fra 1823 e 1827, furono arricchite di una nuova parte nel 1830.

178 Si vedano cosí le pagine 177-183 del I volume delle Memorie, ediz. a cura di G. Gambarin e F. Nicolini, Bari 1918.

179 Si vedano le pagine 64-68 del I vol. delle Memorie, ed. cit., isolandovi magari questo grazioso particolare dell’ostessa, goriziana-austriaca, invaghita dello scrittore e galantemente e gentilmente esprimentesi «colle occhiate e colle gesticolazioni» a causa della impossibilità di capirsi nella diversità linguistica: «Quando venner le frutta, cavò dalla tasca un coltellino colla lama d’argento, levò la buccia a una pera, ne tagliò la metà per me e mangiò l’altra metà; poi mi offrí il coltellino ed io feci altrettanto. Bevve un bicchieretto di vino con me, e m’insegnò a dir Gesundheit; e da’ movimenti del bicchiere intesi ch’ella volea dirmi ch’io beessi alla sua salute, com’ella beeva alla mia» (p. 65).

180 Si vedano le pp. 188-190 del I vol. in cui spicca questa sveltissima e briosa rappresentazione in movimento dell’improvvisa apparizione del «buon Cera»: «Rimase tanto tempo fuori di casa, ch’io non credea piú ch’ei tornasse: quando improvvisamente odo spalancar la porta della stanza, e veggo entrare il buon Cera con un fazzoletto in mano, cui deponendo gioiosamente sul tavolino: “Ecco”, dice, “un principio buono.” Cavò quindi da quello del pane, del burro, delle ova, del cacio e delle aringhe fumate, e, senza perdere un sol momento, corse in cucina, si fece dare un tegame e una graticola, e, tornando con piedi di cervo nella nostra camera, si mise ei medesimo, fischiando e cantando, a fare il cuoco» (p. 190).

181 Piú densa ne è la prima parte (dedicata al soggiorno veneziano). Piú squallide, come dicevo, sono particolarmente le ultime dedicate alla vita in America (ma si vedano almeno le due paginette che descrivono comicamente l’ospitalità avara del capitano della nave in cui Da Ponte viaggiò verso l’America e un pranzo in coperta di sapore bernesco e assai ben giuocato su quel registro comico-satirico: sono le pp. 4-5 del II volume).

182 Nel primo Settecento potrebbero venir soprattutto considerati, come avvio alla forma di relazione di viaggio tipica del secondo Settecento, i piú agili e nervosi libri del calabrese Francesco Gemelli Carreri, il Giro del mondo (1699-1700) e i Viaggi in Europa (1700-1708).

183 In cui va idealmente reinserita, con tutta la sua maggiore forza artistica, la narrazione del viaggio in Portogallo e in Spagna del Baretti, a cui ci riferiremo nelle pagine dedicate al profilo di quello scrittore.

184 Si veda in proposito – come esempio indicativo del gusto del Martinelli – la lettera allo Zon «in risposta a un suo invito a passar qualche giorno seco in campagna» (cfr. Lettere familiari e critiche, Londra 1758, pp. 187-192), specie nel passaggio fra l’ammirazione per il giardino di Richmond e il piacere maggiore della conversazione con due «amabili damine» e con un gentilissimo loro amico in un boschetto «che l’arte fa comparire opera unicamente della natura nel suo piú vago», dove una delle damine «cominciò a gorgogliare soavemente una canzonetta amorosa», suscitando l’accompagnamento del canto di «un popolo numeroso di tordi, di merli, di usignoli, di pettirossi».

185 Come questo dalla lettera al Malevolti (cfr. Lettere familiari e critiche cit., pp. 169-170): «Un muratore interrogato da un ozioso gentiluomo che mestiere faceva il suo avo, e come morisse, rispose ch’anch’egli faceva il muratore, ed era morto cadendo da un tetto; e procedendo il gentiluomo a domandarlo medesimamente di suo padre, la risposta fu presso a poco conforme alla precedente. E bene, replicò allora il gentiluomo, esempi sí funesti di casa vostra non vi fanno prudente, ed applicare ad altri mezzi per guadagnarvi il pane senza continuo pericolo di rompervi il collo? A questo consiglio il muratore piú saggio del gentiluomo replicò: Signore, come morí il vostro avo? Nel suo letto, rispose il gentiluomo. E vostro padre? medesimamente nel suo letto, disse il signore. E bene, disse il muratore al gentiluomo, e voi che pretendete di esser tanto piú prudente di me, dopo questi esempi avete l’imprudenza d’andare a letto?»

186 Come tale e come archeologo il Bianconi fu di forte ausilio alle ricerche archeologiche del Winckelmann.

187 Accennerò – anche se incidentalmente –, nel successivo capitolo, alle lettere dall’Inghilterra e dalla Francia di Alessandro Verri. Anche Pietro Verri fu scrittore piú aperto a forme di pittoresco e di curiosità di impressione nelle lettere-diario scritte nel periodo di vita militare (a lui poco congeniale) passato nell’armata austriaca, in una fase della guerra dei sette anni (sono raccolte nel primo volume delle Lettere e scritti inediti di Pietro e Alessandro Verri, a cura di C. Casati, Milano 1879 e ss.). Si estragga almeno – come esempio di una scrittura nitida e viva – questa breve descrizione delle donne di Dresda: «Le donne sono vestite elegantemente, e belle assai; la lingua tedesca è dolce nella loro bocca, non hanno l’asprezza dell’accento austriaco. Portano in capo un elegante berrettino contornato di zibellini, formato a punta, che si posta in mezzo alla fronte e gira come una corona scherzata sul capo; il berrettino è di raso celeste, o rubino, o di altro colore, riccamente guarnito d’oro, e termina in una punta ricca di frange d’oro, che cade fra l’orecchio e la guancia. Hanno molt’anima nella fisionomia, occhi vivaci, bellissime tinte, bei denti; un mantello di raso celeste o rubino, foderato di pelliccia bianca, l’abito assestato al busto, gonnelle corte, e sopratutto gran lusso ed eleganza nelle calze bianche di seta, scarpe finamente calzate, sí che sono figure teatrali assai belle e gentili» (Lettere e scritti inediti cit., I, p. 94).

188 Lettera alla contessa Fantoni (Parigi, 10 luglio 1783), in Lettere scritte da piú parti d’Europa, Pavia 1785, pp. 193-194.

189 Dopo una missione diplomatica al servizio del Regno di Napoli (per la quale compí il suo viaggio in Inghilterra e in Scozia), l’Angiolini entrò a far parte della segreteria degli Affari Esteri di Toscana e poi fu inviato dal granduca Ferdinando III, nel ’94, a Roma come incaricato di affari presso il Vaticano. Quindi fu inviato a Parigi, nel ’98, quale ministro di Toscana in Francia, rendendo grossi servigi al granduca nella difficile situazione della Toscana nel periodo napoleonico. Nel 1800 rientrò definitivamente in Toscana dove visse dedicandosi alla cura dei suoi possedimenti agricoli.

190 Le lettere sull’Olanda non furono comprese in quell’edizione perché con ogni probabilità non furono mai scritte.

191 Lettere sull’Inghilterra, a cura di G. Di Pino, Milano 1944, Parte II, lettera XX, p. 360.

192 Autore di una Relazione di un viaggio letterario nella Svizzera e di un Diario di viaggio, inedito.

193 Pubblicato come Viaggio in Oriente, a cura di N. Campanini, Torino 1888.

194 Furono pubblicati a Pavia fra il 1792 e il 1797.

195 E basti qui citarne l’avvio, anche se le pagine dello Spallanzani chiedono una lettura piú lunga e si oppongono alla scelta del bel frammento: «Egli è di notte che succedono coteste migrazioni, con una condizione però inseparabile da esse, e questa si è purché non risplenda la luna. Mandando ella dunque sopra il nostro orizzonte il suo lume, qualunque ne sia la fase, è certissimo che non si mettono in viaggio. E se avvenga che dopo l’avere fatto a notte oscura qualche tratto di cammino, sorga il lume di questo pianeta, immantinente si fermano, né piú vanno oltre. Cosí se esso a mezza notte, a cagion d’esempio, emerga dall’orizzonte, laddove viaggiato avevano per la prima metà della notte, per la seconda si tengono immobili. E la luce lunare è sí contraria al migrar delle anguille, che lo arresta egualmente, quantunque ne venga considerabilmente sminuita ne’ tempi nuvolosi. Se poi le notti senza luna splendente siano burrascose, se spiri un nord, se abbiasi reflusso di mare, allora il numero delle anguille viaggianti è massimo» (Viaggi alle Due Sicilie e in alcune parti dell’Appennino, tomo III, Milano 1826, pp. 507-508).

196 Fino alla forma di una «stucchevole precisione» che il Fortis dichiara però intenzionale per sicurezza di esaurienza (cfr. Viaggio in Dalmazia, Venezia 1774, I, p. 41).

197 Non senza giudizi severi quando la superstizione e l’ignoranza portano a «pazze chimere» come quella del «falso onore» della vendetta privata e familiare (cfr. Viaggi, ed. cit., p. 60). Ma con significativi e ironici confronti fra le virtú eroiche dei Morlacchi che rimangono ignote e quelle troppo famose degli antichi: come si dice del sacrificio in nome dell’amicizia fortemente esercitata dai Morlacchi «quantunque non si faccia tanto rumore per questi amici selvaggi come pegli antichi Piladi» (Viaggi, ed. cit., I, p. 59).

198 Cosí anche in una piccola descrizione di alcuni torsi di pietra la cui «lucentezza è ancor piú paragonabile alla neve che allo zucchero in pani» (Viaggi, ed. cit., II, p. 68).

199 Spettacoli ridotti, quanto a possibile vera sensibilità preromantica, dal paragone con la cascata delle Marmore che appare «delizioso» anche «nell’orrido» (cfr. Viaggi, ed. cit., II, pp. 85-86).

200 Occupano tre volumi (V, VI, VII) della edizione delle Opere del Rezzonico a cura di F. Mocchetti, Como 1815-1830.

201 Con contraddizioni interessanti fra la condanna neoclassica del gotico e certa attrazione e simpatia per singoli edifici di quello stile. E del resto allo stesso gusto neoclassico del Rezzonico non mancava (come vedremo meglio parlando della sua lirica) una spinta a forme piú dinamiche e tensive, come può dimostrare la simpatia per Michelangelo, oggetto delle piú comuni condanne neoclassiche. Cosí come piú chiari residui del gusto sensistico-rococò colorano fortemente le stesse scelte neoclassiche del Rezzonico.

202 Cfr. Opere, ed. cit., V, p. 132, VI, p. 190.

203 Anche perché troppo facile e immediata è la conversione di un moto di sensibilità provocata da elementi di natura e di paesaggio in un vagheggiamento di trasfigurazione mitologica piuttosto convenzionale. Si pensi a questo passo significativo, sul parco di Enley: «Ma piú d’ogni altra cosa mi rapirono in ammirazione gli alberi bellissimi ed unici che vi sorgono. La varietà del loro verde, le foltissime chiome, i tronchi smisurati, la vegetazione prodigiosa mi tennero in dolce estasi lungamente, e mi aggiravo loro d’intorno come voglioso di vagheggiarne le formose Driadi, che dalla loro corteccia m’aspettava ad ora ad ora veder escire con cetere, arpe e viole» (Viaggio d’Inghilterra, in Opere, ed. cit., IV, pp. 104-105).

204 Insegnante di agraria a Venezia, seguace dell’indirizzo fisiocratico, lo Scrofani divenne in seguito sovrintendente generale dell’agricoltura e del commercio col Levante. Per ragioni inerenti alla sua carica egli compí, nel 1794-95, un viaggio nei paesi del Mediterraneo orientale, stendendone due relazioni, una di maggiore interesse letterario (Viaggio in Grecia), l’altra piú tecnica (Viaggio in Levante).

205 Dopo la prima pubblicazione lo Scrofani rivide il suo Viaggio in una tarda revisione pubblicata solo nel 1831. Per i caratteri formali ed interni di tale revisione si veda l’introduzione di C. Mutini alla sua recente edizione del Viaggio, Roma 1965, che segue a quella, piú ridotta, a cura di C. Cordié, Milano 1945.

206 Si pensi allo sdegnoso passo su Diocleziano nella lettera iv che descrive il passaggio davanti alla Dalmazia: «Che dirò io di Diocleziano nato in Illiria e che fabbricò il palazzo di Spalato? Che tutti gli uomini dovrebbero riunirsi per toglierne il nome dall’istoria, unitamente a quelli di Nerone, di Tiberio, di Silla» (Viaggio, ed. cit., p. 9). E per lo sdegno anticlericale il passo della lettera XVII (p. 33) in cui lo spettacolo delle rovine di Roma, «dove nacque Camillo, dove perirono i Gracchi», è detto turbato non solo dallo strepito di 10.000 carrozze, ma soprattutto da quello di «50 mila preti, di 100 mila frati, che corrono, che contrastano, che ronzano notte e giorno».

207 Basti citare, per l’eccesso sentimentale che coinvolge sensibilità nuova e antichità esemplare di valori e virtú analoghe, l’addio agli amici veneziani nell’avvio del suo viaggio: «Addio Venezia, addio soggiorno caro al mio cuore, addio miei buoni amici. Le lagrime mi scorrono dagli occhi nel separarmi da voi... Ma no, noi non ci separiamo; voi sarete sempre con me. Vado ad incidere i vostri nomi sulle cime del Parnaso, sulle ruine di Sparta e di Atene; verrete meco ad osservare quei luoghi sagri una volta all’amore di Saffo, all’amicizia di Pilade e d’Oreste. Il mio cuore si commuove piú a questi tratti della sensibilità de’ Greci che a tutte le loro vittorie. O amore! Chi non ti conosce è il solo infelice sopra la terra. O amicizia! Chi non t’apprezza non è degno di vivere» (Lettera I, Viaggio, ed. cit., p. 5).

208 Sicché non manca un riconoscimento nei greci moderni, schiavi dei turchi, delle caratteristiche della «nativa elevatezza» e la speranza nel loro risorgimento (cfr. Viaggio, ed. cit., p. 75).

209 Di un eclettismo intellettualistico che tentava, già ben dentro il secondo Settecento, di sostenere ancora il «buon gusto» arcadico con una combinazione di autonomia della forma unica della poesia come «arte di verseggiare per fine di diletto» e di precettistica empirica nei vari generi (che conduce a sporadici avvicinamenti con l’estetica sensistica nel riconoscimento, per il genere lirico, di una sintesi di parole e sentimenti: specie quelli secondari che piú contribuiscono, per associazione, a render piú poetico il sentimento principale), fu particolare rappresentante Francesco Maria Zanotti (Bologna 1692-1777) nel suo trattato Dell’arte poetica (1768).

210 Divulgato, fra gli altri, con forte efficacia nelle scuole italiane del tardo Settecento, dal padre Francesco Soave di Lugano (1743-1806), maestro del Manzoni e autore anche di una Nota sul bello (1775) piú direttamente dedicata alla esposizione dell’estetica sensistica.

211 Si ricordi poi che nell’ambito dell’illuminismo-sensismo meridionale si pronuncia una piú chiara ripresa dell’eredità estetica del Vico che, specie nel caso di Francesco Mario Pagano, autore di notevoli saggi estetici (Discorso sull’origine e natura della poesia, 1783, e Del gusto e delle belle arti, 1785), sostiene un piú deciso tentativo di distinzione tra il «piacevole», relativo alle epoche storiche e ai singoli uomini, e il «bello», assoluto e immutabile nella sua capacità di sintesi, superiore alla semplice imitazione della natura e alla mutevolezza e molteplicità del piacere sensibile, che pur costituisce la concreta base dell’attività estetica. Del resto anche nel caso troppo esaltato, come anticipazione romantica e pronta e vigorosa reazione al «bello ideale» neoclassico, del trattato di Giuseppe Spalletti, Saggio sopra la bellezza (Roma 1765), occorrerà dire che le sue formulazioni circa il «caratteristico», come nota essenziale della bellezza, possono essere ricondotte ad una matrice sensistico-illuministica (lo Spalletti parte dall’«amor proprio» e dal «piacere» come prima base della tensione alla bellezza, anche se – non senza originalità – lo svolge in un «piacere intellettuale» ispirato dagli aspetti di perfezione e di universalità dell’arte) e ad una versione di essa in senso piú classicistico che preromantico.

212 Non senza anticipi osservati nel Conti e ritrovatili in aspetti della stessa estetica del Gravina.

213 Ché altrimenti si può superare il limite di rispondenza della sensibilità del lettore e «gli avviluppamenti delle medesime sensazioni diminuiscono il piacere medesimo» (Ricerche cit., in C. Beccaria, Opere, a cura di S. Romagnoli, Firenze 1958, I, p. 235).

214 Ricerche cit., in Opere, ed. cit., I, p. 259.

215 Ricerche cit., in Opere, ed. cit., I, pp. 247-248.

216 «Non vi è in natura oggetto ridente e consolante che non abbia un lato serio e tormentoso. Il dolore si diffonde largamente per tutta la catena degli esseri sensibili. Rispinto incessantemente, incessantemente ritorna: a tutti serve di stimolo, che li sollecita ad allontanarsi dal presente ed a spingere l’inquieto sguardo nell’avvenire» Ricerche cit., in Opere, ed. cit., I, p. 270). E si può pensare che il secondo libro interrotto del trattato si sarebbe potuto svolgere, piú ancora che nelle forme di una nuova precettistica, in quelle di una preparazione ed eccitazione dell’animo del lettore al sentimento della poesia.

217 «Il Caffè», tomo II, n. VIII (nell’edizione a cura di S. Romagnoli, Milano 1960, pp. 343-347).

218 «Il Caffè», I, XXI, ed. cit., p. 171.

219 Discorso sull’indole del piacere e del dolore, in Scritti vari, vol. I, Firenze 1854, p. 152 (la frase citata è il titolo del paragrafo XI).

220 Discorso cit., ed. cit., vol. I, par. VII, p. 4.

221 Discorso cit., ed. cit., vol. I, par. IX, p. 43.

222 Lucidità acutissima che, scompagnata dal fervore dell’entusiasmo, può condurre la prosa di Alessandro Verri anche a forme di rappresentazione penetrante e impassibile come nella lettera londinese (15 gennaio 1767) in cui egli descrive al fratello Pietro un’esecuzione durante una giornata invernale in mezzo alla folla chiassosa attratta dal singolare «spettacolo» e di cui Alessandro coglie con occhio preciso tutti i particolari e tutti i protagonisti, fra i quali spicca la figura del capitano irlandese condotto alla forca: «Egli era legato pochissimo con una leggiera fune sotto le spalle; era in mezzo d’un amico e d’un predicante, e come che egli era irlandese cattolico, si crede che l’amico fosse un prete. Quando fu vicino al patibolo, si voltò indietro (perché sono posti nella carretta colle spalle rivolte al cavallo) e guardò intrepidamente e freddamente il patibolo stesso, poi l’uditorio. Poi si alzò quando fu sotto, vidi un bel giovine, d’un’aria nobile e vestito molto decentemente; aveva il cappello in capo abbassato per davanti, aveva nelle mani un fazzoletto con cui si copriva la bocca dal freddo. Ne’ suoi moti, nel suo gesto, nel suo contegno era freddissimo, come dovesse prendere una tazza di caffè. Quando fu in piedi, il carnefice, ch’era venuto sulla carretta con lui, gli si accostò: ed egli mise da sé stesso a terra il cappello, tirò i guanti, levò il colletto come se dovesse far una delle solite faccende; poi ajutò il carnefice ad applicargli il capestro, come si ajuta il servitore a porci il colletto, e tutto ciò fu fatto sempre disinvoltamente parlando col carnefice, coll’amico e col predicante» (Lettere e scritti inediti di Pietro e di Alessandro Verri cit., II, p. 46). Tutte le lettere di Alessandro da Londra e da Parigi sono interessanti come relazioni di paesi e costumi oltreché per il preminente motivo ideologico.

223 Si rilegga in proposito il breve scritto Degli errori utili («Il Caffè», II, XXIII, ed. cit., p. 455) che qui riporto in parte: «Vantiamo tanto la ragione, e dobbiamo le piú grandi cose all’errore. L’entusiasmo, le passioni sublimi sono per lo piú figlie di lui, e con queste si fanno le imprese grandi. Dove l’amor della patria, dove il disprezzo stoico della morte, e del dolore, dove il valor militare, sorgenti feconde della grandezza delle nazioni immortali, se la logica fosse stata invece delle opinioni? Togliete ai Maomettani la persuasione che morendo in guerra vassi in seno del Profeta... Togliete agli antichi Romani la persuasione che dovessero conquistare il mondo... Qual coraggio non aveano nelle guerre i popoli del Nord? Ciò essi doveano all’antico loro legislatore Odino che avevali persuasi essere deliziosa cosa il morire in guerra. In un’ode d’un re del Nord, Ledbrog, si vede qual effetto producesse questa persuasione: Qual trasporto di gioia m’inonda il cuore? Io moro. Ascolto la voce d’Odino che mi chiama... Venga il buon logico, e dica a questo moribondo, ch’egli è un pazzo; venga il freddissimo metafisico e faccia un trattato contro di Odino, avrà fatto un bel servizio a quelle nazioni... Quando mi si dimostrerà che le nazioni non hanno bisogno di certe grandi passioni per esser grandi, e felici; quando mi si dimostrerà che in una vasta società d’uomini si possa eccitare l’entusiasmo colla sola ragione, e senza opinioni; quando mi si dimostrerà che le sublimi passioni sono ragionamenti, allora dirò che la ragione fa delle grandi cose. Finora il solo entusiasmo, ed il solo sentimento le ha fatte. Ne’ paesi della sensibilità la fredda logica fa un terribile saccheggio».

224 «... io credo che il mezzo piú atto a comunicar le idee morali all’universale degli uomini sia la strada del sentimento. Molti sentono, pochissimi ragionano. Il sentimento non fa sofismi; l’intelletto ne fa moltissimi... Gli antichi fondavano i lor sistemi morali su delle grandi, ed ammirande immagini, tutto era entusiasmo; le virtú tutte eran giganti. Di rado ragionavano, quasi sempre erano poeti» (in Alcune idee sulla filosofia morale, in «Il Caffè», II, XXVI, ed. cit., p. 478 e p. 482).

225 Si rileggano le belle e appassionate pagine del saggio La prova del cuore («Il Caffè», II, XXIV, ed. cit., pp. 461-462).

226 Si rilegga almeno un passo del saggio Dei difetti della letteratura e di alcune loro cagioni: «Sono i freddi esami, le caute discussioni, giudici altrettanto giusti delle opere di ragionamento, quanto incompetenti di quelle di sentimento: sono epicurei nelle belle arti i sublimi maestri: non resistono, ma sono strascinati dal sentimento; non eglino si accostano alle passioni, ma esse li tirano a sé quasi irresistibilmente. All’eccellente dramma fatto dal loro nemico essi piangono, che non ha tempo la importuna ragione di ficcarsi tra l’oggetto, e la vivissima sensazione. Se gli uomini grandi ritrovano difetti nelle opere grandi, essa è l’ultima scoperta, che vi facciano, ed i piccoli la prima. Non sono difetti importanti quelli, che nelle opere di cuore non si scoprono che ragionando. Che importa se in una sublime poesia, la quale ti ha rapito in entusiasmo, con freddo esame tu ritrovi alcuni nèi sparsi qua e là? Il sentimento non ha mai torto: l’autore ha ottenuto il suo fine, e levando ancora tutte quelle macchie, che ritrovò la fredda ragione, e che non poté trovare il sentimento, non sarà sensibilmente migliorata un’opera fatta pel sentimento» («Il Caffè», II, XIII, ed. cit., p. 381).

227 «Il Caffè» I, IV, ed. cit., pp. 39-41.

228 F. Galeani Napione, Dell’uso e de’ pregi della lingua italiana, Torino 1846, I, p. 44.

229 Motivo di sano contenutismo su cui si ritroverà, ad altro livello, il romantico Porta quando affermerà «che la forma no fa el bon del pastizz» (e per i rapporti fra il «Caffè» e i romantici 1816 si veda il mio saggio La battaglia romantica in Italia, in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 19632, pp. 77-90).

230 «Il Caffè», I, XIX, ed. cit., pp. 157-158.

231 «Il Caffè», I, IV, ed. cit., pp. 43-44.

232 «Il Caffè», ed. cit., II, XX, p. 430; I, VII, p. 60; I, XII, p. 102.

233 «Il Caffè», ed. cit., II, XV, pp. 392 e 393.

234 Ed anche nel caso del Goldoni tanto ammirato da Pietro Verri sarà bene ricordare il successivo giudizio di Pietro Secchi che, nell’articolo Esame di algune cagioni, che tengono nell’attuale mediocrità il teatro italiano, limitava il valore della riforma goldoniana come trattenuta dai «pregiudizi troppo inveterati» e dal «gusto del paese, al quale [il Goldoni] ha dovuto forse troppo servilmente obbedire», e cosí lontana da quella pienezza che avrebbe potuto avere «in tempi migliori» (cfr. «Il Caffè», II, XXX, ed. cit., p. 500). Dove sono evidenti insieme la tensione ad un teatro piú illuministicamente coraggioso e l’incomprensione della misura congeniale dell’opera goldoniana.

235 Si veda in proposito il lungo scritto di Girolamo Bucalosi, Dell’educazione democratica da darsi al popolo italiano (ripubblicato nel secondo volume dei Giacobini italiani, a cura di D. Cantimori e di R. De Felice, Bari 1964), interessante sia per la «censura» democratica di parole «servili», sia per il duro giudizio sulla poesia epica e lirica italiana mancante – ad esclusione di qualche tratto di Dante e Petrarca – di sentenze e immagini adatte a «formar de’ cittadini» perché i poeti italiani «hanno servito al trono, all’amore, ai preti e agli aristocratici» (cfr. volume citato, p. 118), mentre poi rimproverava la mancanza di comunicabilità del linguaggio poetico italiano, rimpiangendo che l’unico poeta dotato di tale qualità, il Metastasio, fosse nato «nella serva Roma» e passato «in piú serva città ad adular dei tiranni» (pp. 126-127).

236 Per non dire della eloquenza esemplarmente illuministica della Prolusione del ’69, tutta pervasa da un fervore filantropico e dalla speranza in una società concorde e fraterna, utilitaria per il «bene comune», antiascetica e antifanatica, e del bellissimo frammento sulla «gioventú», che tanto ci fa capire la forza di esperienza e di meditazione sulla vita che alimenta il sensismo illuministico piú vivo e fecondo e la sua prosa fervida e lucida: «Finché il bollore della gioventú, finché la sua mente non ancora ingombra ed occupata tutta quanta da una folla di inutili idee, e di pertinaci abitudini, ha spazio e facilità di ricever nuovi movimenti e nuove direzioni, esercitala, movila, e piegala a sentire, a toccare, a rimaneggiare fortemente tutta l’immensa varietà di impressioni di cui sei suscettibile, altrimenti la sopraveniente età irrigidirà la facile e pronta duttilità del tuo ingegno, renderà inflessibile l’elastica forza del tuo riscotimento, e i nuvoli delle tristezze e le dissipatrici circostanze della imitatrice e confusa vita sociale ingombreranno il libero corso delle tue idee. Allora le piú forti impressioni, e i colpi impetuosi e profondi del grande e del bello appena potranno lambire la superficie dell’animo tuo ed eccitarvi una leggera, sfuggevole ed alterata commozione» (in Opere, ed. cit., II, p. 801).

237 Testimoniata soprattutto da quelle «lettere itinerarie» – solo in parte pubblicate da F. Venturi (quelle da Venezia in appendice al suo profilo Un amico di Beccaria e di Verri, profilo di G.B. Biffi, in «Giornale storico della letteratura italiana», fasc. 405, 1957, pp. 37-76; quelle da Genova in «Miscellanea di storia ligure», I, 1958, pp. 383-411) – che associano un incontro di fiducia illuministica e di sentimento del passato in una prosa piú rousseauiana e tenera (che poté apparire anche documento del troppo «flebile» Biffi ai suoi amici milanesi).

238 Ché poi il suo «toscanesimo» piú tradizionalista – che ha le sue manifestazioni piú esplicite nelle Lettere accademiche, pur cosí importanti per l’energica proposta di un attivo connubio fra scienze e lettere – molto riduce il suo peso sia nell’Autobiografia, sia, e piú, nelle lettere familiari, essenziali a rendere il fascino profondo della personalità genovesiana e della sua concreta ed alta moralità, della sua sicura combattività illuministica a volte condensata in battute incisive, esemplari, come questa tratta da un inedito sui rapporti fra Stato e Chiesa (pubblicati da L. Villari, Due inediti di A. Genovesi, in «Rassegnà storica del Risorgimento», 1957, I, pp. 78-87): «Non si gabbano i frati. Come accordate un dito piú di quel che a loro si dee, traggonsi il braccio, poi il corpo tutto quanto». Per la prospettiva di un rinnovamento della letteratura-cultura, è essenziale, entro tutto il saggio Il vero fine delle lettere e delle scienze, la pagina che qui riportiamo sulla ragione che si comunica al «cuore» e alle «mani»: «Per quanto grande però sia stato tra noi il progresso delle arti e delle scienze, e piú ancora della ragione che le nutrisce e perfeziona, nondimeno non ancora abbiamo potuto cosí rinnovarci che, sia forza d’invecchiato costume, sia ritrosia delle umane cose, un certo lezzo dell’antica barbarie, che colui disse “prisci vestigia ruris”, non ci sia rimasto attaccato. Egli non può dirsi che la ragione sia in una nazione giunta alla sua maturità, dove ella risiede ancora piú nell’astratto intelletto che nel cuore e nelle mani. Ella veramente è sempre bella, ma dove ella non è operatrice è ancora acerba, che può, se volete, adornar gli uomini, ma non esser loro utile. Ella è come le gemme, che lucono, ma non nutriscono. La ragione non è utile se non quando è divenuta pratica e realtà, né ella divien tale se non quando tutta si è cosí diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come nostra sovrana regola, quasi senza accorgercene. Ma sono giunte a questo segno tra di noi le lettere? Noi amiamo ancora piú disputare che operare. Le api, le quali potrebbero essere il modello del vero saggio, nel fabbricare le loro celle sieguono costantemente le regole della perfetta geometria, né s’arrestano dal lavoro per disputare inutilmente. Nelle bestie la cognizione è tutta uso, perché è l’arte di Dio lavorante su la materia, ed in Dio non ci sono enti di ragione. Sarebbe egli un privilegio dell’uomo avere una ragione buona parte della quale fosse senza uso? Io non vorrei che si potesse ancora di noi dire, come della maggior parte de’ filosofi delle passate età, l’intendimento de’ quali, quando se ne voglia giudicar per l’uso che ne fecero, può parere essere stato loro dato per il mondo ideale, non per lo governo e vantaggi dell’umana vita. Egli è vero che non pochi fra di loro si studiarono di convertire in pratica tutta la loro filosofia, con diffonderla nella piú bella e piú necessaria parte del sapere umano, che sono le leggi, direttrici del costume, dell’ordine e della pubblica tranquillità. Ma sarebbe stato a desiderare di molti di loro che se ne fossero astenuti. Essi vi arrecarono tutte le argutezze delle scuole de’ dialettici, e tesero cappietti sí fini e sí inestricabili alle regole produttrici e conservatrici della nostra felicità, che noi non sappiamo ancora isvilupparcene. Noi ci siamo veramente liberati da’ vani e puerili giuochi di mente de’ nostri maggiori, ma, o ritenuti ancora dal vecchio uso, o incerti dell’esito del nuovo, temiamo di portare le nostre cognizioni là dove esse medesime accennano di volere andare. Non ci manca la forza, e dirò anche, non l’intelligenza, ma il cuore è tuttavia debole, né il gusto affatto spogliato dell’antica pituita. Una certa vanità d’ingegno ci mantiene ancora attaccati alle cose piú speciose che utili, noi ci crediamo ancora piú grandi quando siamo ammirati come incomprensibili che quando siamo tenuti come utili, quasi men distinti» (cito da Illuministi italiani, V, Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962, pp. 100-101).

239 Per la caustica e implacabile ironia del Galiani, quale si può ricavare, piú che dai suoi scritti illustri, da lettere inedite e da battute e aneddoti della sua inesauribile conversazione, fondamentale è la lettura dell’ampio saggio di F. Nicolini, Amici e corrispondenti francesi dell’abate Galiani ecc., in «Bollettino dell’Archivio storico del Banco di Napoli», 7 (1954), pp. 1-244.

240 Aneddoto riportato da F. Mazzei, nelle Memorie, Lugano 1845, p. 323.

241 Discorso sopra le vicende della letteratura, II ed., Torino 1784, I, p. 227.

242 Si ricordino almeno fra le opere erudite dedicate all’esplorazione delle letterature locali, le Memorie degli scrittori e letterati parmigiani (1789-1797) di Ireneo Affò o le Notizie degli scrittori bolognesi (1781-1794) di Giovanni Fantuzzi, o le Memorie per la storia letteraria di Piacenza (1789) di Cristoforo Poggiali, o lo Specimen litteraturae florentinae saeculi XV (1747-1751) di Angelo Maria Bandini, o la Storia della letteratura veneziana (1752) di Marco Foscarini.

243 Educato a Bergamo e poi a Monza e a Genova nelle scuole dei gesuiti al cui Ordine il Tiraboschi appartenne, passò la sua vita di studioso infaticabile, e non distratto da qualsiasi altro impegno, prima a Milano, professore di retorica a Brera, poi a Modena, dal 1770, direttore della Biblioteca Estense e direttore del «Nuovo giornale dei letterati». La sua fondamentale vocazione erudita, già provata in un primo periodo della sua attività, nell’opera Vetera Humiliatorum monumenta annotationibus ac dissertationibus prodromis illustrata, si espresse poi a Modena, in numerose opere intese ad illustrare e documentare periodi e figure della storia letteraria, civile ed ecclesiastica di Modena e del suo territorio, come la Storia dell’augusta abbazia di San Silvestro di Nonantola, la Biblioteca modenese, ovvero notizie della vita e delle opere degli scrittori di Modena, la Vita di Fulvio Testi, le Memorie storiche modenesi, le Notizie de’ pittori, scultori, incisori, architetti natii degli stati del duca di Modena, il Dizionario topografico storico degli stati estensi e l’edizione commentata dell’opera del cinquecentista modenese G.M. Barbieri, Della origine della poesia rimata.

244 Anche riguardo alla componente di orgoglio e di difesa nazionale-letteraria della letteratura italiana (in base alla quale il Tiraboschi studiava la cultura dell’Etruria, della Magna Grecia, dell’antica Roma come premessa e arricchimento nobilitante della cultura nazionale italiana e postulava l’idea di una influenza degli scrittori spagnoli sulla decadenza della letteratura italiana del Seicento e, prima, sulla decadenza della letteratura latina), la sua opera si discosta assai dall’equilibrio nazionale-cosmopolitico degli illuministi.

245 Di altri storiografi letterari, piú pertinenti agli avvii della storiografia letteraria ottocentesca (come Torti, Salfi, Corniani) parlerà altro collaboratore nel prossimo volume di questa Storia della letteratura italiana.

246 Fra questi molto importante l’interesse per il teatro, piú vivo e stimolante nelle discussioni critico-pragmatiche che nella realizzazione delle tragedie, cui accennai nel paragrafo sul teatro.

247 È la tesi sostanzialmente del profilo bettinelliano di Carlo Muscetta (in Orientamenti culturali. La letteratura italiana, I minori, Milano 1961), per cui rimando alle mie osservazioni nella relativa scheda in «La Rassegna della letteratura italiana», 1963, 2, p. 365. Quanto alle significative difficoltà incontrate dal Bettinelli con i suoi superiori della Compagnia di Gesú, che mostrano come le piú avanzate posizioni del Bettinelli suscitassero rimproveri e richiami da parte del suo ordine, si veda la mia scheda nella stessa rivista (1961, III, pp. 622-623) sul saggio di B. Genero, Ricerche bettinelliane ecc., in «Giornale storico della letteratura italiana», 1961, fasc. 423, pp. 365-401.

248 Con tanti spunti intelligenti e stimolanti sia, in genere, nella spiegazione dei fenomeni storici nella loro particolare articolazione, sia piú precisamente nella ricostruzione del faticoso processo di sviluppo della civiltà, cultura e letteratura italiana nei secoli che conducono al Rinascimento, sia nella valorizzazione di aspetti delle arti minori o dell’urbanistica in rapporto con la delineazione della storia della poesia o delle arti «maggiori», sia nell’originale interpretazione della decadenza italiana dopo il Rinascimento entro il quadro della cultura europea in cui quella stessa nazionale decadenza si equilibrava con la eccezionale offerta che l’Italia dava all’Europa con il suo patrimonio artistico e scientifico, essenziale allo sviluppo e alla civiltà di tutte le altre nazioni europee.

249 Lettera di Filomuso Eleuterio, in Versi sciolti di tre eccellenti moderni autori (cito dall’ediz. di Bassano, 1795, pp. 6-7). La Lettera, datata da Venezia, 13 novembre 1754, accompagnò l’edizione Marelli di Milano, 1758, precedendo le Virgiliane.

250 In queste, piú meditate, anche se meno impetuose e vivaci delle Virgiliane, il Bettinelli ampliava la sua polemica sulla situazione italiana arretrata e dispersiva anche a causa della mancanza di una capitale, quale Parigi o Londra, capace di dare un centro e un indirizzo piú omogeneo alle forze intellettuali del paese.

251 Decretano gli antichi poeti con concessioni, in realtà ironiche, di ripresa delle due accademie: «L’Arcadia stia chiusa ad ognuno per cinquant’anni, e non mandi colonie o diplomi per altri cinquanta. Colleghisi intanto colla Crusca in un riposo ad ambedue necessario per ripigliar fama e vigore. Potranno chiudere per altri cinquant’anni dopo i primi, secondo il bisogno» (Lettere virgiliane e inglesi, a cura di V.E. Alfieri, Bari 1930, p. 61).

252 In Lettere virgiliane, ed. cit., p. 15.

253 Cfr. Lettere virgiliane, ed. cit., p. 11: «Chi piagnea, chi volea metterlo in elegia, chi tentò di tradurlo in greco od in latino; ma indarno. Ognun confessò, che uno squarcio sí originale e sí poetico, per colorito insieme e per passione, non cedeva ad alcuno d’alcuna lingua, e che l’italiana mostrava in esso una tal robustezza e gemeva in un tuono cosí pietoso che potrebbe in un caso vincere ogni altra.»

254 Che vien poi a un certo punto definito come «una elevazione dell’anima a veder rapidamente cose inusitate e mirabili passionandosi e trasfondendo in altrui la passione» (Opere, Venezia 1799-1801, in 24 tomi, III, p. 252).

255 Cfr. Opere, ed. cit., III, p. 33.

256 Cfr. Opere, ed. cit., III, p. 34.

257 Cornelio: Corneille.

258 Opere, ed. cit., IV, pp. 76-77.

259 Operette che pure non mancano di portare in luce interessi e motivi critici e culturali: cosí le Lettere a Lesbia Cidonia su gli epigrammi o il Saggio del dominio delle donne ecc.

260 Cfr. Opere, ed. cit., XIX, p. 79.

261 Nella Dissertazione accademica sopra Dante, del 1800, schernirà «i diritti del genio»: «E guai a chi vuol censurare il genio! No, no, dee rispettarsi, trovar tutto bello, perché tutto forte, grandioso, sopra le regole e l’uso...» (cito dal testo di quella Dissertazione nel vol. cit. delle Lettere virgiliane, p. 289).

262 Cfr. Opere, ed. cit., XX, pp. 231 ss.

263 Con ciò, d’altra parte, il Bettinelli collaborava a quella lunga linea di rilievo di aspetti negativi della poesia alfieriana che costituí un elemento importante (e non tutto infecondo) nello sviluppo della critica alfieriana nel periodo romantico.

264 Opere, ed. cit., XX, p. 237.

265 Lettere a Lesbia Cidonia (Paolina Secco Suardi Grismondi), in Opere, ed. cit., XXX, pp. 39 e 24-25.

266 Fra queste opere saranno da ricordare il rifacimento inglese delle Lettere familiari (A Journey from London to Genoa, through England, Portugal, Spain and France, 1770) l’Account of the manners and customs of Italy, with observations on the mistakes of some travellers, with regard to that country, del 1768 (contro gli errori e le censure delle Letters from Italy dello Sharp), un dizionario inglese e spagnolo (già nel primo periodo inglese aveva compilato un ottimo dizionario italiano-inglese), il Tolondron, pure in inglese (contro il Bowle, editore del Don Chisciotte), il Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, la Scelta delle lettere familiari fatta per uso degli studiosi della lingua italiana.

267 Cosí per uno scandaglio nel fondo risentito ed amaro del Baretti ci si potrebbe riferire almeno, nel Capitolo detto in un’Accademia sul modo di studiare, ad un passo sulla decadenza delle forze dell’uomo nella vecchiaia, vile, prudente, avida, di fronte alla vagheggiata età giovanile che «tutta fervidezza e fuoco / tien per amore ogni disagio a vile; / di piacer vaga, e di feste, e di giuoco, / incauta, vergognosa, smemorata, / sobria, pietosa, e contenta di poco» (nel volume di N. Jonard, Poésies inédites ou rares de G.B., Paris 1965, che raccoglie un grosso gruppo di rime inedite, in possesso della Biblioteca Comunale di Verona).

268 È la definizione della poesia contrapposta al puro tecnicismo poetico consistente «nel variare il materiale: cioè il metro del verso e della strofe», non «il sostanziale, cioè i pensieri e i sentimenti» che il Baretti dà nella «Frusta letteraria» (n. 13; nella edizione a cura di L. Piccioni, Bari 1932, I, p. 347).

269 In una lettera da Londra del 15 aprile 1754 all’Agudio (in Epistolario, a cura di L. Piccioni, Bari 1936, I, p. 98) il Baretti diceva: «Una tenebrosa meditazione di Sherlock o di Young sopra la morte, o una fredda e filosofichissima dissertazione morale di Tillotson o di Johnson [...] mi cominciano a quadrare piú che tutto il nonsenso del Petrarca e del Berni, che un tempo mi pareva il non plus ultra dell’umano intelletto».

270 Rappresentati semmai efficacemente in scorci rapidi e mai privi di un rapporto con la vita associata e la loro fruizione di utilità: come nel caso dell’ammirazione per le strade dell’Inghilterra, «grandi» e cosparse di osterie «assai pulite e servite diligentemente», o di quella per la città di Salisbury in cui spiccano il mercato «molto bello e molto abbondantemente fornito» e insieme «i canali di acqua corrente che vanno rasente le case delle sue strade principali» (Lettere familiari, II lettera nella edizione a cura di L. Piccioni, Torino 1942, p. 1.

271 Lettere familiari (II lettera), ed. cit., p. 6.

272 Lettere familiari (XXXVI lettera), ed. cit., pp. 217-219.

273 Lettere familiari (XLI lettera), ed. cit., pp. 249-252.

274 Caratteri che ritornano nella tarda Scelta delle lettere familiari fatta per uso degli studiosi della lingua italiana (1779), in cui il Baretti raccolse molte delle sue lettere private e altre nuove appositamente scritte, finendo però (in relazione all’impegno didattico e alla volontà di dare esempi soprattutto di «lingua» moderna, ma insieme legate alla tradizione, specie nel genere epistolare, in polemica con i cruscanti, ma anche con i novatori come i Verri, privi – a suo avviso – di ogni preoccupazione stilistica) per accentuare l’aspetto virtuosistico-retorico della sua prosa.

275 Del resto fin dal 1748 – anteriormente al primo soggiorno inglese – il Baretti poteva scrivere nella seconda lettera di prefazione alla traduzione di Corneille: «Io sono italiano ed amatore miracoloso dei Danti, degli Ariosti, dei Berni e di tutti i nostri eccellenti scrittori d’ogni genere, né fui mai degno di essere ascritto fra quella buona gente alla quale tutto pute di rancido se non viene di Francia: ma tuttavia che l’Italia abbia prodotto un Cornelio, un Molière, oh questa non mi è potuta entrar mai...» (in Prefazioni e polemiche, a cura di L. Piccioni, Bari 1912, p. 48).

276 «La frusta letteraria», ed. cit., I, pp. 154-155.

277 Il giovane Goethe protestava violentemente contro Voltaire e Wieland per i loro dissensi circa i personaggi di Shakespeare, e alle loro obiezioni opponeva questa ardente esclamazione: «e io invoco Natura! Natura! Nulla è cosí natura come le creature di Shakespeare» (Zum Schäkespears Tag, 14 ottobre 1771, in J.W. Goethes Sämtliche Werke, München 1962, vol. XIII, p. 10).

278 L’antipatia per l’eccessiva razionalità e impoeticità della lingua francese (cosí importante sulla via che condurrà alle accuse leopardiane o a quella lingua «matematica» e incapace di poesia) si associa, d’altra parte, all’affermazione della esteticità di ogni lingua quando se ne servano dei veri scrittori e poeti: «Ce qu’il y a de vrai dans cette affaire des langues, est que toute langue est belle entre les mains de ceux qui savent s’en servir» (Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire, in Prefazioni e polemiche citt., p. 288).

279 Discours cit., in Prefazioni e polemiche cit., p. 218.

280 Discours cit., in Prefazioni e polemiche cit., p. 237.

281 Si veda in proposito il mio saggio La battaglia romantica in Italia, in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1962 (2a edizione), pp. 77-90.

282 Questa soprattutto fu presente al giovane Leopardi. Per le influenze e riprese younghiane del Leopardi, rimando al mio saggio Leopardi e la poesia del secondo Settecento, nel volume miscellaneo Leopardi e il Settecento cit., pp. 81-83.

283 Per questa e per le altre traduzioni preromantiche, rimando al mio volume Preromanticismo italiano, Napoli 19592, pp. 129 ss.

284 M. Cesarotti, Opere, Pisa-Firenze 1800-1813 (in 40 volumi), vol. XXIII, p. 332.

285 Opere, ed. cit., vol. I, pp. 312-313.

286 «Allora solo la lingua potrà cessar d’arricchirsi, quando lo spirito non avrà piú nulla da scoprire, né da riflettere. È dunque un operar direttamente contro l’oggetto e ’l fine della lingua il pretender di toglierle con un rigor mussulmano il germe della sua intrinseca fecondità» (Opere scelte, a cura di G. Ortolani, vol. I, Firenze 1945, p. 12).

287 «Il progresso della lingua è sempre in proporzione di quei dello spirito» (Opere scelte, ed. cit., I, p. 19).

288 «Non si tratta d’un aumento precario di vocaboli, si tratta di libertà: ma d’una libertà permanente, universale, feconda, lontana dalle stravaganze, fondata sulla ragione, regolata dal gusto, autorizzata dalla nazione in cui risiede la facoltà di far leggi» (Opere scelte, ed. cit., I, p. 138).

289 Lettera al conte Napione, in Opere, ed. cit., pp. 295-297.

290 Sarà poi da ricordare come alla base delle sue idee linguistiche ed estetiche ci fossero le teorie di pensatori del sensismo illuministico (Condillac, Michaelis, De Brosses), nonché riprese piú tenui eppur considerabili di vichianesimo e di stimoli contiani fin dalla sua formazione giovanile.

291 Opere, ed. cit., vol. XXXV, tomo I dell’Epistolario, p. 8.

292 Si veda la lettera (in risposta a quella del Van Goens del marzo 1768) in lode dei nuovi poeti tedeschi, Haller, Gessner e Klopstock (in Opere, ed. cit., vol. XXXV, tomo I dell’Epistolario, pp. 121-122) .

293 Poesie di Ossian, Discorso preliminare, in Opere, ed. cit., vol. II, Pisa 1801, pp. 7-8.

294 Poesie di Ossian, Discorso preliminare, in Opere, ed. cit., vol. II, p. 2.

295 La parte fondamentale delle Poesie di Ossian fu tradotta in endecasillabi sciolti, ma alcune parti vennero tradotte in polimetri variamente efficaci e in forme di canzonetta e di arietta melodrammatica. La traduzione cesarottiana occupa 4 tomi (i volumi II, III, IV e V) della edizione delle Opere cit.

296 Egli ne parlava proprio in relazione alle impressioni della natura «greggia», «immaestosa» e selvaggia del Nord che aveva provato direttamente nei suoi viaggi nei paesi scandinavi e che aveva poi ritrovato «descritte» «allorché piú anni dopo le lessi studiando i ben architettati versi del celebre Cesarotti» (Vita scritta da esso, epoca III, capitolo viii, nella edizione a cura di L. Fassò, Asti 1951, vol. I).

297 Rimando per l’utilizzazione leopardiana dell’Ossian (con l’aggiunta dei Nuovi canti d’Ossian del Leoni) al mio saggio già citato Leopardi e la poesia del secondo Settecento, alle pagine 101-107 e alle relative note alle pagine 123-124.

298 Poesie di Ossian, ed. cit., Colanto e Cutona, vv. 52-63.

299 Poesie di Ossian, ed. cit., Temora, canto II, vv. 362-366.

300 Poesie di Ossian, ed. cit., Temora, canto I, vv. 642-643.

301 Poesie di Ossian, ed. cit., Temora, canto II, vv. 506-509.

302 Poesie di Ossian, ed. cit., I canti di Selma, vv. 206-213.

303 Poesie di Ossian, ed. cit., La morte di Cucullino, vv. 142-143.

304 Poesie di Ossian, ed. cit., Temora, canto I, vv. 386-389.

305 Poesie di Ossian: Calto e Colama, v. 37; Fingal, IV, vv. 473-474; Calto e Colama, vv. 116-117; Carritura, vv. 481-482; Calloda, I, vv. 215-216 ; Berato, vv. 335-338; Fingal, VI, v. 218; Croma, v. 16; Oitona, vv. 11-13; Dartula, vv. 139-140; Fingal, III, vv. 257-259; Fingal, VI, vv. 333-334; Fingal, VI, vv. 335-336; Comala, vv. 345-346; I canti di Selma, vv. 185-186.

306 Poesie di Ossian, ed. cit., Cartone, vv. 583-fine.

307 Poesie di Ossian, in Opere, ed. cit., vol. XXXIX, p. 4.

308 Fu tradotta a Milano nel 1779, ma le idee del Winckelmann circolarono assai prima in Italia con altri suoi scritti che della Storia dell’arte presso gli antichi esponevano i principi essenziali.

309 Perciò «per noi l’unica via per diventare grandi e, se possibile, inimitabili, è l’imitazione dei greci» (in uno scritto del 1755, riportato e tradotto nella scelta winckelmanniana Il bello nell’arte, a cura di F. Pfister, Torino 1943, p. 9).

310 Si vedano in proposito alcune delle sue lettere nei volumi IX e X della versione italiana delle sue Opere (Prato 1830): quella al Berends del 17 settembre 1754 (IX, p. 85), quelle al Berg del 9 giugno 1762, del 10 febbraio 1764 e del 25 luglio 1767 (IX, p. 567 e X, p. 52 e p. 359), quella al Bünau del 17 settembre 1753 (IX, p. 89).

311 Si veda la lettera al Wiedewelt del 18 agosto 1759 (in Opere, ed. cit., IX, p. 358) che ben sottolinea il tono rapito e sognante con cui il Winckelmann intima all’amico una considerazione estetico-sentimentale dei capolavori classici: «Le rimanga impressa nel cuore la nobile maestà dell’Apollo, il sublime ideale del Torso e la dilettosa ed angelica bellezza del Genio Borghese e della Niobe».

312 Opere cit., II, p. 462.

313 Cito dalla scelta di scritti di Winckelmann, Il bello nell’arte cit., p. 25.

314 Si veda nel vol. cit. Il bello nell’arte, pp. 117-118.

315 Che trovavano del resto un certo aggancio nelle stesse idee di Winckelmann, circa il rapporto fra libertà politica e grandezza artistica dei greci. Quella era una delle condizioni che resero – secondo Winckelmann – i greci capaci di un’arte suprema, opposta a quella del Medioevo, del barocco, degli etruschi (a proposito dei quali ultimi assai interessante è – in contrasto con cosí diversi motivi preromantici – l’osservazione del Winckelmann che «essi furono troppo inclinati alla malinconia e alla tristezza» e perciò non capaci di «quella dolce emozione che rende lo spirito perfettamente sensibile al bello» (in Opere cit., II, p. 20).

316 Il Lanzi, studioso di forte formazione filologica-antiquaria (ai suoi interessi filologico-linguistici si deve il Saggio di lingua etrusca del 1789), si avvicina all’impostazione metodologica del Tiraboschi e come questi punta anzitutto sulle «verità di fatto», utilizzate per una caratterizzazione obbiettiva dei vari «stili» e «maniere» della pittura italiana.

317 Nato ad Oria nelle Puglie, studiò a Napoli alla scuola del Genovesi per passare piú tardi, nel 1761, a Roma, dove visse sino alla morte, ferocemente avverso alla curia, ai gesuiti, alla vanitosa «magnificenza» di Pio VI e al suo mecenatismo corruttore.

318 Si ricordi come esempio estremo di questa destinazione di utilità delle opere architettoniche ed anche come minimo esempio della prosa polemica e lucida del Milizia ciò che egli dice a proposito della «cloaca massima» romana contrapposta per utilità e robusta bellezza di struttura alla bruttezza e inutilità degli ornamenti della Sagrestia nuova di San Pietro voluta da Pio VI: «Oggetto vile e schifoso sembrerà una cloaca a certi esseri puliti e guasti, che si dicono del bel mondo. Senza cloache, cioè senza que’ condotti sotterranei entro de’ quali si scarichino le acque e le lordure, niuna città può tenersi netta e sana... Sono dunque le cloache della maggiore utilità pubblica. I Romani si accorsero ben presto di questa importanza. Eglino stimavano grande e nobile tutto ciò che è del bene pubblico e nobilitarono le cloache. Il maggior segno di nobiltà presso i Romani era la deificazione, come presso di noi è l’eccellenza, l’eminenza, l’altezza ed altri titoli fastosi: ed ecco la dea Cloacina presiedere alle cloache, come Saturno insignito del titolo di Stercolo presidente de’ letamai. Ridicolo non è quel che tende alla pubblica felicità, ma quel che tende a cose vane, a niente. Quindi Roma, fin da quando non era che un embrione, ebbe per cura di Tarquinio Prisco quella Cloaca Massima che è stata l’ammirazione di tutti i secoli e lo è tuttavia per i suoi superbi avanzi» (cito dall’edizione antologica a cura di G. Giarrizzo, G.F. Torcellan e F. Venturi in Illuministi italiani, VII, Riformatori delle antiche repubbliche ecc., Milano-Napoli 1965, pp. 568-569).

319 Dal Dizionario, in Opere di F. Milizia, Bologna 1826-1828, II, pp. 522-523.

320 Dell’arte di vedere nelle belle arti del disegno, Roma 1781, p. 57.

321 Del gusto presente in letteratura italiana, dissertazione del sig. dott. Matteo Borsa, ecc., Venezia, s.d. (ma 1784), p. 42.

322 Si vedano in proposito i Dialoghi fra il sig. Arteaga e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia 1786, e i Dialoghi fra il sig. G. Andrés e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia 1787.

323 I dialoghi uscirono, tra il 1783 e il 1794, in appendice al lunario «L’Eremita», e furono ripubblicati dopo la morte dell’autore nella rielaborazione che questi ne aveva fatto nel 1794, con l’aggiunta di un tredicesimo dialogo.

324 A. Paradisi, Poesie e prose, Reggio Emilia 1827, II, p. 160.

325 Nelle linee del «facilismo», cioè di riprese di poesia piú cantabile di origine metastasiana, potevano venir espressi temi ed argomenti assai interessanti da un punto di vista ideologico e storico, magari non privi, a volte, di autentico fervore espressivo (il caso delle poesie «massoniche» di Antonio Jerocades – 1738-1805 –, che tradusse persino Pindaro in strofette metastasiane, o il caso di Ignazio Ciaia – 1766-1799 –, martire della Repubblica Partenopea e autore di accese liriche di argomento patriottico-democratico), ma artisticamente arretrate e su di una via di cantabilità metastasiana che anche nel primo Ottocento contraddistingue (si pensi a Gabriele Rossetti) molta della produzione lirica meridionale, rispetto al diverso gusto dello stesso cantabile popolare-romantico di zone letterarie passate attraverso l’esperienza classico-romantica di tipo foscoliano.

326 Il Cerretti fu segretario dell’università di Modena e poi professore di storia e di eloquenza. Divenuto acceso repubblicano, fu ministro della Cisalpina alla corte di Parma e – dopo un periodo passato in Francia in seguito all’invasione austro-russa del ’99 – fu professore di eloquenza all’università di Pavia.

327 All’Ancella, secondo il testo dei Poeti minori del Settecento, a cura di A. Donati cit., I, p. 225.

328 Nella stessa epistola in sciolti all’Algarotti «in lode delle sue poesie» (in Poeti minori del Settecento cit., I, pp. 148-151) si potrebbe osservare come il Paradisi si muova, nel concreto suo fare poetico, in una direzione già neoclassica rispetto a quello delle epistole in versi del lodato Algarotti.

329 Poeti minori del Settecento cit., I, pp. 210-211.

330 Di Virgilio tradusse i primi sei libri dell’Eneide (traduzione rimasta inedita), di Orazio le Odi (traduzione pubblicata nel 1786 a Reggio Emilia).

331 In Poeti minori del Settecento cit., II, p. 305.

332 In Poeti minori del Settecento cit., II, p. 285.

333 In Poeti minori del Settecento cit., II, pp. 281-284.

334 In Lirici del secolo XVIII, a cura di G. Carducci, Firenze 1871, p. 535.

335 Persino nell’arredamento egli saluterà con gioia il fatto che «sulla fine del secolo le cinesi stravaganze abbiano ceduto il luogo alla greca delicatezza, tal che degne di Menandro, di Pericle e di Augusto sian le ricche suppellettili che a Parigi, a Londra e a Roma segnatamente si lavorano per la delizia e per comodo della vita» (Opere, raccolte e pubblicate da F. Mocchetti, in 10 voll., Como 1815-1830, I, p. 150).

336 Cosí nel Discorso accademico sulle belle arti, del ’72-75, la storia della pittura rinascimentale veniva fatta culminare in Raffaello e in Poussin (piú ricco di «bellezza ideale»). Ma nella consueta condanna neoclassica di Michelangelo pur si inseriva una lode al suo «pennello terribile», spia della aspirazione del Rezzonico ad un classicismo puro, ma insieme capace di grandiosità e di forza.

337 Premesso nel ’79 alla edizione delle opere del Frugoni e riportato nel vol. VIII delle Opere del Rezzonico, ed. cit.

338 Si veda in proposito – a segnare la consapevolezza neoclassica della «scuola lombarda» – la lettera al Bernieri (3 febbraio 1795, in Opere, ed. cit., X, p. 159) da Napoli, che coinvolge in un aspro giudizio lo stesso Metastasio, padre di questo facilismo arretrato, e in gara con il quale il Rezzonico scrive un dramma per musica Alessandro e Timoteo inteso a eliminare gli abusi del melodramma e ad imitare i greci nella nobiltà e potenza degli affetti.

339 Anche il poemetto L’eccidio di Como (che può esser ricordato per una vaga indicazione di preferenza preromantica per un quadro storico medievale) vale soprattutto come documento di questa aspirazione al grandioso nella rievocazione di storie bellicose ed eroiche. Veri elementi preromantici sono scarsi nel Rezzonico, che si avvicinò semmai alla poesia inglese secentesca: Dryden e Milton, di cui tradusse con notevole efficacia il Penseroso.

340 Nell’esercizio di questa lirica religiosa (intonata anche alla volontà di nuovi «miti»), e pur entro le sue mediocri dispersività, si staccano a volte strofe piú efficaci, movimenti di linguaggio fra avventato e robusto, che fan pensare a certi rapporti del Manzoni con simili direzioni neoclassiche (Opere, ed. cit., II, pp. 172-173):

E di natura attonita

per vendicar l’offese,

il florido paese

in lago ampio s’aprí...

Lui, che potrà la gelida

urna sprezzando e morte,

del Tartaro le porte

con man vittrice aprir.

341 Dalla canzone Per la solenne proclamazione del Duca di Sudermania sotto i nomi di Aerifilo Maratonio (in Opere, ed. cit., II, p. 51).

342 Opere, ed. cit., II, p. 144.

343 Opere, ed. cit., II, p. 100.

344 A. Mazza, L’aura armonica, in Opere, Parma 1816-1819, III, p. 22:

I miseri mortali a cui sí spesso

il tesoro del tempo è cura e noia,

armoniosa dilettevol aura,

sentono il tuo poter; e ’l cor d’antico

amareggiato e di recente affanno

disacerba per te; per te vien lieve

l’importabile allor fascio dell’aspre

cure, compagne della vita e altrici.

345 Il Mazza fu traduttore di molte poesie inglesi non solo piú pertinenti alla sua tematica dell’armonia e della musica (La cetra del Gray, La melodia del Mason, L’impero universale della musica del Pope, ecc.), ma anche di carattere sepolcrale e notturno, come il Canto notturno del Parnell, che poterono suggerire spunti al Leopardi.

346 Ma anche in queste odicine il Mazza mostra una singolare irrequietezza di immagine e di linguaggio, una sua difficoltà a stare nei limiti della eleganza sensibile e perspicua del modello savioliano, magari tentando espressioni piú nuove e ardue: «Ha colmo il sen tornatile» (nel Talamo).

347 Come egli scriveva in una lettera dell’11 dicembre 1792 a Teresa Bandettini, contenuta nell’epistolario di quella famosa improvvisatrice (volume 647 dei manoscritti della Biblioteca governativa di Lucca).

348 Opere, ed. cit., V, p. 79. Ma – si noti – in tale direzione di poesia civilizzatrice il Mazza punta non sulla funzione divulgatrice piú vasta (tipica di posizioni illuministiche), ma su quella di educazione di pochi animi «ben nati», non del «vulgo» al quale va, con fastidiosa insistenza, il suo sdegno pindarico-aristocratico.

349 Opere, ed. cit., III, p. 22.

350 Opere, ed. cit., III, p. 14.

351 Opere, ed. cit., III, p. 183.

352 Lo sforzo di originalità del Mazza nella ricerca di effetti grandiosi e nuovi, meno curanti di purezza e di eleganza a favore di un’efficacia «sublime», è documentato nel suo lessico che accumula (piú di quanto avvenga nel Rezzonico, che pure tenta composti autorizzati dai classici: «nottintero», «gemipomo», ecc., e applicazioni di linguaggio scientifico e filosofico), nella sua eloquenza vaticinante, calchi classici, riprese di forme dantesche e neoformazioni da queste e da quelli stimolate («attesorato», «centreggiare», «onnifica voce», «rettoconsigliante», «ognicosa-veggente», «infragile», «melodiale», ecc.), in relazione anche ad un linguaggio platonizzante e scolastico-tomistico accolto in un confuso eclettismo evidentemente non solo linguistico, ma ideologico, tipico della crisi di fine secolo in un ambiente inizialmente illuministico, sensistico e dotato, per una possibile reazione antiilluministica, di strumenti logori di una vecchia tradizione scolastica.

353 Giovanni Fantoni, Poesie, a cura di G. Lazzeri, Bari 1913, p. 14.

354 Cfr. U. Foscolo, Opere, Ed. Naz. cit., I, p. 246.

355 Teocrito, Mosco e Bione volgarizzati da Eritisco Pilenejo (pseudonimo del Pagnini), Parma 1780, II, pp. 161, 74, 61, 29.

356 In Scelta di poesie di Catullo, Firenze 1809, p. 51.

357 E si ricordi che proprio il Cerati poté essere insieme autore di un poemetto sepolcrale, La morte, e viceversa di satire contro il tetro costume preromantico, come La magreide e l’Ipocondria.

358 U. Landi, Il museo della morte, in Poemetti italiani, Torino 1797, XII, p. 60.

359 Orrore che si fa piacere come nei versi seguenti del Richeri, già riportati come esempio di un’Arcadia lugubre e notturna nel volume di E. Bertana, In Arcadia, Napoli 1909, p. 435:

Ha sue bellezze ancora

orribil rupe incolta,

la valle piú sepolta

ha le sue grazie ancor...

Cosí profondo, opaco

orror m’ispira al core,

ma quel medesmo orrore

diventa un bel piacer.

360 Cito dalle Rime di A. Viale, Genova 1794, p. 64.

361 Rime cit., p. 156.

362 Pubblicata insieme all’Antonio Foscarini e Teresa Contarini del Pindemonte, in Novelle di Polidete Melpomenio e di Lirnesso Venosio (pseudonimi arcadici dei due autori) a Napoli nel 1792.

363 T. Gargallo, Novelle. ed. cit., p. 90.

364 In Poeti minori del Settecento, a cura di A. Donati, ed. cit., II, p. 257.

365 Nella lettera alla Saluzzo riportata nella edizione delle Poesie postume di quella, Torino 1843, pp. 619-620.

366 Cito dai Versi di D. Saluzzo Roero, IV edizione corretta ed accresciuta, 4 voll., Torino 1816-1817, vol. II.

367 Tradusse l’Amleto e l’Otello, chiamando Shakespeare «sorprendente mostro di bellezza e difetti», ma anche «poeta sovrano», i cui «squarci nobili, che son molti, sono il punto piú elevato della poesia e i suoi difetti hanno pure una certa stranezza e meraviglia che indica essere parto di un ingegno straordinario» (cito da passi riportati nel saggio di S. Colognesi, Shakespeare e Alessandro Verri, in «Acme», XVI, 2-3, pp. 183-216, che studia quelle versioni inedite). Nelle due tragedie e specie nella piú interessante Congiura di Milano, il Verri tentava un teatro «italiano» che fosse di mezzo fra la «troppa arte» di quello francese e «la troppa natura» di quello inglese.

368 In A. Verri, Le notti romane, a cura di R. Negri, Bari 1967.

369 Insomma una Saffo ardentemente preromantica che poté incidere nella genesi dell’Ultimo canto di Saffo del Leopardi (e a quello prestò indubbiamente stimoli e spunti di paesaggio), ma che il Leopardi capovolse nella motivazione del suicidio non punizione divina ed esito di un’avventura di titanismo frustrato ma protesta di una vittima innocente della malvagia natura e di Dei scellerati. Si veda in proposito C. Muscetta, L’ultimo canto di Saffo (in Ritratti e letture, Milano 1961) e C.F. Goffis, Titanismo e frustrazione in due romanzi di A.V. (in «La Rassegna della letteratura italiana», 1964, 2-3, pp. 341-365).

370 Ché talvolta è ben significativa anche per lo svolgimento ideologico del Verri dalle forme piú paradossali e irrequiete del suo illuminismo giovanile, già volte a esaltare ignoranza ed errori utili, alla piú consolidata sfiducia nell’«orgoglio delle filosofiche esortazioni», nei mezzi del «raziocinio», là dove possono soccorrere solo il cuore e una fede spiritualistica nella provvidenza e nella immortalità dell’anima.

371 Si rilegga cosí (antologizzata in funzione di chiare consonanze leopardiane) questa sequenza di periodi fra paesaggio, stato d’animo, e riflessioni della protagonista: «Placida è tutta la natura, tranquillo è il cielo... Sorgea la splendente luna e già apparve l’ampio di lei volto dietro le foglie di un denso albero... Ma se placida era la notte, ognor piú cresceva il tumulto nell’animo di Saffo... Io sola in mezzo della calma universale sono agitata da crudele tempesta...» (e Saffo è seduta «sul margine erboso») (cfr. A. Verri, Romanzi, Milano 1820, pp. 48-63, e sui rapporti Leopardi-Verri si veda il mio saggio citato Leopardi e la poesia del secondo Settecento, pp. 108-109 e 125-126).

372 Il Verri, si noti bene, riutilizzava nella terza parte, a lungo rimasta inedita (per l’impressione del Verri di dispiacere troppo ai suoi contemporanei sia liberali, sia progressisti, sia conservatori, ma piú legati al senso degli stati singoli di fronte al suo sogno neoguelfo di predominio del papato), la sua giovanile e inedita Storia d’Italia, diversamente orientata, ma pure fondata su forti dubbi circa la gloria, la potenza di stati fondati sulla forza e sulla violenza.

373 Il Piranesi soprattutto della Magnificenza ed architettura dei romani, in cui il neoclassicismo trovava una versione eroico-drammatica, una tensione nostalgica ossessiva e robustamente preromantica, come la tomba vi diveniva sepolcro eroico-morale in direzione foscoliana. Si veda, per esempio, nelle Notti, questo passo sulle rovine: «... Ohimè, chi ravvisa ora le vestigia appena de’ marmorei atri e de’ monumenti angusti fra i pingui erbaggi, e le zolle immonde! – Faceano eco a que’ lamenti le turbe, e tale spettro guardando una urna vòta, soggiunse: Qui giaceano le nostre ossa, ora il vento ne sparge la polvere divenuta ludibrio suo... La superba cima de’ cipressi ondeggia al vento sulle deserte ruine, e le radici loro penetrano in quelle, dove non giunge da secoli il raggio del sole. Giacciono le marmoree colonne dell’Asia, sono disperse le basi come vile ingombro del campo, e queste che reggono alle ingiurie vostre, altre ruine della reggia, rimangono insegna di barbara desolazione...» (A. Verri, Le notti romane, ed. cit., pp. 164-165).

374 E si pensi – per la fertilità delle Notti in direzione di nuovi e ben piú grandi scittori – all’attenzione che il Leopardi del Coro dei morti poté avere per certe frasi verriane.

375 Scritto in cui è notevole l’acutezza con cui il Bertola constatò il disaccordo fra i ceti popolari italiani e le nuove istituzioni repubblicane e quindi la necessità di una rapida educazione di quelli come sine qua non dell’esistenza stessa delle nuove repubbliche democratiche.

376 Cfr. U. Foscolo, Opere, ed. naz., II, Tragedie e poesie minori, a cura di G. Bezzola, Firenze 1961, pp. 285-287.

377 Né si dimentichi la professione massonica del Bertola che colora di idealità illuministico-deistiche la sua vaga religiosità cristiano-umanitaria e il suo stesso amore per la benefica natura.

378 A. De’ Giorgi Bertola, Notti clementine, Arezzo 1775, p. VII.

379 Notti clementine, ed. cit., p. VII.

380 Né può dimenticarsi il fatto che lo stesso linguaggio critico del Bertola si arricchí di termini della tecnica pittorica.

381 Il Saggio sopra la grazia nelle lettere ed arti, letto nell’Accademia pavese degli Affidati nel 1786, uscí postumo nel 1822.

382 Cito dalle «Poesie» di A. Bertola riminese, Ancona 1815, vol. I.

383 «Nazion felice in cui il linguaggio di cuore de’ primi uomini non è forestiero!» (Idea della bella letteratura alemanna, Lucca 1784, I, p. 15).

384 Idea della bella letteratura alemanna cit., p. 105.

385 Operette in prosa, Venezia 1829, p. 56.

386 Viaggio sul Reno..., che cito nella edizione a cura di A. Baldini, col titolo di Viaggio pittorico e sentimentale sul Reno, Firenze 1942, p. 114.

387 Viaggio cit,, ed. cit., p. 157.

388 Viaggio cit,, ed. cit., p. 107.

389 Viaggio cit,, ed. cit., p. 166.

390 Viaggio cit,, ed. cit., p. 127.

391 Viaggio cit,, ed. cit., p. 229. E a misurare la capacità raffinata del Bertola nel condurre dalla descrizione sfumata e mobile di un paesaggio e dei suoi effetti luministici a una impressione di piacere e di «prodigio» si rilegga almeno questo passo (Viaggio cit,, ed. cit., p. 227): «Quali accidenti di luce! Avevamo per contro a noi una specie di mare illuminato gradatamente, ma con forza; mentre al nostro fianco destro era un panneggiamento tenebroso, mitigato qua e là dalle brillanti prominenze: sulla sponda sinistra poi, esposta al mattino, un ammasso vaporoso e ondeggiante rivestito dalla luce, indorando sottilmente le alture maggiori, dava un certo risalto al margine opposto, le cui tenui eminenze quasi trasvolavano una dietro l’altra. Secondo che ci avanzavamo, veniva a farsi su tali oggetti alcun piacevole mutamento. Or questo cosí frequente cangiarsi di colori e di forme in tutti i lati, questo scemare, questo crescere, questo scorciarsi e prostendersi degli uni e delle altre per poco che l’osservatore s’inoltri, si ritiri, o si rivolga, desta in lui non so quale idea di prodigio».

392 Le Anacrontiche ad Irene apparvero nella prima edizione delle Rime (1784) e furono accresciute nelle edizioni successive.

393 Il tupè, Lo specchio, Il commercio, Il naso, I maccheroni, Il farnetico. Il Vittorelli fu anche modesto traduttore della Batracomiomachia.

394 Anacreontiche ad Irene, IV. Cito dalle Poesie di J. Vittorelli, a cura di A. Simioni, Bari 1911.

395 Si ricordi la forte presenza della poesia didascalica nell’ambiente veronese, sottolineata poi dallo stesso Pindemonte in molti dei suoi tardi Elogi di letterati come lo Spolverini.

396 Versi di Polidete Melpomenio, Bassano 1784, pp. 71-72.

397 Un Saggio di prose e poesie campestri uscí però a Verona già nel 1795.

398 Si ricordi, nella poesia Alla Luna, questo quadretto paesistico prezioso e pur alleggerito da una mano piú lieve e da una sensibilità piú sciolta e sentimentale:

Talor quell’onda blanda,

tuo specchio, ti consiglia,

quando la tua ghirlanda

di ligustro, e giunchiglia,

se turbolla per via rabido vento,

tu ricomponi con la man d’argento...

Cito dalle Prose e poesie campestri, Verona 1817.

399 Si noti la contrapposizione significativa fra questa ninfa e la dea dell’amore: «Piú dell’attorta / chioma, e del manto, / che roseo porta / la Dea d’Amor: / e del vivace / suo sguardo oh quanto / piú il tuo mi piace / contemplator».

400 Cfr. Le prose e poesie campestri, ed. cit., p. 18.

401 Notevole, per questo significativo accordo fra godimento visivo e moralità sentimentale sicura, questo passo del Mattino nelle Poesie campestri:

Sol chieggo, che alle corte ed ultim’ore,

quando vien l’anno della vita meno,

quello almen tra i miei sensi, alle cui porte

sta l’alma per vedere, io serbi forte.

Ma s’io, ciò, Sole, ascolta ancor, s’io mai

alla madre cessar l’omaggio antico

di rispetto e d’amore, o ne’ suoi guai

dovessi un dí non ascoltar l’amico;

se fosse per levar non finti lai,

senza un sospiro mio, l’egro mendico,

o da me in vista nulla men dogliosa

l’orfano per partire, o l’orba sposa;

possano d’improvviso entro un eterno

orror notturno gli occhi miei tuffarsi,

ed al tuo, sacro Sol, lume superno,

di trovarlo non degni, invan girarsi:

né piú quindi apparisca a me l’alterno

delle varie stagion rinnovellarsi,

né sul pallido ciel mirar vicino

goda il ritorno del gentil Mattino.

(Il Mattino, vv. 77-fine)

402 Le prose e poesie campestri, ed. cit., pp. XIII-XIV.

403 Le prose e poesie campestri, ed. cit., pp. 108-109.

404 Cfr. in proposito il mio saggio piú volte citato Leopardi e la poesia del secondo Settecento, pp. 99-101.

405 «L’anima nostra, che rade volte del presente si appaga, volentieri o verso l’avvenire s’innoltra col desiderio, o sovra il passato ritorna con la reminiscenza... Piú volentieri risale al tempo passato, e riproducendo in qualche maniera le cose, che piú a lei furono grate, queste in qualche maniera gusta di nuovo, e rivive, per dir cosí, la migliore sua vita. Con piacer grande ricorro sempre ai giorni della prima mia giovinezza... che tempi quelli non sono, quando tra per que’ primi bisogni d’un cuor vergine, e pien di vigore e di vita, e per l’inesperienza degli uomini, e la consolante fiducia, che ne risulta, tu t’abbandoni subito a’ tuoi sentimenti...» (Le prose e poesie campestri, ed. cit., pp. 14-17).

406 «Non vorrei parere il panegirista dell’ignoranza: ma certa cosa è, che il diletto, che lo spettacolo generale della natura produce in noi, viene indebolito non poco dalla cognizione scientifica della stessa natura... Quanto non è bella l’azzurra volta del cielo? Ma s’io comincio a pensare, che non ha colore alcuno, e che le particole dell’aria riflettono nella loro immensa totalità quel colore, come fan quelle dell’acqua del mare, la volta azzurra non è piú agli occhi miei ugualmente bella. Cosí dicasi d’una montagna lontana, ed anche d’una foresta, che per l’aria frapposta di verdastro in azzurrognolo si trasmuta. Me ne dite il perché? Svanisce tosto l’incanto. Una delle piú rare scene, che la campagna ci offra, è quella del Sole nel suo tramontare. Ella m’è ancor piú cara di quella del Sole nascente, forse in grazia di una di quelle considerazioni che si fanno quasi senza avvedersene. Il Sole, che nasce, sappiamo che rimarrà con noi per alcune ore: Quello, che muore nol rivedremo che il giorno appresso. Ora non è egli cosí d’ogni cosa, che allora ci par piú preziosa e grande, che ci sfugge e abbandona? Ma se allor penso all’origine bassa e terrestre di quelle nubi, ond’è circondato, e nelle quali egli scherza sí vagamente co’ lucidi suoi colori; se penso a quella distanza, che tra le nubi e lui, grandissima corre; se mi ricordo che quando egli tramonta, come allor che sorge, io non veggo già lui, ma l’immagine sua posteriormente, come anteriormente nel sorgere, da quelle ingannatrici delle rifrazioni dipinte, no, la scena del Sol cadente non è piú quella. Non veggo piú con egual piacere per metà immerso l’orbe suo cotanto ingrandito, non la rossa curva, che dar sembra un’ultima occhiata al Mondo, e poi sparisce ad un tratto, non quella polve d’oro, o piuttosto d’ambra, che tosto si leva, finché dileguandosi a poco a poco, cede il luogo ad un bel candore, e questo alla porpora del crepuscolo ancor piú bella: mentre con l’aure della sera, con le rugiade, e con l’ombre, che van succedendosi una piú bruna dell’altra, viene il silenzio, la calma, il riposo, la meditazione, e i piaceri tutti dell’anima a regnar vengono su l’oscurato Emisfero» (Le prose e poesie campestri, ed. cit., pp. 35-37).

407 Quando il Pindemonte si volse a frigide poesie illustranti sculture canoviane dopo di aver riscaldato la versione dell’Odissea con un piú congeniale amore neoclassico-preromantico per una poesia di affetti e vicende piú familiari che eroiche (di questa versione si parlerà nel successivo volume di questa Storia in un capitolo dedicato alle traduzioni del periodo neoclassico di primo Ottocento).

408 Come dice di sé nella poesia Il lago di Ginevra (la si veda nella edizione delle Poesie originali del Pindemonte, a cura di A. Torri, Firenze 1858, p. 384). Si consideri già il tema di molte di quelle poesie: Passando il Mont-Cenis, Cascata tra Maglan e Sallenche, Caduta del Reno, Ghiacciaie di Boissons e del Montavert nella Savoia (per la quale ultima una didascalia iniziale precisa significativamente: «Si finge di vedere ogni cosa in sogno»).

409 Seguo ancora il testo datone in Le poesie originali cit., edizione tenuta presente anche per la successiva citazione.